Maria Luisa Moscati Benigni
C’è nel Palazzo Ducale di Urbino (la Galleria Nazionale delle Marche) un curioso dipinto, su tavola: è diviso in sei quadri, il colore dominante è il rosso. Si tratta della famosa “predella” dipinta dal pittore fiorentino Paolo di Dono tra il 1467 e il 1468; su di essa era posta la grande pala dipinta poi dal fiammingo Giusto di Gand. Storie come questa, cioè di miracoli derivati da presunte profanazioni di ostie, risalgono alla fine del ‘200, e furono il motivo ispiratore di molti “misteri”, le sacre rappresentazioni del teatro popolare religioso medievale.
In particolare, la storia illustrata nella “predella” si ispira al “mistero parigino” del 1290, raccontato nelle cronache di Giovanni Villani, sia pure con qualche variante.
Scena prima: siamo all’interno di un banco di prestito ebraico. Lo si desume dallo scorpione dipinto sulla cappa del camino (lo scorpione usato come simbolo antiebraico dai Padri della Chiesa è presente in Urbino anche nella Crocifissione dell’Oratorio di San Giovanni).
La vendita sacrilega avviene tra il gestore del Banco e una donna che, a differenza di quanto narrato nella versione originale, riceve una borsa di denaro.
Scena seconda: è evidente la derivazione teatrale della scena, con la parete che fa da quinta per dividere l’interno della casa dell’ebreo, con moglie e figli sconvolti, dall’esterno ove agiscono le guardie richiamate dal rivolo di sangue che esce dalla casa. Sul trepiedi poggia la padella da cui trabocca il sangue, secondo la nuova più recente versione del vescovo Antonino.
Scena terza: con una solenne processione, l’ostia è ricondotta sull’altare, da un personaggio che indossa un ricco manto e la tiara. Forse è lo stesso Papa Bonifacio VIII che nel 1295 fece erigere a Parigi una cappella votiva dedicata all’evento miracoloso.
Scena quarta: è l’impiccagione della donna rea di aver venduto l’ostia, ma la presenza dell’angelo fa pensare ad una possibilità di perdono.
Scena quinta: soldati armati di picche e spade sorvegliano un rogo, tra le fiamme l’ebreo con la moglie e i figli piccolissimi.
Scena sesta: angeli e demoni si contendono l’anima della donna morta impiccata. Il fanatismo popolare si è accanito sulle figure dei demoni che appaiono ricoperte di graffi.
È un po’ come i cartelloni divisi in riquadri che i cantastorie presentavano nelle piazze, illustrandoli con il canto: erano storie cruente che affascinavano gli ascoltatori. L’immagine fa da supporto alla storia cantata.
Qui però la storia è predicata in chiesa, assume perciò il valore di una verità indiscussa, suscita emozioni profonde, accende gli animi, non solo di ardore religioso, ma anche di odio verso gli ebrei, prestatori e non.
La loro presenza è indicata come causa dell’ira divina e quindi dei mali che affliggono i popoli.
Per questo tipo di pubblicità negativa, che oggi in TV costerebbe milioni, la Confraternita del Corpus Domini, committente dell’opera, non ha neppure dovuto sostenere grandi spese.
Infatti, quando Paolo, ormai settantenne, giunse in Urbino non era considerato al pari dei grandi del suo tempo, poiché, a causa del suo continuo ostinato impegno negli studi sulla prospettiva, era fortemente criticato. Per questo forse riceve dalla Confraternita non solo un compenso minimo (21 bolognini al mese, quando Mastro Ghignaldo ne prende 18 per “un paro” di scarpe), ma ne saranno via detratte le spese che la Confraternita paga per lui, anche quelle più irrisorie.
Per citarne alcune, al 24 settembre 1467 “4 bolognini per sistemare la stanza di Paolo e una corda nuova per il pozzo”; al 17 ottobre “1 bolognino per un fascio di paglia fresca per il letto di lui”.
