La Torah, la letteratura talmudica e il giudaismo medievale hanno un ruolo decisivo per la formazione dell’idea repubblicana
Giulio Busi
«Religione e politica non sono forse la stessa cosa?». Agli inizi dell’Ottocento, quando quell’inguaribile testa calda di William Blake poneva questa domanda ai (pochissimi) lettori del suo Jerusalem, la frase aveva ormai un valore soprattutto provocatorio. Erano quasi due secoli che gli intellettuali europei si scagliavano contro la vecchia alleanza tra Stato e Religione, e le rivoluzioni settecentesche avevano sancito la separazione tra i due domini.
Il distacco tra cosa pubblica e istituzione di fede è generalmente considerato il risultato di un lento cammino di laicizzazione della società occidentale. In un nuovo libro, destinato a far discutere, Eric Nelson dell’Università di Harvard prova a smontare questa vulgata e per farlo non esita a gettare nella mischia pii teologi protestanti del Seicento e, cosa ancora più inaspettata, un bel numero di rabbini tradizionalisti. Il volume s’intitola eloquentemente La Repubblica ebraica (The Hebrew Republic), e cerca di dimostrare che non solo la Bibbia ma anche la letteratura talmudica e le fonti del giudaismo medievale giocarono un ruolo decisivo nell’emergere della tolleranza religiosa e di una rigorosa idea repubblicana.
Il laboratorio di questa virata del pensiero politico europeo fu, secondo Nelson, il mondo protestante, alla ricerca di modelli culturali da cui trarre ispirazione per raccapezzarsi tra gli errori delle guerre di religione. E quale esempio poteva essere migliore dell’antico governo degli ebrei, voluto da Dio stesso? Forte delle scoperte dell’ebraistica cristiana – nata in Italia ma emigrata con la Controriforma verso ii Nord Europa – autori come Ugo Grozio studiarono a fondo l’antecedente ebraico.
Nel primitivo Stato degli ebrei, potere politico e potere religioso erano uniti. Bene, si dirà, proprio il contrario della concezione moderna, ma – e qui sta il ‘trucco” di Nelson – una simile unione funzionava solo poiché i detentori del potere civile (prima i Giudici, poi i Re e alla fine il Sinedrio) avevano anche potere religioso. Questo significa che non c’era presso gli ebrei un’autorità religiosa autonoma; pertanto, quello che potrebbe sembrare un modello teocratico per eccellenza, limitava gli interventi delle autorità in materia di fede solo a ciò che toccava il bene comune, lasciando libere le coscienze e i cuori.
Impegnati a difendersi contro le pretese dei calvinisti, che volevano imporre a forza l’ortodossia, alcuni teologi protestanti sarebbero dunque ricorsi all’esempio degli ebrei di età biblica per affermare il principio di tolleranza, propugnando l’idea di una cosa pubblica religiosa sì, ma senza pretese di controllo sulle anime, sui pensieri e sulle opinioni.
Ma c’è di più, rileggendo i testi rabbinici, questi teologi politici del Seicento scoprirono che la tradizione giudaica condannava il conferimento del regno a Samuele come un atto sostanzialmente empio, una sorta di “lesa maestà” nei confronti di Dio, unico e vero sovrano d’Israele. Era quanto bastava per diventare repubblicani arrabbiati, e teorici dell’illegittimità di qualsiasi monarchia, come avrebbe imparato a proprie spese Carlo I, il re d’Inghilterra giustiziato nel 1649.
Quella di Nelson è una suggestiva rilettura di fonti in parte dimenticate, che funziona però solo a patto di lasciar fuori molti rivoli e qualche grosso flume del pensiero politico tra Cinque Seicento, da Erasmo a Sebastian Castellio – ch’era insorto per condannare la messa a morte di Serveto da parte di Calvino – e sino a Spinoza che, seppure influenzato da Grozio, rigettò senza mezzi termini la teocrazia ebraica.
Insomma, pur senza essere rivoluzionario, come sarebbe nelle sue intenzioni, con la Repubblica degli ebrei, Nelson porta alla luce un altro episodio della lunga e tormentata relazione tra tolleranza e modernità.
Eric Nelson, «The Hebrew Repubtic», Harvard Up, Cambridge Massachusetts, pagg. 230,49 21,00.
Il Sole 24 Ore – 12 settembre 2010