Cheryl-Shira Leibowitz e Roald Hoffmann
A partire dal 1860, il pittore ebreo tedesco Moritz Oppenheim produsse una serie di venti “Quadri della vita familiare ebraica tradizionale” che gli arrecarono una certa fama. La versione riprodotta in un libro della stessa serie ha costituito una delle opere ebraiche più popolari mai pubblicate in Germania. Una delle scene riproduce la capanna della sukkà.
Una famiglia ebraica benestante è seduta intorno alla tavola festiva dentro la sukkà, eretta nel cortile alberato. Possiamo osservare da vicino, attraverso le porte adorne di tende, e vedere il patriarca che recita il kiddùsh su quello che probabilmente è un vino fatto in casa, mentre la challà è coperta da una fine tovaglia di seta damascata. La moglie, con in collo il bambino, siede alla tavola insieme agli altri membri della famiglia. Mentre la cameriera si appresta a portare la bollente minestra di pollo, il gatto di famiglia la sta a guardare sperando che lei rovesci la zuppiera di porcellana. Due scolari tedeschi assistono alla curiosa scena e probabilmente si meravigliano. Perché mai questi ebrei mangiano all’aperto nella misteriosa capanna in un freddo giorno di autunno?
La scena è evidentemente una celebrazione della natura. O forse no? Che cosa c’è di naturale nella sukkà, e che cosa di innaturale?
La famiglia raffigurata non ha fatto un vero ritorno alla natura. Dal pavimento al soffitto la sukkà è adorna delle raffinatezze tipiche della famiglia borghese che ospita. Non una foglia o un filo di paglia toccano il bel tappeto che copre il pavimento di legno. I drappi sono le stesse tende di satin che appaiono nelle altre scene dipinte da Oppenheim della normale sala da pranzo della famiglia. Il candeliere di cristallo a olio potrebbe stare ugualmente in una sala da ballo. Il quadro dalla cornice in mogano sulla parete, la raffinata tovaglia, la porcellana decorata a mano e gli addobbi festivi ci rammentano che non si tratta di un picnic nella natura.
In effetti, l’idea stessa di costruire una sukkà non è naturale. Noi erigiamo una imitazione evidentemente sintetica delle capanne che protessero gli israeliti durante il loro vagabondaggio nel deserto, come è stato comandato in Levitico 23, 42-43
Nelle capanne risiederete per sette giorni… affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli d’Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto…
Anche il periodo in cui cade la festa è del tutto innaturale: proprio all’inizio dell’autunno quando in Eretz Israel piove e la gente preferirebbe stare al chiuso. L’unica intrusione della natura è il tetto della sukkà, che è costituito di rami fronzuti. Ogni altra cosa è artificiale, cioè fatta da mano umana.
In contrasto con la scena idilliaca riprodotta da Oppenheim, la realtà di mangiare nella sukkà non sempre è così attraente. Un rabbino di Phoenix, Arizona, dove le temperature autunnali possono salire fino ai 40 °C, riferisce che la domanda che gli viene posta più frequentemente è: “È kashèr mettere l’aria condizionata dentro la sukkà?” D’altra parte alcuni immigranti provenienti da Anchorage, Alaska, riferiscono di aver costruito le pareti della sukkà con blocchi di ghiaccio del tipo usato per gli igloo! L’unico aspetto che queste due strutture hanno in comune tra loro, e con la sukkà di Oppenheim, è il tetto di foglie. Il nome della festa rivela che la radice di Sukkòt è il tetto.
“Il nome di una cosa riflette la sua essenza”, “… khishmo kayn hu” leggiamo in 1 Sam. 25, 25. Sukkòt è il plurale di sukkà che significa “capanna” o “tabernacolo”. La radice di sukkà è s’khakh che significa “copertura” o “protezione”. Quindi per l’essenza della sukkà e dell’intera festa dobbiamo prestare attenzione al tetto.