E poi, “6 per un bigonzo d’uva e uno per la carta reale alle finestre….”; e nel gennaio 1468 “a Gaspare del Buffa per pagno scarlattino, 19 bolognini per un giupino per mastro Paolo” (1).
Come si può vedere “Mastro Paolo depintore” non può neppure pagarsi le spese personali: provvede la Confraternita che però sul retro del foglio tira le somme e le detrae dal mensile.
Non c’è da meravigliarsi se, trovandosi al mercato, non ha un “grosso” per comprare un “monachino rosso”, tanto che tornando a casa, se lo dipinge nella propria stanza su un tenero ramo di melo, fra gli altri uccelli che vi aveva dipinto. Per questo era chiamato Paolo Uccello.
Il pittore dunque è povero, non ha potere decisionale sul soggetto da dipingere, per questo è attribuibile al committente il carattere fortemente antiebraico, anzi una particolare ferocia nella condanna non solo dell’ebreo, ma dell’intera famiglia, compresi i due bambini.
Infatti solitamente avveniva che nei casi di accusa di profanazione o di omicidio rituale era sì perseguitata l’intera comunità ebraica, ma sul rogo finivano il presunto responsabile e i vecchi più rappresentativi della comunità.
Ma la scena doveva colpire.
Così come particolarmente cruenta è la raffigurazione della predella con l’ostia candida che galleggia ben visibile, tra il sangue che trabocca ed esce fin sulla strada.
Nulla è lasciato all’immaginazione.
Infatti nella sacra rappresentazione, così come era diffusa nella seconda metà del ‘400, l’ostia era messa in una pentola di acqua bollente; qui invece ci si ispira alla versione attualissima del vescovo di Firenze San Antonino, perché altrimenti l’ostia non sarebbe stata abbastanza visibile e quindi impressionante.
Campagne diffamatorie antiebraiche ce n’erano sempre state, ma vanno ricercate le cause di questo improvviso acuirsi, proprio nel ducato dei Montefeltro, che da secoli vanta una pacifica convivenza.
La predella serviva da supporto alla predicazione dei Frati Minori dell’Osservanza. Questo ordine si era costituito nel 1368 distaccandosi dal ramo principale francescano, e si era per così dire “specializzato” nella predicazione, soprattutto in occasione della Pasqua, quando durante la Quaresima si alternavano, richiestissimi dai parroci, predicatori particolarmente infervorati come Giovanni da Capistrano, Fra Domenico da Leonessa o Bernardino da Feltre… uno stuolo di discepoli di Fra Bernardino da Siena.
Per mezzo secolo le prediche di quest’ultimo furono seguite, attese, ascoltate, dal popolo entusiasta: inveiva contro il lusso della Chiesa (che per ben due volte lo accusò di eresia, per poi santificarlo dopo morto) e soprattutto contro gli ebrei, ritenendo che la miseria del popolo derivasse, non già da chi gli toglieva denaro con imposte e decime, bensì da chi glielo forniva a prestito. Quindi era necessario togliere agli ebrei le condotte feneratizie e sostituirle con forme di prestito gratuito che potessero sopperire alle necessità del popolo minuto.
Nascono così, un po’ dovunque, i Monti di Pietà; in Urbino nel 1468, a firma della Duchessa Battista Sforza, sotto gli auspici di Fra Domenico da Leonessa e per volontà della Confraternita
che con un tempismo degno della più moderna agenzia pubblicitaria fa “uscire” la Predella.
Però i Monti di Pietà, così come vengono ideati falliscono presto (troviamo Monti di II e persino di III o IV erezione). Il prestito, con pegni poverissimi, è sì senza interesse, ma minimo, appena sufficiente per sopperire ai bisogni più urgenti, a volte per una pagnotta di pane.Lo statuto precisa che non può essere usato per attività commerciali o per migliorare le condizioni di vita.
Ne deriva che commercianti, artigiani o lo stesso Signore e il Comune continuano a ricorrere al prestito ebraico, anzi i Comuni alzano o abbassano a loro arbitrio il tasso di interesse o lo annullano addirittura a svantaggio di altre categorie.
