17 gennaio 2007 – Giornata ebraico-cristiana – Roma, Università Lateranense
Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma
Buonasera e grazie a Mons. Fisichella per questo invito che è una splendida occasione omai abituale per scambiarci delle opinioni in uno spirito di studio comune e di attenzione comune. Questa è la seconda delle occasioni che in questi giorni avrò per incontrare Mons. Fisichella dato che ce n’è stata già una al Convegno fatto al Senato, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, questa è la seconda, e la terza sarà nel Dies Memoriae che verrà celebrato il 25 gennaio, rispetto al 27 gennaio che quest’anno è sabato. Vorrei ringraziarlo anche, in particolare, perché mi offre – e lo dico con un certo timore – l’occasione di incontrare e ascoltare le parole di un grande dotto che siede alla mia sinistra, Francesco Rossi De Gasperis, che ho avuto modo di conoscere in altre circostanze. Abbiamo fatto insieme anche dei programmi radiofonici anni fa e ne ho sempre apprezzato la saggezza, la saggezza complessiva, e lo apprezzerete anche voi.
Secondo uno schema che è stato accettato l’anno scorso noi lavoriamo su un progetto che ci dovrà portare avanti per molto tempo (questo è il secondo anno): “i Dieci Comandamenti”. Quello di questa sera è il secondo. E siccome siamo in un contesto di confronto ebraico-cristiano, vorrei subito mettere dei segnali e dire qualcosa a cui avevo accennato anche lo scorso anno, di quanto siano paradossali questi incontri perché molto spesso noi veniamo a discutere di temi sui quali apparentemente siamo d’accordo, ma in realtà non siamo d’accordo. Su questo tema bisogna capire che c’è una differenza fondamentale.
Il secondo comandamento o affermazione è, in realtà, una serie di affermazioni. Voi sapete che tradizionalmente la Bibbia stessa dice che i comandamenti sono stati dieci, ma non li ha divisi ed è complicato dividerli perché, se pensiamo a questo che doveva essere il secondo, in realtà ci sono tre divieti e una affermazione. I tre divieti sono, in ordine:
– non avrai altre divinità al Mio cospetto (e poi vedremo meglio la traduzione);
– non farti immagine (e poi c’è un dettaglio delle immagini che non bisogna farsi: il cielo la terra ecc.);
– non inchinarti a loro e non adorarli;
– perché il Signore è un D-o geloso che “ricorda” o “fa ricadere la colpa dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione e fa del bene fino alle migliaia di generazioni”.
Questa è la struttura del Comandamento che è stato letto e interpretato in maniera differente dalla tradizione ebraica e da quella cristiana ed è anzi stato oggetto di polemiche – quando si facevano le polemiche – e bisogna saperlo anche per potersi rendere conto che se noi siamo oggi qua a parlare di qualche cosa, è in virtù di un modo diverso di porci i problemi.
L’ebraismo interpreta questo comandamento come una affermazione assoluta di monoteismo che esclude qualsiasi possibilità di unire l’idea monoteistica a qualsiasi altro tipo e in questo differisce sostanzialmente dal cristianesimo che inserisce nell’idea di D-o, l’immagine del D-o incarnato. Questo è un punto radicale di differenza e non possiamo ignorarlo nel contesto.
L’altro punto è un discorso che l’ebraismo ha elaborato principalmente in un certo modo e sul quale in cristianesimo si è diviso: è il tema dell’immagine divina. Se noi facciamo uno schematismo, abbiamo da una parte il mondo islamico che, in qualche modo ispirandosi a questo comandamento, proibisce qualsiasi tipo di immagine; il mondo ebraico che ammette soltanto alcuni tipi di immagine con molta attenzione, per es. ammette immagini bidimensionali, ma non immagini tridimensionali a grandezza di uomo, certamente non ammette in alcun modo la possibilità di raffigurare D-o sotto immagine. Se pensate a un’icona della spiritualità cristiana, a un capolavoro dell’arte come potrebbe essere la Cappella Sistina in cui è rappresentata la creazione di Adamo, dal punto di vista ebraico che legge questo comandamento, una cosa del genere è assolutamente proibita, perché è assolutamente proibito raffigurare D-o. Questo è un elemento sul quale non si può far finta che non esista, bisogna conoscerlo. E di qui anche il concetto della liceità di inchinarsi ad una immagine. Chiaramente – non devo certo io spiegarlo – il cristiano che si inchina ad una immagine, lo fa perché proietta in questa immagine qualcosa che sta molto al di là dell’immagine. Questo per l’ebraismo non è tollerabile, ma è ciò che ci unisce e ciò che ci divide: in qualche modo questo è per il cristiano una proiezione verso l’alto.
