Marcia della Pace – Susa – 22/04
L’accoglienza è un dovere fondamentale. Per comprendere la sua centralità dobbiamo tornare all’inizio della narrazione biblica, al libro della Genesi, nel cap. 18, quando Abramo, vecchio e dolorante per via della circoncisione, si prodiga per ospitare tre viandanti, che si riveleranno tre angeli, venuti per annunciare la nascita miracolosa di Isacco. La tenda di Abramo, il patriarca che oltre due miliardi di persone, ebrei, cristiani e musulmani, considerano il proprio capostipite, era aperta da tutti i lati. La prima casa ebraica, alla quale guardiamo con ammirazione, era anzitutto e fondamentalmente una casa ospitale.
Uno degli imperativi più notevoli che troviamo nella Bibbia, nel libro del Levitico, è quello di amare il proprio prossimo come se stessi, e all’interno della categoria del prossimo troviamo lo straniero.
Può risultare semplice amare quelli che sono noi, che esprimono le nostre stesse opinioni; molto più difficile amare coloro che appaiono diversi da noi. E a loro dobbiamo dedicare la nostra attenzione. Non tutti gli ospiti sono uguali. Avere ospiti famosi, eleganti, dai modi impeccabili, può riempirci di piacere. Nella nostra società, caratterizzata da un apparente pluralismo e multiculturalismo, siamo sempre più portati ad entrare in relazione solo con chi ci è simile. Pensate semplicemente a come funzionano i social network, con le nostre reti di amici, con l’informazione su misura che scegliamo. Gli spazi condivisi che c’erano una volta, e caratterizzavano le nostre società, con tutte le conseguenti difficoltà, sono sempre più angusti e faticano a riemergere. Questo è un grande pericolo. Avere il privilegio di non sapere più cosa significhi essere disperati ci ha inaridito. Ama lo straniero, perché straniero fosti in terra d’Egitto. Condividi con lui il tuo pane, come diciamo aprendo la cena pasquale “chi ha fame venga e mangi”.
Decine di volte veniamo esortati nel Pentateuco ad occuparci della vedova, dell’orfano, del forestiero. Forse non ce ne rendiamo conto, perché a noi sembra naturale, ma nei nostri tempi la benedizione divina ha premiato indicibilmente la nostra Europa. Da oltre settant’anni, una vita, viviamo in pace. Ma in tanti altri posti nel mondo non è così, tutt’altro. Ma i nostri cuori, anziché aprirsi, si chiudono. E’ evidente che il nostro contributo può apparire una goccia nell’oceano. Diremo che occuparsi di tali annose questioni è prerogativa dei governi, ma la nostra coscienza civica, rivolta ai vicini come ai lontani, non può e non deve rimanere inerte. Non semplice assistenzialismo, ma un’azione rivolta a fornire gli strumenti affinché gli altri possano godere del nostro benessere. Un’azione riequilibratice, un’azione di tzedaqah, il termine che nella tradizione ebraica rende la beneficenza, ma etimologicamente si rivela un atto di giustizia. Nel nostro mondo, sempre di più, i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sono sempre più poveri. E’ necessario elaborare strategie affinché le persone possano vivere dignitosamente le proprie vite. Un lavoro lungo, difficile, che forse non sarà premiato subito con il successo, ma non possiamo sottrarci.
Nella tradizione ebraica si trovano delle affermazioni, che possono apparire esagerate, circa l’accoglienza, che viene considerata superiore persino al ricevere la Presenza divina. Ma, se ci ragioniamo, non è solo un’espressione paradossale, che ci invita a ragionare. Tutti gli esseri umani sono creati ad immagine divina. Nella creazione del mondo viene creato un solo uomo, dice il Talmud, perché nessuno possa dire “mio padre è più grande del tuo”. In ciascuno di noi c’è una scintilla divina, che deve essere incoraggiata ad emergere in tutto il suo splendore.