Questo accadeva quando al Comune servivano prestiti per i quali non era in grado di corrispondere l’interesse pattuito e pertanto autorizzava un aumento dell’interesse a danno dei clienti del banco, effettuando così una specie di tassazione indiretta. Ciò non poteva non acuire l’odio verso gli ebrei specie da parte di quegli strati della popolazione che doveva ricorrere sempre più spesso al prestito per sopravvivere.
Solo dopo la bolla di Papa Leone X del 1515 con la quale si rimuove il divieto di percepire interesse a favore dei Monti di Pietà, questi sono in grado di assolvere, con una certa continuità, la loro funzione di soccorso per i poveri.
C’è ora da chiedersi come mai lo stesso Paolo Uccello che aveva così bene eseguito il suo lavoro e certamente soddisfatte le aspettative della Confraternita, non abbia completato egli stesso l’opera eseguendo anche la pala sovrastante.
Eppure nel 1470 è ancora presso la Confraternita, se nella nota spese è segnato “Paulo dictus Uccellj de Fiorenza addì 23 de febraro fiorini 18……sono per una sua ragione”.
Insospettisce tanto mistero per una somma così ingente, mentre ogni altra spesa, anche la più irrisoria, è sempre giustificata. Forse un risarcimento per averlo sollevato dall’incarico di completare l’opera. Infatti già l’anno precedente Giovanni di Sante da Colbordolo aveva mostrato la grande tavola, già preparata da Paolo Uccello, a Piero del Borgo (della Francesca) e infine a Mastro Giusto di Gand, che poi eseguì il lavoro.
Anzi, il Duca stesso dà in data “7 de marzo 1474 fiorini 15 d’oro contanti per detta fraternita per aiutorio de la spesa della tavola della fraternita”. Forse Federico da Montefeltro, in quel momento “pacifista” anche a proposito della questione turca e della Crociata indetta da Sisto IV, ha cercato di sedare gli animi della Confraternita, contribuendo alla spesa, e degli ebrei, donando alla sinagoga (quella in via dei Merciari, oggi via Veterani) lo splendido Aron che è oggi al Jewish Museum di New York, e soprattutto facendo ultimare l’opera da un altro artista, che porrà accanto al Duca stesso Isaak, dotto ebreo spagnolo “magnus medicus” convertito.
L’insieme, pala e predella, offre con una grandiosa immagine, un’ulteriore celebrazione del Corpus Domini, nella predella l’ebreo sacrilego sul rogo, nella pala sovrastante, grazie alla conversione alla “vera fede” l’ebreo alla destra di Federico.
A quell’insieme generazioni di urbinati hanno alzato gli occhi al termine dell’annuale processione del Corpus Domini.
Naturalmente, con questo continuo bombardamento di immagini, la vita per gli ebrei del ducato comincia a mutare, anche se per tutto il ‘400 e il secolo successivo, i banchi ebraici continueranno a svolgere la loro funzione di veri e propri istituti bancari, con una concentrazione sempre maggiore a Pesaro, sede ormai preferita dalla corte. (Nel 1626 ci sono ancora otto banchi ad Urbino, e diciannove a Pesaro) Tuttavia il seme dell’odio era ormai gettato, e tra gli strati più bassi della popolazione covava il malanimo, tanto che i bandi ducali in difesa degli ebrei e delle loro sostanze sono sempre più frequenti.
Ma perché gli ebrei prestavano denaro?
Lo stereotipo dell’ebreo usuraio, che con la mano ad artiglio stringe saldamente una borsa di denari, è un classico, dipinto sin troppo bene da Paolo di Dono. Quando a poco a poco gli ebrei furono esclusi da ogni attività e costretti al solo commercio della “strazzeria” e del denaro ben si sapeva che così facendo si creava una figura odiosa, invisa a tutti, poiché nulla tocca l’uomo come l’interesse.