La legge ebraica dedica grande spazio alla definizione dei materiali che sono kashèr – validi – per il tetto, lo s’khakh. Da qui possiamo trarre alcune indicazioni su come la tradizione distinguesse il naturale dall’artificiale e forse trovare una risposta alla nostra domanda circa la sukkà di Oppenheim: dove termina il naturale e dove comincia l’artificiale?
I materiali che devono comporre il tetto sono cruciali per rispondere a questa domanda, in contrasto con l’irrilevanza dei materiali che servono per fare le pareti. Ci devono essere almeno tre pareti, e devono essere di una certa altezza, un certa ampiezza e lunghezza. Ma non vi sono limitazioni per il materiale. Le pareti della sukkà possono essere di legno, stoffa, mattoni, plastica o metallo. “Ogni cosa è valida per le pareti” dice il Talmùd (TB Sukkà 12a), che quindi sfida la sua stessa affermazione, ponendo la seguente domanda: “Perfino animali vivi?” Questo dà il via ad un dibattito (T.B. Sukkà 23a) sul problema se un elefante possa essere usato come parete, dato che esso soddisfa le misure minime richieste. Vengono avanzate quattro obiezioni, seguite da risposte:
1) Che cosa accade se l’elefante vuole fuggire? Bisogna legarlo con una fume.
2) Che cosa bisogna fare per lo spazio fra le sue gambe? Bisogna riempirlo con rami di palma.
3) Che cosa si può fare per impedire all’elefante di sedersi? Bisogna legarlo con corde dall’alto.
4) Che cosa si deve fare se muore?
Anche se Dumbo si restringe un po’, la carcassa raggiunge ancora le misure minime necessarie per le pareti. La frase finale dice: Sì! Un elefante è kashèr… per essere utilizzato come parete della sukkà.
Non vi è dubbio che i maestri del Talmùd erano ben lungi dall’essere assediati da questionanti desiderosi di costruire la sukkà con un elefante. Piuttosto la discussione nasce dall’esigenza di porre i termini di una definizione. La Mishnà dichiara: “Ogni cosa è valida per le pareti” e la Ghemarà domanda: “Perfino gli elefanti?” I maestri non si accontentano delle generalizzazioni, ma vanno in cerca della logica e della specificità quando cercano di formulare una definizione.
In contrasto con la carta bianca concessa per le pareti, ci sono tre requisiti precisi che determinano quali materiali possono essere utilizzati per il tetto. Sottolineando queste nette leggi incontriamo un approccio filosofico assai complesso alla questione sollevata sopra: “Cosa è naturale e cosa è artificiale?”
Lo s’khakh che copre la sukkà per essere kashèr deve:
1) essere cresciuto dalla terra;
2) essere reciso dalla sue radici;
3) non essere passibile di divenire ritualmente impuro.
I primi due requisiti implicano che i materiali della copertura devono derivare dalla natura ma non devono essere utilizzati nel loro stato naturale. Queste regole formano il confine inferiore dello spettro dei materiali kashèr. Una vite che cresca sopra il tetto di una sukkà è fin troppo naturale. Tuttavia non è kashèr perché l’essere umano non l’ha costruita. In Deut. 16, 13 ci viene ingiunto:
Voi farete la festa di Sukkòt…
Una vite è opera della natura e non costituisce un adempimento di questa ingiunzione che ordina a noi, umani, di “fare” la festa. Anche tagliare una vite che cresca sopra la sukkà non basta. Dopo essere stata tagliata, ogni vite deve essere sollevata e rimessa sopra in modo che noi abbiamo fatto la costruzione, e non la natura.
Tuttavia, onde evitare di fare uno s’khakh troppo artificiale, viene stipulato un confine superiore. La regola numero tre serve per accertarsi che lo s’khakh non sia eccessivamente di mano umana e perda il suo carattere naturale. Essa è formulata nel linguaggio delle leggi talmudiche relative alla purità e all’impurità rituale, ma le implicazioni sono sorprendentemente moderne.