C’è un altro elemento importante che è quello del ragionamento sulla colpa che va a cadere sulle generazioni successive. Preso così, staccato dal contesto, è un elemento che si presta a una elaborazione polemica e giustizialista nella quale si dice: “questo è un tipico esempio della malvagità del D-o dell’Antico Testamento”. Oggi un discorso del genere lascia il tempo che trova. Mi sono andato a rileggere, preparando questo intervento, un libro molto datato se vogliamo, che venne fatto negli anni venti dello scorso secolo, chiamato “Il Decalogo”, nel quale sono raccolte delle conferenze che fecero dei rabbini italiani dell’epoca, ciascuna dedicata a un comandamento. Il secondo comandamento venne discusso da colui che era allora il Rabbino Capo di Roma, Angelo Sacerdoti. E’ interessante che tutto questo discorso della vendetta lo fa in senso apologetico dicendo: ecco ci viene rinfacciato questo aspetto vendicativo, ma chi rinfaccia questo aspetto dovrebbe ripensare al fatto che a noi viene fatto scontare ben oltre la quarta generazione una colpa che non abbiamo commesso, come quella del deicidio”. Questo è un discorso che veniva fatto negli anni venti. Rileggendo questo brano mi sono detto: benedetto sia il Signore che ci ha fatto giungere a tempi nuovi e differenti! Perché francamente il discorso che si fa fra cristiani ed ebrei oggi è – almeno suppongo e non soltanto in quest’aula, ma anche in altri contesti – ben più maturo. Per cui quest’antica opposizione, giustizia – amore, deicidio e tutti questi temi che erano un’angoscia, una sofferenza, una malattia del confronto ebraico-cristiano, oggi, in qualche modo, stanno riposti o dovrebbero essere riposti in un cantuccio. Quindi noi stiamo a un livello differente di comunicazione ed è in qualche modo una soddisfazione poterlo affermare. Tra l’altro questo discorso della presumibile vendetta è sviluppato dai nostri esegeti sottolineando una cosa importante. In quella affermazione si dice che il Signore ricorda o fa cadere la colpa fino alla terza e alla quarta generazione, mentre fa misericordia al plurale di mille, quindi almeno duemila generazioni. I maestri dicono che il Signore ricompensa il bene almeno cinquecento volte più di quanto ricompensi negativamente il male. Questa è un’esplosione di misericordia divina e non di giustizialismo.
Chiariti questi punti vorrei farvi assaggiare qualche cosa della metodologia ebraica di esegesi del testo in modo che si possa apprezzare un modo particolare di avvicinarsi.
Fondamentale nell’esegesi ebraica è leggere il testo nella lingua originale e cogliere in essa le sfumature, cosa che si perde in maniera totale quando si lavora nelle traduzioni. E allora soffermandoci proprio sulla prima espressione emerge subito un’enorme difficoltà grammaticale. Si traduce “non avrai altre divinità”, ma il senso letterale, tradotto parola per parola, è: “non sarà a te divinità altre”. Perché “non sarà” viene tradotto con “avrai”? Perché in ebraico il verbo “avere” non esiste e questo è importante. Non esiste il verbo “avere” e viene sostituito da “essere a”, ed è una grande scelta teologica confermata dall’uso linguistico, che già ci pone in un rapporto differente con la realtà per cui il tema del possesso è contrapposto al tema dell’essere, confermato in questa espressione.