Che quella del prestito non fosse la loro attività preferita lo dimostra il fatto che, appena liberi di scegliere, come dopo la Rivoluzione Francese e più ancora con l’emancipazione dopo il 186O, quegli ebrei che erano economicamente in grado di farlo, frequentarono le università. Fiorirono letterati, scrittori, poeti e non solo medici come per il passato: di ebrei banchieri in tutta Europa, se ne contavano ormai, sulle dita di una mano.
Fino a tutto il ‘2OO non troviamo, per lo meno in Italia, ebrei prestatori, è lo stesso S. Tommaso che ne dà notizia.
Nella loro terra erano stati pastori, poi nella diaspora a causa dei continui spostamenti cui erano costretti, avevano esercitato quelle attività che permettevano di abbandonare un luogo senza subire gravi perdite: il commercio e l’artigianato.
Grazie ai legami di parentela con coloro che abitavano lungo le coste del Mediterraneo verso Levante, aprirono la via al commercio delle spezie e dei tessuti, specie delle sete, attività in cui gli ebrei potevano partecipare direttamente fin dal primo stadio con la cultura del gelso, l’allevamento del baco da seta nonché della tessitura, fino alla confezione degli abiti. Questo naturalmente quando e dove erano loro permessi lunghi periodi di permanenza, cosa assai frequente nel medio evo.
Federico II li aveva addirittura provvisti dell’esclusiva dell’arte serica per tutte le terre del Mezzogiorno.
Altra attività era la tintura dei tessuti, arte appresa sia durante i secoli di convivenza, pacifica e fattiva, con gli arabi in Sicilia e sia dagli ebrei stessi provenienti dalla Grecia.
Lavoravano e decoravano il cuoio, conciavano pelli, lavoravano e commerciavano in metalli preziosi, erano amanuensi, trascrittori instancabili di Bibbie e Talmud (2) e più tardi divennero stampatori..
Molte di queste attività erano sconosciute, o applicate empiricamente nelle nostre terre, fino all’arrivo degli ebrei dalla Sicilia (3).
Dalla Spagna, nel ‘5OO portarono l’arte della ceramica, che venne ad innestarsi su quella già esistente nella zona: figurano i nomi di Isaac Cohen, Isaac Azulaj e nel 1556 Moses Fano maiolicaro in Urbino (4). Gli Azulaj, in particolare, portarono il blu cobalto e il giallo delle azulejas spagnole. Tanti antichi mestieri venivano svolti in qualunque parte delle città, a contatto con i cristiani in mezzo ai quali vivevano liberamente, ma quando questi formarono le Corporazioni di Arti e Mestieri, tutte rigidamente religiose e sotto il patronato di un santo, gli ebrei ne furono ovviamente esclusi, né era possibile esercitare al di fuori di esse.
Disponevano però di denaro liquido, merce rara a quei tempi, e questo per due motivi ben precisi: l’obbligo religioso di lavorare sei giorni alla settimana, non avrebbe senso altrimenti la sacralità del riposo sabatico, permetteva di realizzare un certo guadagno e le limitazioni sulle proprietà, (in genere era permesso di possedere la casa, la bottega e l’orto e non sempre e non ovunque) impedivano di investirlo.
Cominciarono così a prestare col consenso del IV Concilio lateranense, anzi quella del prestito e del commercio degli stracci, furono per lungo tempo le uniche attività permesse.
Ufficialmente il prestito era proibito ai cristiani (a dire il vero la Mishnà lo vieta anche agli ebrei, ma in quel particolare momento storico era per essi l’unico sostentamento di vita), ma nonostante il divieto, le grandi banche dei prestatori toscani, come i Bardi, gli Acciaiuoli e i Peruzzi nonché Lombardi e Senesi continuarono a prestare, senza limitazione nei tassi non essendo questi sottoposti a controllo alcuno.
Per i bisogni del popolo minuto o dei piccoli comuni si ricorre ai banchi ebraici.
