Maria Luisa Benigni Moscati
L’edificio sorge all’inizio di Via Stretta, presso le mura della città, all’ombra dei torricini. È, quella di Urbino, una sinagoga di rito italiano, come quelle di Senigallia, di Ancona e quella, non più esistente, della vicina Pesaro (1): ne fa fede la dedica che accompagna l’inno “A Dioeterno” composto verso la metà del ’5OO dal rabbino Mordechai Dato, espressamente per i templi di queste quattro città (2). Ciò a sottolineare la differenza nel rito, al tempo molto sentita, tra gli ebrei italiani (3) e quelli che giungevano dalla Spagna (sefarditi) o dalla Germania (aschenaziti).
Come indica il nome beth ha-keneseth, casa dell’adunanza, la sinagoga è qualcosa di più di un luogo di preghiera: è cioé anche una “casa di studio” in cui si cerca di soddisfare i bisogni spirituali della comunità. Per questo è ovunque chiamata anche “Scola“.
All’esterno dell’edificio non vi sono segni che indicano la presenza di un oratorio ebraico, se si eccettua una fascia di mattoni rotti ad arte in più punti come vuole la tradizione, per ricordare ai fedeli la distruzione del sacro Tempio di Gerusalemme. Osservando la facciata si nota che in una piccola parte, a destra dell’edificio, i mattoni sono stati lavorati con scalpello e martello, in un secondo tempo. Quella porzione di fabbricato infatti fu acquistata dalla comunità ebraica solo nella seconda metà dell’ ’8OO, essendo stata, sino ad allora, proprietà dei frati francescani.
Non esiste, almeno dal punto di vista stilistico, un’architettura sinagogale, esistono tuttavia tanti elementi indispensabili all’adempimento delle mizwot (precetti) e alla celebrazione dei riti.
Sulla facciata si aprono tre portoni: quello di destra immette in un locale seminterrato in cui si trovano due elementi sempre presenti in una sinagoga: il forno e il pozzo. Questo forniva l’acqua di sorgente per il lavaggio delle mani e per impastare i pani azzimi che la comunità consumava per tutti gli otto giorni di Pesach (Pasqua ebraica); i pani dovevano essere cotti nel forno della sinagoga, per essere ben certi che questo non fosse mai stato usato per cibi lievitati, e il tutto doveva avvenire sotto il controllo del rabbino. Oggi anche le maggiori comunità preferiscono ordinare all’estero, preferibilmente in Israele, le azzime, che del resto sono reperibili in pacchi sigillati anche nei grandi supermercati.
Il portone centrale era invece usato dagli uomini soprattutto nelle solenni festività quando l’afflusso dei fedeli era maggiore, per la partecipazione delle donne, altrimenti non tenute a frequentare laScola. L’ingresso riservato alle donne è infatti quello di sinistra dal quale parte la scala che conduce al piano superiore in cui è situato un vasto matroneo, altro elemento sempre presente nelle sinagoghe o anche in piccoli oratori.
Nell’ingresso, come in ogni altra sinagoga, c’è una fontanella per il lavaggio delle mani: l’acqua di sorgente, elemento purificatore, ricorre spesso nella ritualistica ebraica.
In molte sinagoghe è presente anche un mikwè (profonda vasca per un bagno purificatore ad immersione totale), ma in Urbino questo era sistemato in un altro edificio del ghetto.
Nell’ingesso principale, figurano due lapidi scritte in ebraico: vi si ricorda, in quella di sinistra, che i Duchi di Urbino diedero generosa ospitalità nelle loro terre agli ebrei altrove perseguitati, e in quella di destra, che Mordechai (Angelo) e Pinchas (Felice) Coen furono munifici verso la comunità allorché la sinagoga venne quasi interamente ricostruita nel 1859.
Nella stessa parete si aprono sei bossole per le offerte con le scritte per le diverse destinazioni; per l’olio per i lumi della sinagoga, per i poveri del ghetto, per i libri, e perfino per Tiberiade. Quello della tzedakà (termine ebraico che non può essere tradotto semplicisticamente con carità, ma piuttosto con giustizia), rientra fra gli obblighi religiosi da rispettare per accogliere degnamente la più grande delle feste: Schabat (il Sabato). (4)
Il Sabato, come ogni altro giorno festivo, entra al tramonto del giorno precedente, quando in cielo appare la prima stella. Quando la comunità ebraica urbinate era ancora numerosa, gli uomini affollavano la sinagoga per l’Arvit (la Benedizione serale), ma per esserne degni dovevano aver prima fatto tzedakà. Coloro che per la loro indigenza non erano in grado di farla e anzi la ricevevano, restavano curiosamente in credito verso i benefattori avendo ad essi permesso, accettando di adempiere questo importante obbligo religioso.
