Una riflessione di Riccardo Di Segni
Pochi mesi dopo la liberazione di Roma dai tedeschi un piccolo gruppo di ebrei romani fece la ‘aliyà. Nel giro di pochi anni molti di loro rientrarono in Italia. È una vicenda non molto nota, su cui esistono alcune preziose testimonianze memorialistiche, ma forse ancora non una ricostruzione storica precisa. Su questa vicenda fa ulteriore luce un libro appena uscito che ho ricevuto, gradito omaggio, dall’amico Maurizio Tagliacozzo; curato da sua sorella Giordana, è intitolato Il ritorno di Tosca, Auschwitz – Roma- Eretz Israel – Roma, Silvio Zamorani editore, Torino 2021. Di questo libro si parla in altre parti di questo giornale; concentriamoci piuttosto sulla vicenda degli intrepidi ‘olìm. Alcuni di loro riuscirono a inserirsi, ma molti altri no, e tornarono. Non fu però un abbandono dell’ebraismo: loro stessi e i loro discendenti, oltre ad aver fatto carriere importanti nel mondo degli studi e dell’imprenditoria, hanno avuto e continuano ad avere ruoli dirigenziali anche ai massimi vertici dell’ebraismo italiano; un ramo conta dei rabbini noti; e alcuni di quella generazione e dei loro discendenti sono tornati o si sono mossi a vivere in Israele.
Questa storia sollecita a riflettere su alcune caratteristiche dell’ebraismo romano, che emergono nella difficile lotta per l’integrazione in Eretz Israel. Nel caso di allora si trattò di persone di famiglie borghesi, con un passato di commerci ben avviati, benché rovinati dalla persecuzione e dalla guerra; alcuni avevano compiuto studi universitari che potevano avviarli a professioni liberali. Arrivati in “Palestina” dovettero subito rinunciare ai minimi agi cui erano abituati e rimboccarsi le maniche per sopravvivere. La lingua per molti rappresentò un ostacolo insormontabile, e fu difficile adattarsi alla vita di agricoltori nei qibbutzim o di operai nelle fabbriche. Per i giovani le sfide furono differenti: scuole con curricula differenti, socializzazione con coetanei di origini e culture disparate. E poi il problema religioso. Con una selezione grossolana, all’arrivo i ragazzi vennero classificati come datiìm, religiosi, scegliendo una delle due categorie possibili (l’altra era quella dei non religiosi, chiloniim, laici). Le famiglie da cui provenivano erano attaccate all’ebraismo, tanto più dopo il trauma della persecuzione, mantenevano tradizioni (si pensi che Tosca in prigionia aveva osservato non solo il Kippur ma anche il 9 di Av); ma il livello di osservanza era lontano dallo standard di coloro che venivano considerati in Israele religiosi: mancava loro la confidenza con i testi tradizionali, l’abitudine alla preghiera quotidiana, l’uso del tallèd qatàn (che a Roma veniva chiamato arbàng canfòd ma da pochissimi indossato) e dei tefillin, l’osservanza rigorosa dello shabbat che non si limitasse alla partecipazione alla preghiera dell ’arvìt. Per alcuni ragazzi fu il brusco ingresso in un universo nuovo che peraltro non capiva né tollerava il dissenso e la disobbedienza; alcuni accettarono volentieri e si integrarono, altri ebbero reazioni d fuga e rigetto. I genitori se li portarono via per i motivi sociali ed economici sopraddetti; per loro, i genitori, l’impatto con mondi religiosi intensi non era il problema principale, ma per i ragazzi che non vivevano con le famiglie la diversità pesava. Una volta riportati in Italia si ricrearono ciascuno una sua identità religiosa, forse più vicina a quella dell’ambiente originario che a quella che avevano assaporato in Israele.