La cosa strana che si pone è che questa parola, “elohim”, che rappresenta “divinità”, è una parola che viene riferita regolarmente a D-o con una particolare accezione. D-o ha un nome che noi non possiamo pronunciare, tetragrammato con quattro lettere, yod, he, waw, he. Questo è il nome che non possiamo pronunciare e che sostituiamo con Adonaj. Questo è il nome personale. Elohim è la sua qualifica, cioè quello che è Lui. Lo può essere Lui, lo può essere, per una errata interpretazione, altri. Paradossalmente questo nome, oggetto di polemiche antiche, è linguisticamente al plurale: Elohim è plurale. Essendo al plurale… come può essere D-o, che è uno, al plurale? E anche la parola “altre” è al plurale mentre il verbo è al singolare: “Non sarà a te divinità altre”. C’è un salto grammaticale. Bisognerebbe dire così: Tu non avrai, non saranno a te, altre divinità. Questa è una stranezza linguistica alla quale si risponde commentando in vario modo, dicendo che nella Bibbia molte volte ci sono questi salti per cui si usa il verbo al singolare con un soggetto al plurale. Se qui c’è qualcuno marchigiano, lo saprà benissimo: ad Ancona si parla così, “è belli” si dice… Questo succede anche nella Bibbia. Ma, a parte questo, il senso del discorso che era anche interpretato profondamente, alla ricerca di un significato, dovrebbe stare nel fatto che ciò che ti sembra un’altra cosa, può diventare una molteplicità di altre cose.
Se cominci con uno che affianchi a D-o, un unico diventerà una moltitudine. Quindi, attenzione a fare qualsiasi associazione anche singola, rispetto all’idea di D-o, perché nel momento in cui una persona contamina la purezza del concetto dell’Uno, immediatamente ha rovinato tutto e quest’uno che è stato contaminato con un altro può diventare una moltitudine di altri. Se si viola il concetto dell’unità si passa su un altro campo.
Un’altra riflessione importante è quella che riguarda il concetto di “al-panai” tradotto qui abbastanza correttamente “al Mio cospetto”. Letteralmente significa “di fronte al Mio volto”, “sopra il Mio volto”. Anche qua c’è tutta una riflessione. Cosa significa “il Mio volto”? Un esegeta italiano di grande attenzione al significato delle parole, Samuel David Luzzatto, faceva notare che molto frequentemente l’espressione “il Mio volto” si associa a qualche cosa di poco bello, alla rabbia, al dispiacere, al dolore, per cui si muore al cospetto di…, nel senso che si muore provocando un dolore per qualcuno. Quindi molto spesso “al-panai” significa: se tu metti qualcuno di fronte alla mia faccia, lo fai, come si dice in italiano, alla faccia mia… per farmi un dispetto. E’ un dolore che mi provochi.
Ma sempre ricercando nelle profondità linguistiche della parola emergono altri significati perché con simile espressione per es. è detto che morì qualcuno quando il padre era ancora vivo e allora “al-panai” significa concetto temporale: finché Io sono esistente. Per tutto il tempo che Io esisto, e Io sono infinito, tu non dovrai avere altri dei con Me. Perché Io esisto sempre, in eterno.
Altra profondità del testo è quella spaziale: tu non devi pensare che in questa stanza c’è D-o e fuori di questa stanza non c’è D-o. D-o sta sempre ovunque presente e quindi il volto di D-o è sempre presente: tu non potrai avere altre divinità in nessun luogo. Dunque “al-panai” significa: Io sono presente in eterno e Io sono presente in ogni luogo.
Il tema di questo comandamento ha una immediatezza riferita al contesto in cui viene data questa legge: gli ebrei usciti dall’Egitto dopo la sconfitta dei falsi déi egiziani. E’ già una precisa accezione rispetto ai modi dell’antichità di fare idolatria. Ma questo discorso, riferito all’eternità di “al-panai” pone la riflessione, che è comune ai mondi ebraici e cristiani, di che cosa sia l’idolatria in ogni momento. Ed ecco quindi la necessità di definire quali sono gli idoli per i quali non bisogna fare tradimento rispetto all’idea divina. Questa è una riflessione che in ogni secolo ha prodotto i suoi frutti. Il pantheon possibile è infinito. C’è il pantheon dello Stato, il dio stato, nazione, razza, arte, scienza. Tutte queste sono forme di “altri déi al mio cospetto”. A proposito della scienza, la Bibbia ci insegna che il principio della scienza è il timore di D-o. Noi non dobbiamo pensare alla scienza, non dobbiamo pensare all’altro, non dobbiamo rispettare lo stato e la nazione? No. Possiamo e dobbiamo rispettare tutto questo. Il problema è quello dell’importanza che si dà a queste strutture. Come ci insegna il profeta Osea, capitolo 14, 4: “E noi non chiameremo più nostro D-o l’opera delle nostre mani”. La nostra creazione non deve diventare D-o. “Non avrai altri déi all’infuori di Me” significa che devi riconoscere che tu sei un creato e che ciò che tu crei con le tue mani non potrà mai sostituire la funzione centrale della presenza divina.
