Cuneo – 08/05
Il Talmud [1] riporta un’interessante discussione: è più importante lo studio o la pratica? R. Tarfon si espresse per la superiorità della pratica, mentre R. ‘Aqivà parteggiava per lo studio. I Maestri appoggiarono R. ‘Aqivà, perché lo studio conduce alla pratica. Non è errato tuttavia sostenere che nell’ebraismo la dimensione pratica svolga un ruolo fondamentale, al pari, se non di più, della dimensione teorica. R. Shim’on ben Gamliel il vecchio infatti afferma nel Pirqè Avot[2] “l’essenziale non è la teoria, ma l’azione”.
Il termine mitzwàh “rappresenta il punto focale della coscienza religiosa ebraica[3]. Quanto sia importante la pratica delle mitzwoth è già intuibile dalla conformazione dell’essere umano. Secondo i maestri infatti nel corpo umano vi sono 248 membra, in corrispondenza dei 248 precetti affermativi della Toràh e 365 nervi, in corrispondenza dei 365 precetti negativi. La medesima struttura è individuabile persino nella divinità, dove al Tetragramma corrispondono i precetti affermativi e al nome Eloqim i precetti negativi[4]. Scrive Heschel[5] che è nelle azioni “che l’uomo si accorge della vera realtà della sua vita, del suo potere di recare danno e di offendere, di distruggere e di rovinare; della capacità di godere e far godere gli altri; di calmare e di accrescere le proprie e le altrui tensioni”. Questa predisposizione verso l’ambito pratico è evidente già nel momento in cui il popolo ebraico accettò la Toràh, affermando “faremo e ascolteremo[6]”.
La fede precede la comprensione. L’azione viene posta in primo piano, come se fosse una premessa per qualsiasi ulteriore discorso[7]. E’ scritto nella Mechiltà[8] che il Signore ha fatto uscire il popolo ebraico dall’Egitto affinché ricevesse il giogo delle mitzwot, poiché “chi accetta il giogo delle mitzwot accetta l’uscita dall’Egitto, e chi nega il giogo delle mitzwot nega l’uscita dall’Egitto”. Non è possibile concepire l’ebraismo secondo le nostre categorie di pensiero, che ci impongono di esaminare un sistema prima di accettarlo. Questo tipo di ragionamento infatti è valido quando si parla di pura teoria, ma mostra i propri limiti “quando viene applicata alle sfere in cui il pensiero e l’azione, l’astratto e il concreto, la teoria e l’esperienza risultino fattori l’un l’altro inseparabili”[9]. Inoltre si deve considerare che vi sono delle mitzwot, i chuqqim che per definizione non hanno una giustificazione razionale ma in quanto comandate dal Signore siamo tenuti a mettere in pratica senza avere il permesso di metterle in discussione[10], Ciò tuttavia non ci esime dal dovere di investigarle: si dice che il re Salomone, dall’alto della sua sapienza, abbia compreso il motivo della maggior parte dei chuqqim[11]. Elemento caratterizzante dell’appartenenza al popolo ebraico è l’accettazione delle 613 mitzwot. Ciò risulta in maniera evidente nel processo di conversione all’ebraismo, al termine del quale il candidato accetta si di sé “tutti i precetti della Toràh, quelli di istituzione rabbinica e tutti gli usi del popolo ebraico”.
Per questo i Maestri fecero in modo che gli ideali morali dovessero tradursi in norme pratiche di uso comune nella collettività, e arrivarono alla formulazione delle halakhot[12]. I Maestri infatti si rendevano conto che gli ideali sarebbero rimasti vuote frasi se non avessero trovato realizzazione in una pratica di vita. La Toràh, che etimologicamente deriva dalla radice Y-R-H (mostrare), indica quale sia la strada da seguire, una linea di condotta[13], un insegnamento che è tutto un’etica, e non essenzialmente come qualcuno vuol sostenere e credere, una ritualistica sacrale[14]. Come dice Heschel “la pienezza del significato delle mitzwot sta nel fatto che essere sono i veicoli coi quali avanziamo lungo la strada dei fini spirituali; le mitzwot sono gli strumenti coi quali viene realizzato il sacro”[15]. Nel giudaismo rabbinico non esiste una teologia sistematica che esponga in modo omogeneo le opinioni da seguire. Al contempo si deve notare che non esiste un’autorità centrale che vigili sulle credenze religiose dei fedeli e cosa questi debbano credere, come avviene con la Chiesa cristiana. I tentativi di elaborare delle affermazioni dogmatiche parte dal commento dei testi della tradizione scritta e orale, e sono sempre state presenti varie opinioni discordanti, senza che questo venisse percepito come un problema[16]. Ciò che ha sempre unito il popolo ebraico è l’unità nella pratica, aldilà delle discordanze sugli aspetti teorici. Rav Shimshon Refael Hirsch vedeva con sospetto chi parlava di una religione ebraica o di una teologia ebraica. Sono i comandamenti infatti a costituire l’essenza primaria dell’ebraismo. La teologia ha infatti come oggetto pensieri dell’uomo su Dio e sulle cose divine, mentre la Toràh è il pensiero che Dio riserva agli uomini e alle loro faccende. La Toràh non vuole dirci come stanno le cose in cielo, ma come dovremmo guardare nei nostri cuori e nelle nostre case.