Per comprendere il terzo requisito dello s’khakh, dobbiamo compiere una rapida incursione nelle leggi della purità rituale, poiché esse si riferiscono a un limite fra il naturale e l’artificiale.
Rabbi Adin Steinsaltz (The Essential Talmud) rileva che le leggi della purità formano una complessa rete di elementi interrelati all’intemo di una speciale struttura logica. La Torà non offre spiegazioni ed è rischioso per noi farlo. Dal momento della distruzione del Tempio, la maggior parte delle leggi non sono più applicabili, osserva Steinsaltz.
La purità rituale – taharà– e l’impurità – tumà– non sono concetti relativi alla pulizia fisica o all’igiene, come si può vedere dal fatto che la lavanda rituale delle mani deve essere preceduta da una lavanda regolare. In generale, tutto ciò che vive ed è sano non contiene impurità, e l’impurità aumenta via via che un oggetto si avvicina alla morte. Fonti di impurità – un cadavere, carcasse di animali e rettili, esseri umani in determinate condizioni – possono trasmettere la loro tumà a oggetti che vengano in contatto con essi. Molte cose non possono divenire impure: ad es. una massa d’acqua, animali vivi, piante che crescono, e oggetti non finiti. Per definire la categoria di ogni oggetto dato, bisogna esaminarne il materiale di origine, la forma e l’uso a cui è destinato.
Materiale di origine
Utensili fatti di terra non cotta, pietra, o marmo sono impervi alla contaminazione rituale. Questo è uno dei motivi per cui gli archeologi trovano tanti oggetti in pietra negli scavi a Gerusalemme. D’altra parte oggetti fatti di legno, metallo, pelle, osso, stoffa, sacco e argilla cotta possono divenire impuri. Il vetro è classificato insieme al metallo, dato che ambedue i materiali sono riciclabili.
Sembra quindi che emerga uno schema: materiali che sono usciti dal loro stato naturale e che subiscono ulteriori trasformazioni sono maggiormente suscettibili di impurità: ad es. il metallo deve essere estratto dalla roccia, fuso e poi modellato, mentre la pietra può essere scolpita direttamente.
Forma
Un altro fattore entra in gioco quando si vuole determinare se uno s’khakh sia suscettibile di impurità. Oggetti di legno sono successivamente classificati in base alla forma: piatti – pashùt – o concavi – che hanno un bet kibbùl che può contenere liquidi, ecc.-. Rami di albero, fronde di palma e assi di legno sono validi per lo s’khakh poiché sono impervi all’impurità in virtù del loro non essere legni concavi, al limite naturale dello spettro naturale /artificiale.
Uso previsto
Se si trova una stuoia di legno o di canne che sembra essere adatta per il s’khakh, possono esserci problemi. Le stuoie fatte per sdraiarsi sono suscettibili di impurità mentre le stuoie fatte per dare ombra sono impervie (e quindi kashèr per lo s’khakh). Non possiamo sottoporre tutti gli artefici di stuoie a un test della verità per accertare le loro intenzioni. Quindi i codici forniscono linee guida basate su qual è l’uso generale comunemente accettato dalla gente del posto: le stuoie piccole servono in genere per sdraiarsi e sono quindi non kashèr, ma le stuoie grandi, destinate in genere a fare ombra, possono essere usate. Stuoie dell’ultimo tipo, vendute comunemente in Israele per lo s’khakh, sono kashèr e vengono chiamate, paradossalmente, “s’khakh permanente”.
Ciò che emerge dalle leggi di Sukkòt è che le menti talmudiche 2000 anni fa erano profondamente coinvolte nel tentativo di dividere il mondo che li circondava in categorie che in un primo momento paiono bizzarre. Ma i loro schemi di categorizzazione gettano luce sulle nostre attuali preoccupazioni circa la quantità di elementi artificiali e sintetici che sono presenti nella nostra vita.
