Nelle sue teshuvot R. Azri’el Diena dedica una Teshuvàh (vol. 1, 6) ad un fatto deplorevole, che aveva come protagoniste delle donne, che avveniva abitualmente nella città di Modena quando si apriva l’Aron per fare uscire i Sefarim di Shabbat e Yom Tov, ritenendo che un suo parere, chiamato Yetziàh el ha-‘yiun (gioco di parole basato su Bereshit 24,29), in merito avrebbe sortito degli effetti positivi. Difatti quando venivano estratti i sefarim, queste donne, con ogni probabilità delle inservienti, iniziavano a maledire i propri padroni.
L’”uso” non doveva essere raro: infatti in varie altre teshuvot troviamo la pratica di maledire qualcuno quando veniva aperto l’aron o veniva letta la Toràh. Ad esempio nelle Teshuvot manoscritte di R. Yechiel Tarbut di Macerata (n. 11) si parla di persone che durante la lettura del sefer maledivano i loro contendenti in giudizio. R. Azri’el Diena invita i capi della comunità a prendere la situazione in mano e fare in modo che l’uscita del sefer diventasse un momento di benedizione per tutti.
Dopo essersi espresso, come era abbastanza prevedibile, condannando pesantemente questo fatto, R. Azri’el Diena scrive sul divieto di maledire il prossimo, che deriva dalla Toràh, dal verso in parashat Qedoshim (19,14) “non dir male del sordo e davanti al cieco non mettere inciampo, ed abbi timore del tuo D.”. Così come nel versetto non si deve intendere il cieco in senso letterale, ma chiunque è all’oscuro di una certa cosa, non dandogli pertanto un consiglio inadatto, anche il sordo non deve essere inteso in senso letterale, ma si riferisce a chiunque non ascolta la maledizione. Chi non ascolta la maledizione non avrebbe di che vergognarsi, perché non l’ha sentita, ma, nonostante ciò, questa costituisce ancora un pericolo. Per spiegare questo fatto viene citato quasi parola per parola il commento alla Toràh del Recanati, che scrive che la forza della parola, nel bene o nel male, è enorme, perché le parole quando escono lasciano un segno nell’aria ed hanno un effetto sulla realtà. In assoluto non c’è alcuna differenza fra un sordo ed un’altra persona, solo che il sordo (più precisamente il sordumuto) manca della capacità di parlare ed ascoltare, e chi manca di una certa cosa è maggiormente suscettibile di ricevere un danno rispetto al senso che gli manca.
Nella ghemarà (Shevu’ot 36a) è detto che è vietato maledire se stessi. Pertanto è vietato maledire una persona d’Israele, uomo o donna, minore o adulto, se non si tratta di un malvagio conclamato, come è detto “non maledirai i capi del tuo popolo”, riferito in Bavà Metzià 48b “a chi fa delle azioni assieme a te”, ad escludere il malvagio. Oltre ai divieti della Toràh ve ne sono anche di origine rabbinica: è scritto infatti che tutte le maledizioni con cui David maledisse Yoav si sono avverate sulla discendenza di David. Il Sefer chasidim ritiene che David aveva ragione nel maledire Yoav, ma nonostante questo le maledizioni tornarono addosso alla sua discendenza. Rashì spiega che è meglio essere fra i maledetti, che fra coloro che maledicono, perché le maledizioni gratuite ritornano su chi le ha pronunciate, e lo stesso vale per chi affida il proprio giudizio al cielo, come ha fatto Saràh con Avraham, e per via del suo comportamento è morta prima di lui.
Riporta poi due ghemarot in Massekhet Berakhot 7a e 10a , dalle quali si ricava che non si deve maledire alcun essere umano, anche se si comporta male con noi. Dobbiamo piuttosto pregare affinché faccia teshuvàh, perché ciò che condanniamo sono i peccati, non i peccatori. In questo la dottrina rabbinica si distanzia da quella della Toràh, perché secondo la Toràh è vietato maledire solo i kesherim, poiché è vietato maledire solo quelli che fanno le azioni del tuo popolo, vale a dire che rispettano la mitzwot. Per noi vale quanto ha detto Avraham avinu, quando voleva scongiurare la distruzione di Sedom e ‘Amoràh, “wehaiàh kazaddiq karashà’ – ed il giusto sarà come il malvagio”; come ci è vietato maledire il giusto, così è vietato maledire il malvagio.
Al tema del giuramento è riservato un capitolo nello Shulkhan ‘Arukh, il capitolo 27 di Choshen Mishpat. È bene ricordare alcuni aspetti delle halakhot sulla maledizione: è vietato sia maledire usando il nome di H. o una delle sue attribuzioni, o anche con i nomi che i non ebrei usano per designare la divinità. Lo Shakh scrive che anche se non si usa alcun nome o attributo, ma si dice semplicemente “che Tizio muoia”, si trasgredisce un divieto della Toràh. E’ dibattuto se è permesso maledire i malvagi. Dalla dodicesima benedizione della ‘amidàh quando chiediamo la distruzione degli eretici, sembra che la cosa sia permessa. Alcuni (ad esempio il Maharal) dissentono e dicono che non si parla degli eretici, ma dell’eresia in generale.
Il motivo del divieto è secondo il Rambam quello di evitare la vendetta e non abituarsi alla rabbia. Per il Sefer ha-chinukh le parole lasciano un segno, e come è vietato danneggiare fisicamente gli altri, così è vietato farlo con la parola. Inoltre le maledizioni potrebbero arrivare alle orecchie di chi è stato maledetto, causando ulteriori liti e dissapori. L’Igherot Moshèh pone una differenza fra la maledizione che riguarda chi l’ha pronunciata, che potrebbe effettivamente avere seguito, e quella rivolta ad altri, della quale non ci si deve preoccupare, perché in cielo non verrà ascoltata, ma che tuttavia è vietata, perché in tal modo si disprezza il proprio prossimo. Una conseguenza interessante di questo ragionamento è quella di una persona che chiede ad un’altra di essere maledetta, rinunciando pertanto al proprio onore. Secondo l’Igherot Moshè in questo caso non sarebbe vietato maledire. Il Chazon Ish prevede delle eccezioni, ed in questo modo spiega i brani della ghemarà in cui i chakhamim maledicono qualcuno, quando in gioco è l’onore della Toràh. Il Pele Yo’etz ritiene che le maledizioni danneggiano sia chi maledice sia chi è maledetto, perché se non arrivano a destinazione tornano su chi le ha formulate, se invece arrivano a destinazione chi ha maledetto dovrà rispondere di quanto ha fatto, perché ha provocato la punizione del suo compagno.