Funzionamento della “condotta”
Il prestatore era considerato quasi un pubblico ufficiale e pertanto aveva la condotta come il medico e il maestro.
Così chiamata perché era lo stesso Comune, o il Signore, che conduceva all’interno della città un ebreo prestatore, la condotta era regolata da accordi stipulati e registrati negli atti notarili. Entrambe le parti erano tenute al rispetto dei capitoli contenuti nell’atto per cui lo stesso conte Guidantonio, nel 1433, allorché riceve la richiesta di due prestatori di Recanati Sabbatuccio e Gaio, di venire in Urbino per tenervi banco (5), risponderà che dovranno prima averne autorizzazione dall’attuale gestore del banco, Salomone di Isaia, discendente di quel maestro Daniele giunto in Urbino, da Viterbo, ai primi del ‘300, ad esercitarvi il prestito, dopo di ché potranno venire ed essere trattati “ut cives”, come tutti gli altri cittadini. (6)
Veniva innanzitutto stabilita la durata della condotta, solitamente di tre, cinque o dieci anni, era tacitamente permesso il protrarsi di un paio d’anni, poi venivano rinnovati i capitoli.
Il prestatore si impegnava ad esercitare con entrambe le forme del prestito: su pegno e chirografico.
Le clausole che regolavano il prestito su pegno prevedevano l’obbligo della restituzione del pegno alla scadenza, se riscattato; un addetto del Comune il “massarolo dei pegni” ritirava quelli non riscattati in tempo utile e li poneva all’incanto sulla pubblica piazza. Il ricavato, tolto quanto dovuto al prestatore, veniva versato nelle casse del Comune, poi, dopo la loro istituzione, in quelle dei Monti di Pietà. A Fano invece, rimborsate la vera sorte al prestatore e le spese al Comune, “quello che avanzava (andava) a quello che haveva impegnato “. (7)
Per la seconda forma del prestito, andava steso un contratto chirografico, cioè uno scritto in cui erano annotati i termini dell’usura e firmato dalle parti. Si precisavano data di scadenza e relativo interesse, poichè questo variava secondo la durata. Era di circa un bolognino per ducato al mese (pari al 33% annuo) per i prestiti a brevissima scadenza che non superavano i tre mesi ed erano i più frequenti.. Raramente arrivavano alla durata di un anno, in questo caso il tasso scendeva al 16 o anche al 12 %, molto più rari i prestiti per periodi più lunghi.
Spesso, già nella stipula del contratto per la concessione della condotta, era previsto il prestito gratuito al concedente, ad esempio nella vicina Fano i Malatesta fissano, nel 1464, a 500 ducati la somma da richiedere annualmente, e anni dopo la portano a 1000., il tutto ovviamente senza interessi.
Viene anche fissata la tassa annua per la concessione del banco.
I registri debbono essere tenuti in latino o in lingua volgare, e non in ebraico, perché possano essere controllati in qualsiasi momento dai sindaci preposti al controllo dei banchi (8).
Sempre nel contratto sono fissate le pene da applicarsi nel caso di mancato rispetto dei capitoli da parte del prestatore: una multa da pagarsi alla Camera Apostolica e restituzione del doppio di quanto indebitamente percepito.
Naturalmente erano precisati anche i benefici concessi al prestatore: era dispensato dal portare il segno (una specie di rotella gialla di stoffa cucita sugli abiti), poteva portare con sé la propria famiglia e quelle degli impiegati del banco;, costituendo così un primo nucleo, gli era riconosciuto il diritto di avere una sinagoga o comunque un oratorio, e non essere disturbato durante lo svolgimento dei riti, e persino di poter girare armato quando si trovava fuori le mura.
Potevano abitare in qualunque parte della città (a dire il vero ciò in Urbino era permesso a tutti indistintamente, almeno sino alla costituzione del ghetto), potevano tenere servitù cristiana, cosa che verrà poi proibita, .ed infine veniva loro garantita la protezione delle autorità, contro ogni violenza.