Al termine della breve scala, sul pianerottolo, si aprono due porte, quella della sala del tempio e, a destra, quella del Talmud-Torà(insegnamento del Talmud) cioè la scuola che tutti, grandi e piccini, in momenti diversi della giornata, sono tenuti a frequentare: i più piccoli per apprendere i primi rudimenti della lingua ebraica e le storie della Bibbia, i più grandi, fino alla vecchiaia, per approfondire la conoscenza non solo della Bibbia ma soprattutto l’interpretazione contenuta nel Talmud. Ciò avveniva in passato quando la comunità ebraica urbinate era così fiorente e numerosa da poter sostenere l’onere del mantenimento di un rabbino (maestro) con la sua famiglia. Quello dello studio, qualunque sia la condizione sociale ed economica, è da sempre un obbligo religioso poiché ogni ebreo, al compimento del tredicesimo anno di età, deve essere in grado di leggere la Torà.(il Pentateuco cioè i primi cinque libri della Bibbia)
La porta centrale invece immette direttamente nella sala adibita al culto. È a pianta rettangolare, l’ingresso è al centro di uno dei lati lunghi ed ha di fronte un’altra porta che esce sul piccolo cortile retrostante. Questo è un altro degli elementi sempre presenti in un oratorio ebraico poiché in esso veniva allestita una capanna di frasche con palme, mirto e salice intrecciati, e cedri, per la festa di sukkot (capanne). È un chiaro riferimento alla vita nomade degli antichi ebrei, nel deserto, allorché celebravano a cielo aperto, sotto le stelle, la festa del raccolto.
Anticamente il piccolo cortile aveva un ingresso, l’arco è ancora visibile, verso le mura cittadine poiché era chiuso sul’altro lato da un edificio attiguo alla sinagoga stessa. In esso abitava il custode del tempio, ma, già fatiscente ai primi del ‘9OO è poi crollato, lasciando così lo spazio all’attuale piazzetta.
Uno dei lati corti della sala, quello volto a mizrach (al sorgere del sole, cioè verso Gerusalemme) è absidato e i rosoni della volta sono identici per numero e fattura a quelli del duomo di Urbino. Così come identici sono gli stucchi, floreali, che ornano il fascione che corre al di sopra delle alte colonne ioniche. Fu infatti lo stesso arcivescovo, Mons. Angeloni, a suggerire al presidente della comunità israelitica Angelo Coen la linea della nuova fabbrica. Erano i due, legati da stima e amicizia: un’amicizia ebraico-cristiana dunque veramente ante litteram.
Sulla parete di fronte si apre un’alta finestra ad arco che, unitamente ai quattro lunotti prospicienti il cortile, inonda di luce la sala. Anche nei periodi più tristi della storia del popolo ebreo, quando il bisogno di proteggersi da assalti e vandalismi induceva ad allestire gli oratori nella parte più alta dell’edificio, le finestre sono sempre state ampie, spesso anche esageratamente, rispetto alla dimensione della sala. Era infatti necessario sfruttare al massimo la luce dato l’obbligo religioso di recitare le preghiere leggendole e mai a memoria, cosa assai difficile con i lumi ad olio anche se numerosissimi.
Dopo i lavori di rifacimento e restauro effettuati nella metà dell’8OO, anche la disposizione della sala è mutata rispetto a quando era stata costruita, nel 1634. Allora erano state rispettate le regole imposte dal rito italiano cui era legata la comunità urbinate. Infatti la tevà, specie di pulpito con un ampio leggio su cui l’officiante apre il sefer-Torà (rotolo della Legge), era situata al centro della sala, la quale all’epoca prendeva luce da tre alte finestre. Questa disposizione degli arredi, unitamente all’aspetto dell’intera sala, ci è oggi nota grazie al disegno che ne fece nel lontano 17O4 Yosef Del Vecchio, rabbino di Urbino, in un delizioso manoscritto. (5)
All’epoca del restauro però, mutati gli animi per il diffondersi anche tra gli ebrei di quell’aria di fronda portata prima dai francesi e diffusa poi con i moti risorgimentali, (cui anch’essi avevano attivamente partecipato) attenuate, da secoli di convivenza, le differenze tra i riti, e soprattutto attratti dalla fama e dalla bellezza della sinagoga sefardita della vicina Pesaro, gli ebrei urbinati non resistettero alla tentazione di ispirarsi ad essa nel rifare l’arredo della propria.
Così anche la sinagoga di Urbino diventa di tipo bipolare, su tre livelli: una doppia scala sale alla tevà che assume perciò l’aspetto di un vero e proprio pulpito, nella parete opposta due gradini salgono al sacro Aron, l’Arca, e il sottospazio tra questi due elementi è destinato ai fedeli.