L’avventura palestinese degli anni 1945-47 fu uno dei bruschi impatti dell’ebraismo italiano, e romano in particolare, con la complessità del mondo ebraico. In qualsiasi comunità, e quella italiana non fa eccezione, sono rappresentati tutti i modelli possibili di identità ebraica; solo che nella diversità c’è sempre un modello prevalente in cui si riconosce la maggioranza delle persone. Quello della maggioranza degli ebrei italiani e romani deriva da una storia del tutto particolare, dalle glorie e sofferenze del passato alle ubriacature emancipatorie in un contesto non ostile e invece seducente: era il modello di mantenimento di tradizioni essenziali (come le feste, la frequentazione sinagogale nel sabato) e di osservanza “tiepida”. Soprattutto dal punto di vista della educazione e degli studi religiosi il quadro era carente; parlando di Roma, dopo l’apertura del Ghetto non c’era stata scuola ebraica fino al 1924, e all’inizio fu solo elementare e frequentata dai meno abbienti, con numero limitato di ore destinato a studi tradizionali. D’altra parte, anche stando nel tiepido modello prevalente non ci si poteva definire irreligiosi o laici. Per cui, nell’incontro con altri mondi, gli ebrei romani si scoprirono troppo poco religiosi rispetto ai religiosi e fin troppo religiosi per i laici.
A distanza di tre quarti di secolo da quegli avvenimenti ci si aspetterebbero cambiamenti radicali rispetto a questo schema. In effetti niente sembrerebbe come prima: dopo le immigrazioni in Italia di ebrei che hanno portato dai loro paesi mentalità e modelli identitari diversi e talora più intensi; dopo le ondate di aliyòt italiane e i continui scambi con chi vive, lavora e studia in Israele; in un mondo in cui si circola ampiamente e liberamente e si visitano realtà ebraiche diverse; con la rivoluzione digitale che ci fa conoscere e comunicare con testi, video e persone di altri mondi; con la crescita delle strutture educative formali e non formali, nelle scuole e nelle sinagoghe decentrate.
Eppure il problema della difficile integrazione continua a presentarsi, come si è visto recentemente con l’esperimento di Na’alè, una organizzazione israeliana paragovernativa che seleziona giovani in età liceale e li mantiene agli studi in Israele in strutture collegiali, per facilitarne l’inserimento e la futura aliyà. Per alcuni dei nostri giovani è stato difficile o impossibile trovare una scuola israeliana confacente al proprio modello, perché l’alternativa era o una scuola “laica” o una scuola religiosa.
Di nuovo, e dopo tanto tempo, lo strano modello nostrano entra in conflitto con realtà e pensieri che non propongono vie di mezzo e fanno una distinzione netta tra le realtà, per cui si può stare o di qua o di là. Se noi seguiamo una via di mezzo, la causa è prima di tutto nei numeri, per noi troppo piccoli, che non ci permettono di fare ulteriori divisioni; ma è anche nel modo di pensare, che sembra essere tollerante per la diversità e la scelta personale, o che evita ogni tipo di “esagerazione”.
C’è da chiedersi allora se il modello che ci portiamo addosso sia buono, da difendere, addirittura da esportare, o piuttosto se non sia da modificare. Certamente il nostro modello ha dei punti a favore notevoli, è “inclusivo”, ci fa sentire comunità al di sopra delle differenze, demolisce barriere che potrebbero avere effetti repulsivi di allontanamento. La nostra è la risposta locale, dovuta non so se a necessità o saggezza, alla domanda di se e come sia possibile mettere insieme tante diversità. Invece la risposta prevalente in molte comunità del mondo e in terra d’Israele è che ognuno se ne stia per conto proprio. Se il tuo bet hakeneset è troppo rigido o troppo poco rigido, me ne faccio uno come voglio io. Se la tua scuola si basa su principi che non condivido, non cerco di cambiare la scuola o di trovare un compromesso, mi faccio la mia scuola.