Alla piccola comunità era concesso un pezzo di terreno per la sepoltura dei morti.
Questi erano i Capitula, pressoché identici per ogni contratto, ma erano poi previste altre imposizioni, , come si legge nella lettera che il Cardinale legato invia nel 1447 agli ebrei di Urbino, Ancona, Pesaro, Fano, Cagli, Fossombrone e giù giù fino a Macerata, in cui si chiede la tassa speciale alla Camera Apostolica, chiamata la Taglia della Marca.
Questo perché è il Papa che concede ai comuni ad esso sottoposti, come è precisato nella lettera, “il permesso che nella città potesse stare un ebreo banchiere per sovvenire i poveri della città nei loro bisogni imprestando denaro sopra i pegni”.
E questa formula si ripeterà in ogni atto, persino dopo la devoluzione del ducato alla Santa Sede: fra le altre grazie che le città del ducato chiedono ad Urbano VIII, una di esse, Cagli, domanda prima di ogni altra cosa che “nella città potesse stare un ebreo banchiere per sovvenire i poveri ecc. ecc.”
La caratteristica di questi ebrei prestatori stava nel fatto che solitamente demandavano agli impiegati del banco, pur restandone responsabili, la cura degli affari: molto spesso erano medici o uomini di lettere. Quella della medicina infatti era l’unica delle arti liberali ad essi permessa, qui come altrove. Il prestatore è una persona colta e quindi ricercata specie in un epoca, come il Rinascimento, in cui la cultura era il vanto delle corti. Nei diari di Monaldo Attanagi si parla spesso di tre ebrei Manuel, Aronne e David come famigli del Duca Guidubaldo ad Urbania, frequentavano la corte ove erano trattati al pari degli altri. Dalla lettura dei documenti si delinea pertanto una figura ben diversa dallo stereotipo dell’ebreo – usuraio quale le campagne antiebraiche, di allora e non solo di allora, ci hanno abituato.
Spesso però i tanti privilegi riservati ad alcuni rischiavano di scatenare odi e gelosie che finivano per pesare sugli strati più poveri della piccola comunità. Infatti era sempre più diffusa l’abitudine, tra l’alto clero e i nobili, di ricorrere alle cure di un medico ebreo, forse seguendo l’esempio dei papi che per secoli scelsero il loro archiatra tra i più famosi medici ebrei del tempo. Nel 1470 Joan Lang medico, fomenta una congiura di colleghi tedeschi rinnovando l’accusa di profanazione di ostie e di omicidio rituale, sostenendo che persino Pico della Mirandola, massima autorità in fatto di intelligenza, era convinto che gli ebrei usassero tali pratiche. Quando si seppe che Pico, appassionato cultore di studi ebraici, ospitava nella sua casa, con uno stipendio fisso, un famoso rabbino, l’accusa cadde nel ridicolo. Va detto che tutti i papi, per tutto il medioevo e fino alla metà del ‘500, cercarono sempre di difenderli da simili accuse, in particolar modo Innocenzo IV con il suo “nessuno ardisca accusare gli ebrei…” e più ancora Martino V che li aveva presi sotto la sua particolare protezione (9) schierandosi contro le virulente prediche dei frati minori, proprio per i tumulti popolari che queste suscitavano e per la loro tagliente azione conversionistica.
Nel 1633, con il passaggio alla Chiesa, tutti gli ebrei, sparsi in tutte le città del ducato, saranno concentrati nei ghetti di Urbino, Pesaro e Senigallia e l’esercizio del prestito, proibito.
Tuttavia, neppure un anno dopo, e Cagli come si è visto al momento stesso della devoluzione, ogni città inoltrerà una supplica al Papa affinché, come scrive al Legato pontificio Mattei il Comune di Fossombrone nell’agosto 1635, “due Banchieri Hebrei a soddisfazione e gusto dell’istessa Città e Consiglio, possino venire a stanziare per tre anni, per sostenimento dei poveri e dell’Arte della Lana……..”. (10)
Gli eredi di Jacob da Camerino e Flaminio da Porto, già prestatori da generazioni a Fossombrone, costretti da appena un anno a ritirarsi nel ghetto di Urbino, e lì sistematisi non senza grosse spese nelle case loro assegnate, pazientemente, non sappiamo quanto, riprendono le loro cose e tornano a Fossombrone ad esercitare quello che oggi è definito un servizio sociale.
