Israele va inteso come nazione oppure come comunità di fede? Questa e altre domande rivelano quanto sia arduo elaborare un modello organico. Per Michael Walzer, filosofo americano, la Sacra Scrittura non dà indicazioni sulla vita pubblica ma solo sulla morale
Gianfranco Ravasi
“A dare risposte sono capaci tutti, per fare le vere domande ci vuole un genio”. A questo paradosso di Oscar Wilde sembra essersi adattato Michael Walzer nell’ultimo suo saggio, All’ombra di Dio (ma curiosamente l’ultimo capitolo è titolato “La politica in ombra”) sulla “politica nella Bibbia ebraica”, come recita il sottotitolo. Infatti, in una delle ultime pagine riassume così la sua analisi: “A chi cercasse nella Bibbia una politica fondamentalista rimarrebbero per lo più delle domande. Quale dei regimi di cui parlano le storie è l’autentico regime biblico? La monarchia di Dio? La monarchia dei re (davidici)? Il regno sacerdotale? Il governo misto di re, giudici, sacerdoti e profeti a cui fa pensare il Deuteronomio, 16-18? Come conciliare i tre codici di leggi – e a chi spetta? Tra sacerdoti, profeti, giudici e scribi, quali sono gli interpreti autorevoli della legge di Dio? Qual è la funzione degli anziani? Quale posto occupa Israele tra le nazioni? La politica esterna d’Israele dovrebbe ispirarsi ai principi di autodifesa o a quelli dell’espansione territoriale oppure a quello della pacificazione e dell’accomodamento – o forse Israele semplicemente non dovrebbe avere politica estera? Si deve pensare a Israele come nazione politica oppure come comunità di fede?”.
Una messe di domande che in alcuni casi celano già in sé le risposte, ma che in molti altri rivelano quanto sia arduo elaborare un modello politico omogeneo sulla base dei testi anticotestamentari. Effettivamente, se si può configurare sulla questione un profilo all’interno della Torah ove sembrano intrecciarsi il sacro e il profano, esso è tuttavia contestato nella pratica dalla profezia, che è coscienza critica e spina nel fianco della politica. Ma se si scava nella stessa profezia, a un Isaia, che propone un rimando non negoziabile alla fede contro l’impostazione al dialogoe al compromesso sostenuto dal re a lui contemporaneo Acaz, si oppone un Geremia che inverte le posizioni adottando nei confronti dei Babilonesi proprio l’opzione condannata da Isaia.
Ma ritorniamo a Walzer, un pensatore nato a New York nel 1935, autore di una trentina di saggi, docente a lungo nell’Institute for Advanced Studies della prestigiosa Università di Princeton, fondatore di «Disseni», una rivista considerata quasi la colonna portante della provocazione intellettuale “leftist”. Il mondo culturale italiano gli ha riservato da tempo attenzione e non solo perché egli ha la sua brava voce canonica nella “Garzantina” di Filosofia, ma anche perché sono state tradotte le sue opere principali: ad esempio, Laterza nel 2009 ha proposto sia i suoi saggi teorici presenti in Pensare politicamente sia la sua analisi sulle Guerre giuste e ingiuste, mentre le Edizioni Lavoro hanno anticipato già ne11994 il suo primo scavo nel soggetto a cui ci riferiamo, con Politica e profezia. Ma l’opera più significativa riguardo al nostro tema rimane quell’Esodo e rivoluzione, apparso nel 1985, tradotto da noi nel 1986 e che Feltrinelli ha riproposto nel 2004.
“L’esodo di Israele dall’Egitto – come egli scriveva – è una storia, una grande storia, che è diventata parte della coscienza culturale dell’Occidente, tanto che una serie di eventi politici sono stati collocati e compresi all’interno della sua cornice narrativa”. Un evento-paradigma, quindi, assunto nei secoli successivi come chiave ermeneutica dai più diversi attori politici: dai Valdesi piemontesi agli afro-americani, dai protestanti inglesi in marcia nel Nuovo Mondo fino ai sionisti di Herzl (si pensi alla nave Exodus e al relativo film di Preminger) e, in ambito cattolico, alla teologia della liberazione. Non si deve, però, ignorare il fatto che un simile avvenimento storico-politico viene collocato nel cuore del Credo di Israele come articolo di fede fondamentale intrecciando, così, inestricabilmente religione e politica (“Dio ci fece uscire dall’Egitto” e dall’oppressione faraonica). Dissezionare i due livelli è tutt’altro che facile, nonostante l’uso fondamentalistico del nodo esodico da parte dei citati processi di liberazione e di rivoluzione.
Lo stesso approdo finale della marcia esodica nella terra di Canaan è contemporaneamente visto dalla Bibbia nel suo complicato e modesto sbocco storico (le continue tensioni con le popolazioni indigene cananee e filistee ne sono l’attestazione esplicita), ma è anche letto teologicamente come l’ingresso nella “terra promessa” trasfigurata, ove scorre latte e miele, fino al punto di farne una metafora escatologica. Anche nei dodici capitoli del libro All’ombra di Dio, articolati diacronicamente dal Sinai (e quindi dall’esodo dall’Egitto) fino allo sbocco messianico, si ha la registrazione di una simile oscillazione che impedisce di trattare la Bibbia come siopera coi classici del pensiero politico e, di conseguenza, l’esito è un po’ minimalista: «L’Israele biblico è una cultura religiosa i cui testi sono di natura giuridica, storica, profetica, liturgica, sapienziale ed escatologica, mai espressamente politica».
L’accento cade, infatti, sulla “alleanza” con Dio, sulla sua sovranità primaria che rende il re ebraico un suo luogotenente. Il messianismo si rivela come un antidoto alla sostanziale incapacità di governo della dinastia davidica. La stessa profezia ha un interventismo nell’orizzonte sociale che manifesta un radicale pessimismo nei confronti dell’azione dei capi di Giuda o di Israele, tanto da configurarsi come una sorta di antipolitica a matrice, però, religiosa. Pur priva di un’esplicita teoria politica odi differenti modelli politici ben delineati, la Bibbia ebraica è, però, tutt’altro che apolitica, ma lo è sempre con uno squilibrio a favore del principio religioso che risulta l’archetipo dominante.
Un’obiezione potrebbe essere, però, avanzata a Walzer. Egli usa il testo sacro nel suo dettato narrativo letterale. Detto in altri termini, assume la storia di Israele così come la raccontano gli autori sacri. Ebbene, un’applicazione più sistematica (anche se faticosa) dell’analisi ermeneutica di quei testi permetterebbe forse di isolare maggiormente uno spessore specifico assegnato alla politica, ridimensionando il primato sacrale e scoprendo qualche traiettoria costante e coerente per il tema politico, pur nell’evidente pluralismo dei modelli. Questi tratti di indole generale potrebbero condurre a un limitato ed essenziale abbozzo di teoria politica antico-testamentaria, mai però – come accade nell’uso fondamentalistico della Bibbia – all’identificazione di un progetto “canonico” da considerare come normativo.
Michael Walzer, All’ombra di Dio. Politica nella Bibbia ebraica, Paideia, Brescia, pagg. 186, € 21,5o ***
Il Sole 24 Ore – Domenica 15.12.2103