Nei decenni recenti vi è stato un rinnovato interesse per questioni circa lo scontro fra natura e tecnologia, ed è quindi emerso uno Zeitgeist che include la politica dei Verdi, l’ecologia, la scienza della Nuova Era, e l’ecofemminismo. In un tentativo di dare risposta a queste preoccupazioni, un gruppo di giovani attivisti ebrei ha formulato un codice negli anni ’60 per i lettori del The Whole Earth Catalogue. Chiamato The Jewish Catalogue: A Do-It-Yourself Kit, esso ha fatto risorgere Sukkòt come una festa molto in.
Costruzione della Sukkà; se sarete capaci di dedicarvi a questa mitzvà, vi troverete grande gioia… Collocate alcune assi in ambedue le direzioni sul tetto e copritele con giunchi o rami di pino. Tutto il tetto deve essere fatto di materiale organico.
Notate la parola “organico”, che riflette la loro preoccupazione per il nostro eccessivo affidamento sull’“artificiale”. Riassumendo tutte le leggi sullo s’khakh in una sola parola, si è ottenuto il vantaggio della concisione. Ma la loro definizione è intellettualmente povera in confronto alla accurata e profonda discussione su Sukkòt del Talmùd, che rivela il fatto che queste questioni circa il naturale e l’artificiale erano poste dai codificatori della halakhà millenni orsono.
La difficoltà di distinguere il naturale dall’artificiale persiste ancora. Scienziati, e in particolare i chimici, spesso si sentono stretti d’assedio dalla società perché producono materiali “artificiali” spesso estremamente pericolosi. Mentre le parole “naturale”, “coltivato organicamente”, “non adulterato” hanno connotazioni positive, i materiali sintetici sembrano nel migliore dei casi condizionatamente buoni. I chimici non hanno difficoltà ad affermare che i materiali “naturali” non possono essere distinti da quelli “artificiali”, ad esempio la vitamina C derivata dal cinorrodo è identica sul piano molecolare alla vitamina C prodotta sinteticamente in laboratorio. Nondimeno, la distinzione fra naturale e artificiale ha una certa presa sulla nostra psiche nella vita quotidiana. Perché accade che spesso siamo alla ricerca del naturale, sia che affrontiamo una discussione talmudica, o che siamo lettori del Jewish Catalogue o ancora chimici che producono materie sintetiche?
Vi sono forze psicologiche ed emotive in gioco che determinano la nostra preferenza per il naturale. Alcuni di questi fattori possono spiegare l’attrazione di Sukkòt per noi moderni.
Un fattore è quello romantico, un irrealistico desiderio di ciò che non c’è più o non può più esistere. Questo fatto spiega forse la popolarità delle pitture di Oppenheim. Vi è una certa ironia nel fatto che questo stesso quadro, così come ogni vera sukkà, non è altro che un irreale, innaturale ma affascinante tentativo di riprodurre il naturale. Tali pitture romantiche hanno una presa su di noi che è più forte della realtà a causa dell’immagine che è nella nostra mente. Il fatto di andare in cerca della natura, del vero legno, del profumo del fieno, del rumore del vento nelle cortine, tutto questo determina il nostro desiderio. Il nostro anelito romantico si indirizza anche verso altri settori. Non importa che le vecchie stazioni ferroviarie fossero edifici brutti e sporchi. Se pensiamo ad una vecchia stazione, vediamo Ingrid Bergman che saluta Leslie Howard e quella scena forma nella nostra mente un’immagine di come dovevano essere le stazioni ferroviarie di un tempo.
Analogamente, non ha importanza il fatto che dar da mangiare a una numerosa famiglia stipata in una stretta sukkà in una sera umida e ventosa non è un picnic: la sukkà nella nostra mente è quella giusta.
