Praga, 23 febbraio 1592. «Con un atto di grazia e desiderio di verità il nostro Sovrano, imperatore Rodolfo… ha convocato presso di sé il Gaon nostro Maestro, R. Loew ben Betzalel e l’ha ricevuto con benevolenza estrema dialogando con lui faccia a faccia… Quanto alla sostanza e alla portata del dialogo, esse costituiscono un mistero…». Le parole sono tratte dalla cronaca del matematico David Gans, discepolo del Maharal (1525-1609), che così viene descritto subito dopo: «R. Loew è il Maestro per eccellenza, la corona dei Saggi…: tutta la dispersione di Israele beve alla sua sorgente. È l’autore del Gur Aryeh, un commento su Rashì, del libro Ghevurot Ha-Shem, del libro Derekh Chayim che è un commento ai Pirqè Avot e di molti altri libri… Per venti anni è stato il Rabbino di tutta la provincia della Moravia. Poi è venuto a stabilirsi qui, a Praga, nell’anno 1573. Ha formato numerosi discepoli e vi ha fondato una Casa di Studio… Ora si è messo in viaggio per andare a stabilirsi nella santa Comunità di Posen, dove è stato nominato Rosh Yeshivah e Rabbino di tutta la provincia della Diaspora di Polonia. Che D. prolunghi i suoi giorni».
Non conosciamo il segreto dell’udienza nel Castello (hrad): sappiamo solo che l’iniziativa, senza precedenti, è stata presa dall’Imperatore. Scrive lo studioso André Neher che l’Imperatore era alla ricerca di una verità «e questa verità pensava di non poterla trovare che nella saggezza di un Rabbino… Gli Ebrei, da postulanti che erano stati fino a quel momento, divenivano ora oggetto di un invito» (Faust e il Golem, Sansoni, 1989, p. 59). Il Maharal sottolinea questa novità, interpretando magistralmente un difficile midrash nel sermone di Shavu’ot di quello stesso anno. La notte – dice il Talmud (Berakhot 3a) – è divisa in tre veglie, caratterizzate rispettivamente dal raglio dell’asino, dal latrato dei cani e infine dal dialogo fra marito e moglie. Nella prima fase, spiega il Maharal, l’asino (chamòr) simboleggia la materialità (chòmer): rappresenta l’inizio della notte, ma anche l’epoca antica culminata nella distruzione del Tempio. Ad essa è seguito il Medioevo, in cui le nazioni si sono scagliate contro il nostro popolo abbaiando come cani: fu “la mezzanotte della storia”. Infine viene la fase attuale, in cui l’odio dei popoli è stato placato dal dialogo.
MISTICO RABBI LOEW
Il 1592 segnava il centenario della scoperta dell’America, evento destinato ad aprire orizzonti terreni inesplorati. Nel frattempo era anche iniziata l’era copernicana, destinata a rivoluzionare i principi celesti. Sette anni più tardi sarebbe stato lo stesso Rodolfo d’Asburgo ad invitare l’astronomo Tycho Brahe ad aprire un osservatorio a corte e Giovanni Keplero gli succedette. «Contrariamente alla reazione violenta delle Chiese – scrive ancora Neher- i maestri della Sinagoga non vedono contraddizione fra il nuovo sistema di Copernico e i testi biblici… La Bibbia infatti, nella tradizione ebraica, non parla la lingua dei fenomeni, ma quella delle essenze… Così lo sguardo del Maharal porta molto più lontano» (p. 71). La Terra non è più al centro dell’universo: il Sole spartisce con lei la sovranità dei mondi.
Al centro, a dirimere la tensione, si colloca l’Uomo, sovrano sì del mondo inferiore, ma anche partecipe del mondo superiore. Scrive a questo proposito il Maharal (Netzach Israel, cap. 7): «In verità l’uomo è chiamato nella Torah “albero del campo” (Deut. 20,19), ma è un albero capovolto, perché l’albero ha la radice in basso infissa per terra, mentre l’uomo ha la radice in alto, ovvero l’anima che è di origine celeste; le mani sono i rami dell’albero, le gambe sono rami sovrapposti ai rami e il corpo è il tronco dell’albero. Perché l’uomo è un albero capovolto? L’albero ha radici in basso perché deriva la sua vitalità dalla terra, mentre la vitalità dell’anima umana deriva dal Cielo… e questo è il significato della Mitzwah dei Tefillin: essi “piantano” l’uomo accanto al S. B., alla trascendenza, perciò i Tefillin sono in corrispondenza del cervello e di fronte al cuore, membra in cui la vitalità dell’uomo ha le sue radici». Analogamente egli interpreta la divisione talmudica delle 613 Mitzwòt in 248 obblighi e 365 divieti come una duplice allusione: le azioni positive hanno lo stesso numero delle membra del corpo umano perché simboleggiano l’attività dell’Uomo nel mondo, mentre le astensioni sono tante quante i giorni dell’anno solare perché derivano dall’idea di controllo dell’ordine naturale, compito assolto egregiamente nel cosmo proprio dal Sole (Tif’eret Israel, cap. 4).