L’Aron ha-qodesh e la tevà
L’Aron o Arca santa, è addossato alla parete, orientato verso Gerusalemme. Merita l’appellativo di “sacro “perché contiene i rotoli della Legge (sifré Torà) i quali a loro volta sono considerati sacri perché in essi è scritto il nome di Dio; per il resto l’ambiente è spoglio di immagini o simboli nel timore che i fedeli possano cadere nel peccato di idolatria.
Una tenda ricamata (parocheth) protegge all’interno dell’Arca i sifré Torà: la sinagoga di Urbino ne ha di bellissime, a testimonianza di quanto fosse fiorente e pia, in passato la comunità. Ogni sefer, libro è avvolto in una fascia (mappà) e ricoperto da un manto di tessuto prezioso e ricamato. Nelle solenni festività è spesso ornato di puntali (rimmonim) d’argento e sormontato da una corona (keter) pure d’argento.
L’officiante estrae dall’Aron il sefer e lo adagia sul ripiano della tevà, lo libera delle fasce e inizia la lettura del passo biblico del giorno seguendo la lettura con una “manina” (yad).
I rotoli della Torà sono di pergamena, interamente scritti a mano in caratteri ebraici.
Davanti all’Aron è sempre accesa una lampada (ner tamid) simbolo della luce eterna della Torà.
È evidente che, quello che può sembrare semplicemente un armadio, è in realtà l’elemento più impotante della sinagoga e quindi oggetto di particolare attenzione nel momento in cui ne viene progettata la costruzione.
Allorché, nella metà dell’8OO, la sinagoga venne completamente ristrutturata, l’Aron antico (6) non trovava più posto nella mutata fisionomia dell’ambiente: la parete curva dell’abside richiedeva un mobile completamente diverso.
Fu così costruito quello attuale in stile neo-classico come il resto della sala.
Famosi artisti dell’epoca, collaborarono a quest’opera ed è interessante conoscerne i nomi, leggere i loro contratti e scorrere la cotabilità. (7)
In data 19 marzo 1855 viene stipulato in Urbino un contratto tra “i Sign. Felice e Angelo Coen di qui e il Sign. Francesco Pucci di Cagli, abile ebanista, che si è offerto di fare una Tribuna e un Pulpito da collocarsi in questo Tempio Israelitico…”. Si tratta di un nome al tempo famoso poiché successivamente lavorerà a lungo anche alla corte di Vienna.
Il compenso richiesto, è di 4O scudi per l’Aron e 27 per la tevà. Segue la lista dei pezzi consegnati al Pucci, lavorati precedentemente da un intagliatore di Fossombrone, certo Enrico Danielli, che però non ha, al momento del contratto, ancora consegnato i sei capitelli. che dovranno sorreggere la cupola. Per il suo lavoro gli furono corrisposti 15 scudi, e, a parte, “scudi 1,2O per il legno da intaglio”.
Sono anche elencate le spese per i vari tipi di legni che i committenti si erano impegnati a fornire al Pucci: dalla Scheggia giunsero legni di faggio, di ceraso, di acero, di noce e impellicciatura di pioppo.
Tante varietà di legni vennero usate sia per l’Aron che per la tevà cui vennero aggiunte “anco 5 lumiere d’Ottone fattura romani –,22”.
Sono opera del Pucci anche le balaustre intagliate dei balconcini del matroneo e di quelli, non praticabili, delle finestre, così pure l’elegante balaustra della scala delle donne.
Il 19 febbraio del 1856 il lavoro dell’ebanista è terminato poiché in tale data viene stilato un contratto con il doratore Crescentino Pieretti, forse anch’egli di Cagli. Questi si impegna ad eseguire il lavoro “con esattezza e ad uso d’arte per l’importo di scudi trenta (materiale escluso) pagabili a mano a mano che progredisce il lavoro, per cui promette di eseguire il tutto il più presto possibile, anzi immediatamente, e proseguire senza interruzione sino al suo termine”.
Esattamente un anno dopo il Pieretti ha ultimato il lavoro e rilascia ricevuta dell’avvenuto pagamento “in più riprese”.
A questo punto è forse interessante conoscere anche i nomi degli altri artigiani locali occupati dal 1855 al 59 nei lavori di restauro della “Scola degli israeliti” come è scritto nelle fatture. Figurano i nomi di Gerolamo Amantini e De Marchi fabbri ferrai, Gio.Battista Ortolani falegname, Vincenzo e Domenico Luciarini fabbri ferrai, Ceccaroli per materiale vario, Francesco Caciamani capomastro e i suoi muratori, Antonio Rossi imbianchino e Luigi Arceci orefice.
Nel 1859, ultimati i lavori, la sinagoga venne solennemente inaugurata dal maestro della comunità israelitica Rabbino presenti il presidente e la popolazione ebraica di Urbino che allora contava circa !!!! anime.
Maria Luisa Moscati