Durante la lezione domenicale sul profeta Isaia per gli allievi del corso di maskil del Collegio rabbinico italiano, ho trovato una “chicca”. Al capitolo 42, verso 10, il Profeta afferma: “Intonate al Signore un canto nuovo, proclamate la lode a Lui dovuta dalle estremità della terra, o voi che percorrete il mare e ciò che lo riempie, regioni marittime e loro abitatori” (tr. adattata da quella di rav Ermanno Friedenthal).
Il più grande commentatore della Bibbia e del Talmud, Rashì (Rabbi Shelomò Yitzchakì, Troyes-Francia 1040-1105), spiega l’espressione “ciò che riempie il mare” come riferita a “coloro che vivono stabilmente nel mare, ma non nelle isole: piuttosto, ognuno di essi getta dentro l’acqua terra a sufficienza per costruirvi una casa e vanno da una casa all’altra con le barche, come nella città di Venezia”. Da notare che nelle edizioni critiche la parola Venezia non è scritta con la tzadi, come si scrive oggi in ebraico, ma con la zayn, una lettera che è più vicina alla “s” di rosa che alla zeta. I veneziani potranno dirci come si pronuncia il nome della loro città.
Diverse altre spiegazioni vengono date dai commentatori per questo verso di Isaia. Certamente quella portata da Rashì è la più originale. Del resto, in altri passi del suo commento, sia alla Bibbia che al Talmud, Rashì mostra di conoscere l’Italia e di avere avuto contatti diretti con gli ebrei italiani. A dimostrazione che l’Italia ebraica d’allora non era un’isola (e nemmeno una penisola). Neanche oggi dovrebbe esserlo.