Nel 1592 ricorreva anche il centenario della Cacciata degli Ebrei dalla Spagna, una tragedia che aveva scosso notevolmente gli animi. Ecco che nella sua «contemplazione del mondo rovesciato… la servitù d’Israele non sembra più un’umiliazione, ma una preparazione interna alla gloria» (Neher, Il Pozzo dell’Esilio, Marietti, 1990, p. 92). Il Maharal propone dunque una nuova interpretazione fondata sulla Qabbalah: «il 1492 non era la punizione, ma l’esplosione delle scintille, la loro dispersione attraverso il mondo, l’occasione finalmente offerta al popolo ebraico di sciamare, di fecondare, di redimere» (p. 62). La tensione fra esilio e redenzione ben si esprime, osserva il Maharal, nella lingua ebraica che dedica a tali concetti due termini assonanti: golah e gheullah. Nella Haggadah di Pessach è scritto: “Questo è il pane della povertà” a proposito della Matzah. Che cosa c’entra la povertà con la libertà – si domanda il Maharal nel suo commento – dal momento che si tratta di due opposti? Egli risponde che l’essenza della redenzione è l’indipendenza: se lo schiavo ha stretti legami con il suo padrone, «anche il ricco non è indipendente, in quanto è legato alla sua proprietà: solo il povero che nulla possiede è davvero indipendente e gode della gheullah».
Il mondo stesso è stato creato a partire dalla lettera bet, la seconda dell’alfabeto: esso si basa dunque sulla dualità e la discordia, producendo una tensione fra opposti. Ma sono proprio i poli opposti ad attrarsi e quindi a mandare avanti l’universo, come ci insegnano i fenomeni della sessualità e del magnetismo! È peraltro vero che la convivenza fra contrari presuppone che essi abbiano fra loro un elemento unificante: solo se il diverso da me ha qualcosa in comune con me possiamo pensare di trovare un accordo. La tensione non può perciò essere lasciata al caso: onde evitare gli estremismi esiste un elemento mediatore, chiamato in ebraico Emtza’ (con la alef iniziale, la prima lettera dell’alfabeto!). L’Emtza’ per eccellenza è D-o che si serve della Torah a questo scopo: la prima parola dei Dieci Comandamenti è Anokhì (“Io” per eccellenza), anch’essa introdotta da alef. Anticipando l’idea di sintesi hegeliana, il Maharal scrive che il Mediatore non si trova in mezzo ai due opposti, ma li supera. La mediazione non comporta dunque un’idea di retrocessione o sottrazione (3-1=2), ma semmai un’addizione (1+2=3).
È quanto troviamo nel racconto della Creazione del Mondo: il primo giorno è scritto una volta: “D-o vide che era cosa buona”; il secondo non è scritto affatto; il terzo giorno è scritto due volte!
Il Maharal commenta una Mishnah all’inizio del trattato Peah dove si elencano, fra gli altri doveri fondamentali dell’uomo, l’onore ai genitori, le opere buone, la creazione della pace fra l’uomo e il suo prossimo. «L’onore dovuto ai genitori deriva dal diritto in quanto tale. Le buone opere, come indica il loro nome, derivano, al contrario, dal chessed, dalla generosità gratuita. Quanto al terzo elemento, la creazione della pace fra l’uomo e il suo prossimo, non deriva né dal diritto in quanto tale, poiché nulla obbliga a suscitare la pace se non lo slancio del cuore, né dalla pura generosità, poiché senza la pace gli uomini si divorano a vicenda: la coesistenza esige dunque, malgrado tutto, che la pace sia assicurata. In realtà, la creazione della pace è auspicabile ed è proprio per questo che essa sta nel mezzo (Emtza’) tra l’obbligo e la gratuità».
L’espressione adoperata dal Maharal, scrive Neher, è volutamente ambigua, poiché essa «può intendersi nel senso di compromesso, che permetterebbe all’uomo di trovare, nella confortevole neutralità, un riparo contro le tentazioni estremistiche.
Ma può anche essere considerata nel senso di una sintesi. Sarebbe allora una hashlamah (“completamento”, da Shalom), termine che si pone ad un grado superiore a quello del compromesso. Sarebbe un’interferenza e perfino una compenetrazione dei contrari, la loro conservazione per mezzo di una sintesi. Essa sola consentirebbe di realizzare simultaneamente degli atteggiamenti estremi e contraddittori» (p. 43).
L’intuizione di un D-o Unico, collocato al di sopra di ogni singolo fenomeno, dotato di un’autorità che sa “volare alto” aldilà del contingente, in poche parole in grado di superare, sublimare e conciliare fra loro esigenze opposte, va di pari passo con l’idea stessa di pace secondo l’analisi che siamo venuti facendo. Shalom, del resto, è tradizionalmente uno dei Nomi del D-o d’Israel.
MISTICO E TALMUDISTA
Dal Maharal pensatore al Maharal talmudista. Abbiamo accennato alle sue interpretazioni innovative del Midrash. Se fino al suo tempo l’attenzione degli studi era rivolta soprattutto alla definizione della Halakhah e quindi si concentrava sulle fonti normative, con il Maharal ha inizio un processo di recupero delle parti omiletiche. Facendo uso soprattutto dell’interpretazione allegorica, il Maharal dimostra come il Midrash, al di là del suo linguaggio semplice e concreto, contiene insegnamenti e riflessioni di grande ricchezza e profondità filosofica, al punto da assurgere a espressione originale del pensiero ebraico. In questo filone si colloca la sua polemica con l’umanista ebreo mantovano ‘Azaryah De’ Rossi, il quale sosteneva invece che mentre la Halakhah è e deve rimanere immutabile, la Haggadah (tradizione omiletica), non essendo di per sé normativa, può essere soggetta persino a revisione. Tale impostazione, sostiene il Maharal, contiene un errore di fondo: lo svuotamento della pratica dai suoi presupposti filosofici non può che sortire l’effetto di lasciarla priva di significati e di contenuti. Il suo insegnamento aprì la via al “rinascimento” dell’Ebraismo ortodosso in età moderna: da R. Moshe Chayim Luzzatto a Rav Kook gli scritti del Maharal di Praga furono considerati un prisma imprescindibile.