Dopo la demolizione della Chiesa del Copus Domini, la predella rimase per oltre un secolo dimenticata nelle soffitte del Collegio dei Nobili. Recuperata dal Direttore del Collegio stesso nella metà del 1800, fu fatta restaurare e rimase in mano ai privati fino a quando venne allestita la Galleria Nazionale delle Marche presso il Palazzo Ducale di Urbino.
Bibliografia e note
1 – L. Moranti, La Confraternita del Corpus Domini di Urbino, Il lavoro editoriale, 1990
2 – Nella famosa biblioteca di Federico ben 73 volumi erano scritti in ebraico, in gran parte Bibbie. È ipotizzabile che provvedessero essi stessi alla composizione del libro sin dal primo stadio in quanto li vediamo acquistare grossi quantitativi di carta. Già nel 1533 il conte Guidantonio vende a Vitale, Giuseppe, Belladonna e Bellaflora ebrei, 60 balle di carta bambacina, di 12 risme per balla, per 640 fiorini.(Quadra Pusterla 12 aprile 1433)
3 – Per estensione dell’editto di Granada, gli ebrei furono espulsi anche dalla Sicilia, allora sotto il protettorato spagnolo. Le modalità furono particolarmente feroci: dapprima vennero bloccati i beni e dovettero riscattarli con cinquemila fiorini, poi furono liberi di venderli, si calcola a meno di un terzo del loro valore. La grande sinagoga di Palermo, che il rabbino Obadià di Bertinoro, che pure aveva girato l’Europa, aveva definito la più bella, rese solo 500 once. Ciascuno poteva portare con sé, partendo “una coperta di lecto, cum uno paro di lenzola e uno mactarazo et la summa di tarì tri per testa”, e questo dopo quindici secoli di permanenza operosa nell’isola. Portarono nelle terre del ducato dei Montefeltro i loro molti mestieri di tintori, sarti, orefici, mestieri che conservarono nei cognomi come Sarto, Sartori, Tintori (questi ultimi divennero stampatori) e Orefici, ma si rifiutarono di adottare come cognome il nome delle città dell’isola. Dopo il loro arrivo aumentò anche il numero dei medici, molti di loro erano stati invitati da Federico II ad insegnare nella scuola salernitana.
4 – Cecil Roth, “Majolica Passover Plates of the XVI-XVIII th Centuries” Erez Israel, VII 1964.
5 – Arch. Not. -Urbino- Quadra Santa Croce, 1433
6 – Arch. Not. Urbino- (30 giugno 1433). In effetti venne costituita una società bancaria, forse la prima, tra Sabbatuccio di Recanati e Genetao, Venturello ed Isaac di Salomone, ebrei di Urbino. La società si sciolse, come convenuto, tre anni dopo.
7 -I Capitula urbinati sono andati distrutti pertanto ci possiamo riferire a quelli stipulati tra i Comune e gli ebrei di Fano. Arch. Antico, Consigli – Vol. III, cc. 174/8 (8 agosto 1425)
8 – Arch. Comunale, Urbino- Decreti Ducali -Vol. II.La duchessa Leonora emette un ordinanza affiché gli elenchi dei pegni siano redatti in lingua volgare. -(8 luglio 1551)
9 – A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, 1963, pp 151-154.
10 – R. Savelli, La comunità di Fossombrone fra XV secolo e la devoluzione dello Stato Urbinate a Roma, in “La presenza ebraica nelle Marche”, Proposte e Ricerche, a cura di S. Anselmi, V. Bonazzoli, n. 14. 1993.