Abbiamo detto che esiste un nome proprio di D-o e che Elohim rappresenta l’attributo di D-o, il fatto di essere D-o, Divinità. Nella teologia ebraica questa opposizione è anche di qualità perché il nome di D-o tetragrammato rappresenta l’aspetto della misericordia divina, il nome di D-o, Elohim, che sta in questo comandamento, rappresenta D-o che si realizza e si presenta nel mondo sotto l’attributo della giustizia. Allora, tenendo presente questa identità, l’espressione “non avrai altri elohim” dice: tu non dovrai avere altre forme di giustizia, giustizia differente al Mio cospetto. Qui emerge il grido fondamentale, sottolineato da quello che è stato appena detto dal primo comandamento e poi sarà detto nel quarto comandamento: è D-o che fa giustizia all’umanità e che libera il suo popolo oppresso dall’Egitto. Non dovrai avere altre forme di giustizia, non dovrai inquinare il senso di giustizia, il grido di giustizia che viene dalla Mia immagine divina. La giustizia che viene dalla Bibbia è la giustizia nella quale non si costruisce una società giusta perché è comodo farlo, perché altrimenti, se ci si ammazza o si ruba, non si può convivere. La giustizia che emerge dal messaggio divino è quella che dice che non bisogna uccidere perché l’uomo è fatto a immagine di D-o. E se l’uomo è fatto a immagine di D-o ecco che questo “elohim acherim” riemerge con tutta la sua forza. Quindi il messaggio è quello di non compromettere l’immagine divina: non bisogna spodestare, falsificare, privare di identità, coprire di menzogna quest’immagine divina che è in noi e che deve essere il centro delle nostre attenzioni. Sì a qualsiasi passione umana, ma queste passioni umane devono essere in qualche modo marginali, funzionali e mai il centro.
Maimonide, nelle regole sul pentimento, rappresenta il rapporto che deve esistere con D-o, come quello di un innamorato. L’innamorato è quello che pensa soltanto a questa cosa. Questo deve essere il tipo di rapporto che noi dobbiamo avere con il Signore. Questo tema dell’amore compare alla fine del comandamento: questo D-o geloso. Com’è possibile che D-o sia geloso? Com’è possibile che D-o sia geloso di qualche cosa che non è D-o? Se D-o è geloso di qualcosa che non è D-o, del tradimento potenziale dell’uomo, dà dignità agli oggetti che sono culto estraneo… Com’è possibile che D-o si metta sullo stesso piano di ciò che è culto estraneo? E’ una contraddizione in termini! Cosa vuol dire secondo la nostra tradizione questo D-o geloso? Significa che ci sono due tipi di gelosia. C’è la gelosia del possesso in cui – ecco il fatto del verbo “avere” che neppure esiste in ebraico – io voglio le cose per me, ho qualche cosa, possiedo qualche cosa, lo controllo totalmente perché lo voglio far diventare mio. Questa è la gelosia del possesso. E poi c’è la gelosia dell’amore, quella nella quale il tradito ama tanto la persona che si sente tradito non perché il possesso gli è venuto meno, ma perchè la persona che lui ama e che vorrebbe veder crescere, la vede scendere… Quando una persona si dedica ad un amore falso, degrada il suo livello. Allora la gelosia del Signore è una gelosia di amore che si preoccupa per la nostra crescita spirituale. Nel momento nel quale noi ci dedichiamo ad altri déi, quelli che sono déi per noi, e non sono comunque déi, la gelosia divina si scatena perché vede che l’immagine divina nell’uomo, la sua crescita, si sta interrompendo, si sta compromettendo.
Grazie.