Un’altra ragione dell’attrazione verso il naturale deriva dall’alienazione che sentiamo quando i nostri circuiti sono oppressi da tutto ciò che di artificiale e sintetico vi è nell’ambiente. Talvolta l’eccesso di oggetti artificiali desta ripulsa. La varietà di plastica e di fibre sintetiche nell’arredamento è sorprendente e anche intellettualmente interessante, come base per un corso sulla chimica dei polimeri. Ma è difficile sentirsi attratti da questi oggetti.
Il Jewish Catalogue descrive la costruzione della sukkà come un antidoto.
Una delle cose positive della sukkà è il fatto che ognuno se la costruisce come vuole. Anche se si acquistano parti prefabbricate, ognuno la erige a suo piacimento. La maggior parte di noi vive in case o appartamenti costruiti da altri. Noi tutti mangiamo pane cotto da professionisti. Come per la cottura della challà, anche la costruzione della sukkà ci offre la possibilità di godere dei frutti del nostro lavoro.
Il terzo fattore che ci spinge alla ricerca del naturale è lo spirito, l’innata necessità per quella cosa unica che è la vita. Un pino che cerca di farsi spazio tra le rocce di Gerusalemme può far volare il nostro pensiero nel futuro, al momento in cui quell’albero o i suoi frutti riusciranno infine a spezzare quella roccia. Oppure può rimandare indietro la nostra memoria di decenni alla sua iniziale piantagione. Questa capacità associativa dell’anima entra in gioco quando sediamo dentro la sukkà. La sukkà ha anche il compito di far scattare nella nostra memoria storica collettiva il ricordo della grazia divina che procurò capanne per noi quando lasciammo l’Egitto, “… cosicché i vostri discendenti possano ricordare che in capanne feci risiedere i figli d’Israele…”
La precarietà della sukkà ha l’intenzione di ricordarci la nostra vulnerabilità di fronte alla natura, che è neutrale ma spesso ostile al nostro essere antropocentrici. Questo si traduce nel fatto che lo s’khakh deve essere fatto in modo da far lasciar passare la pioggia. È difficile apprezzare la protezione divina quando ce ne stiamo rincattucciati nelle nostre case di pietra e cemento.
Una sukkà può essere costruita in modo da sembrare l’opera di un ragazzino di 10 anni. Oppure può avere l’aspetto del quadro di Moritz Oppenheim, qualcosa appena uscito dalle pagine di Ville e Giardini. Ma per essere una sukkà valida, deve rispettare i requisiti delineati nei codici di leggi.
I puntelli filosofici della festa possono essere individuati, inter alia, nei minuziosi dettagli della costruzione della sukkà. Che il Talmùd e successivi codici non siano manuali di costruzione lo rivela la storia di uno studente di yeshivà che si impegnò a costruire la prima sukkà per sé e per sua moglie. Non sapendo da che parte cominciare, chiese al suo maestro. Il rebbe gli disse: – Studia i primi due capitoli del trattato Sukkà e poi vai e costruisci!
La prima sera della festa la sukkà cadde rovinosamente a terra. Avvilito, lo sposo corse a chiedere al suo rebbe perché la sua sukkà era caduta. Il rabbi aprì il suo Talmùd e disse: – Tu mi domandi: Perché la sukkà è caduta? Il guaio è che tu non hai letto il commento di Rashì. Lui pone la stessa domanda.
No, quello che abbiamo nei testi tradizionali non è un manuale di costruzione, ma un’indagine profonda e a più livelli su questioni circa il naturale e l’artificiale che destano ancora oggi perplessità in tutti noi.
Tratto da The Jerusalem Post International Edition, October 14, 1989 – Traduzione dall’inglese di Silvia Bemporad Servi
Pubblicato su “Radici-Shorashim – Foglio per la famiglia ebraica alla riscoperta delle proprie radici”, Dac- Ucei, Anno VIII n° 7, settembre-ottobre 1993.
Pubblicato successivamente in AAVV “Feste in famiglia – Sukkòt”, Morashà 2001.