D’altra parte bisogna capire che la necessità di stare tutti insieme non deve comportare ogni possibile compromesso. Dentro a un bet hakeneset ortodosso vanno rispettate certe regole. Se le si cambiano, oltre certi limiti, non sarà più un bet hakeneset ortodosso. Sull’impostazione didattica di una scuola e sui suoi programmi di formazione ebraica vi possono essere punti di vista molto differenti. La richiesta, fatta da molte famiglie, di ridurre all’osso gli studi ebraici, contrasta con quella di molte altre famiglie che vorrebbero studi più intensi. Se si dovessero ascoltare i primi si arriverebbe (o si rimarrebbe) a un appiattimento in basso. Allora i casi sono due: o la scuola comunitaria ebraica risponde alle richieste esigenti, o si avrà un’altra scuola privata non comunitaria che assorbirà il pubblico di un certo tipo, con buona pace dell’ideale della convivenza e dell’unità. Senza andare tanto lontano, a Milano questa è una realtà da anni, e a Roma lo sta diventando. Insomma il modello unitario non deve portare all’appiattimento e alla perdita dei valori di cui la comunità come istituzione si deve fare promotrice. Deve stare al passo con i tempi, deve guarire dalla malattia italiana del provincialismo, deve confrontarsi con il mondo ebraico. Se le nostre scuole devono essere concorrenziali con quelle non ebraiche nella qualità dei risultati formativi da spendere nel mercato degli studi e del lavoro, lo devono essere altrettanto nella qualità della formazione ebraica. I giovani che nel 1945 approdavano da Roma in Palestina erano, malgrado la loro origine e l’identità tradizionale, ebraicamente analfabeti. Bisogna impedire che questo succeda ancora nel 2021.
In molti ambienti della nostra comunità questa esigenza è vista come estremismo religioso, una perniciosa influenza di qualche matto venuto da fuori e vestito di nero. Ma la scelta individuale di crearsi il proprio ebraismo come lo si vuole, e la reazione all’intolleranza e all’incomprensione altrui che spesso vengono anche da ambienti “religiosi” (ma l’intolleranza è malattia comune) non devono avere un effetto distruttivo sulle nostre istituzioni. Né ci si può adagiare sull’immagine per alcuni confortante del “così era”. Perché non è confortante, perché quello che si ricorda è durato poco, è cambiato in continuazione e spesso è stato il prodotto di fattori esterni negativi. E poi, detto chiaramente, non ci si può vantare, come ebrei, della propria ignoranza e analfabetismo ebraico e farla diventare un modello. O vantarsi e difendere le proprie tradizioni e specificità (cosa opportuna) ma senza sapere o capire di che si tratta.
La sfida è quella di trovare il difficile equilibrio che tuteli da una parte i valori dell’unità, della non frammentazione, della convivenza, che sono propri della parte migliore della nostra cultura, ma che dall’altra garantisca un’offerta comunitaria credibile a chi vuole vivere e trasmettere un ebraismo più radicale.
Qualcuno si lamenta che questa sia una richiesta verticistica. Angelo Sermoneta (Baffone), che esprime con forza e arguzia nei suoi quotidiani interventi sui social lo spirito dell’antica Piazza, scrive che “per costruire si parte dal basso in alto, no dall’alto in basso; l’estremismo religioso non porta da nessuna parte”. Teoricamente ha ragione, ma non si rende conto che “il basso” è cambiato e chiede esso stesso di costruire; che se “l’alto” non porta progettualità non si capisce a cosa serve; e che non si può bollare di estremismo la richiesta di una maggiore consapevolezza culturale e di pratica religiosa ebraica, dopo la voragine creata per secoli dalla persecuzione della Chiesa, dall’illusione patriottica e da tutto ciò che ha portato lontano dall’ebraismo gli ebrei romani. Se come ebrei romani siamo ancora al centro dell’interesse dell’ebraismo mondiale e israeliano lo dobbiamo alla nostra storia, alla nostra collocazione geopolitica, al fatto che sappiamo “vendere” bene le nostre specificità, ma nella sostanza tutto questo è abbastanza marginale, spesso solo folkloristico, e non sarà quello che garantirà la nostra continuità futura. Roma ebraica fa notizia, pensiamoci bene, quando il papa ci fa gli auguri per Rosh haShanà, per quando manifestiamo per Israele, per quando a Oshaana Rabbà affolliamo il Tempio, per i carciofi alla giudia, ma non per le nostre proposte culturali, che non esistono, al mondo ebraico.
Quello che serve alla nostra comunità è un ripensamento totale nell’investimento educativo. Abbiamo bisogno di tanti nuovi insegnanti che abbiano la capacità di spiegarsi, di attrarre senza coercizione, di mostrare comportamenti esemplari; e abbiamo bisogno di amministratori con grandi visioni e volontà di investimenti. Su questo bisogna lavorare, per riportare la nostra comunità al centro della vita e della produzione culturale ebraica.