Nel capitolo 12 dell’Esodo troviamo una lunga serie di prescrizioni relative al qorban Pesach, che sembra tramutare il ricordo dell’uscita dall’Egitto, dal buio alla luce, dalla schiavitù alla libertà in una questione prosaica e “piccola”[17]. Perché la Toràh ha optato proprio per questa strada? A questa domanda risponde l’autore anonimo del Sefer ha-Chinukh (XIII sec.), il quale[18] sostiene che le azioni che compiamo ogni anno in una stagione specifica perseguano lo scopo di mostrarci il livello al quale il popolo ebraico era giunto, e attraverso l’azione e l’immaginazione fissiamo questi concetti nel nostro spirito. Il Sefer ha-chinukh considera infantile pensare che un unico ricordo possa rimanere in modo duraturo nel cuore degli uomini, poiché l’uomo viene formato in base alle sue azioni e da esse dipendono i suoi pensieri, nel bene o nel male. Un malvagio completo, le cui inclinazioni sono rivolte al male, se si sforza di praticare la Toràh e le mitzwot con costanza, persino perseguendo secondi fini, immediatamente si volgerà al bene. Attraverso le proprie azioni infatti ucciderà l’istinto malvagio, perché “i cuori vengono trascinati dietro le azioni”. E’ vero anche il contrario: se una persona giusta verrà costretta dal re a fare in maniera continuata un lavoro disdicevole, con il tempo la sua interiorità volgerà al male. Per questo motivo “il Signore, volendo attribuire un merito ad Israele, ha moltiplicato la Toràh e le mitzwot”. A questo hanno accennato quando hanno affermato (Menachot 43,b): “chi ha la mezuzàh alla propria porta, lo tzitzit al proprio vestito, ed i tefillin in testa è certo che non peccherà”. Si tratta infatti di mitzwot perpetue, che stimolano l’uomo continuamente. Il Sefer ha-chinukh ritiene pertanto che non si debba procedere dalla conoscenza all’azione, ma il contrario[19]. N. Leibowitz[20] porta come esempio gli aguzzini dei campi di sterminio, i quali, prima di iniziare erano delle persone normali, non angeli, ma neanche bestie feroci, e attraverso la reiterazione di crudeltà si erano tramutati in malvagi completi, perché “l’uomo viene formato per mezzo delle proprie azioni”. Come questo è applicabile in negativo, è vero anche in positivo: anche le buone azioni hanno la capacità di migliorare l’uomo.
Non solo la costanza nel compiere le azioni, ma ogni singola scelta dell’uomo ha un valore enorme. Nel trattato di Qiddushin [21] si afferma: “se egli compie una buona azione, egli sarà benedetto, perché fa pendere la bilancia dalla parte del merito, sia per se stesso sia per il mondo intero; se egli compie una trasgressione sarà maledetto, perché porta se stesso e il mondo intero dalla parte della colpa.
La vita organizzata secondo il sistema della halakhàh è costituita da una serie di azioni esteriori. Si potrebbe pensare che un individuo viene giudicato in base al numero di azioni compiute o alla loro bontà, piuttosto che in base all’interiorità e alla devozione di chi le compie. Si deve giudicare una persona solo in base a quello che fa e non in base a quello che è? Heschel[22] è del parere che, al di là delle apparenze, in base alle quali la legge frena l’uomo, questa è in realtà un’implorazione alla creatività. Secondo il Sifrè[23] l’elemento fondamentale nella pratica religiosa è quello del cuore. Scopo generale delle mitzwot è quello di forgiare l’uomo perché “cosa interessa al Signore se si macella dal collo o dalla cervice?[24]” seguire le vie del Signore. Chiede nel Talmud[25] R. Chamà bar Chaninà “l’essere umano può forse seguire la Presenza divina? Non è forse stato detto: perché il signore vostro Dio è come un fuoco che divora? Il senso, però, è di camminare nelle vie del Signore. Come egli veste gli ignudi, così tu pure devi vestire gli ignudi, come egli fa visita ai malati, così tu pure devi fare visita ai malati; come egli conforta gli afflitti, così tu pure devi confortare gli afflitti”. Rav Shelomò Wolbe[26] ritiene che ciascun essere umano con le sue forze, predisposizioni e fattezze, assolutamente uniche al mondo e nella storia, abbia un compito assegnato dalla divinità, che nessun altro, se non lui, può adempiere. R Chayim di Volozin[27] sostiene invece che il motivo ultimo dei precetti non sia stato rivelato ad alcun uomo, neanche a Moshèh, perché la Toràh, che è emanata dall’alto, è al di sopra di qualsiasi comprensione umana. Yesha’iahu Leibovwitz[28] defnisce il significato religioso delle mitzwoth come la “prosaizzazione della religiosità dell’ebraismo”, cioè: accanto ai momenti più sublimi della religiosità, consistenti nei valori etico-religiosi che possono definirsi i momenti lirici della vita tradizionale ebraica, esiste la pratica che rappresenta la prosa di questa stessa vita tradizionale[29]. Commentando il Salmo 8 Rav Shimshon Refael Hirsch, spiegando il verso conclusivo, che recita “o Signore nostro Dio, quanto è grande il Tuo nome su tutta la terra, anziché affrontare il tema della grandezza di Dio rivolge la sua attenzione sull’umanità, e questo rappresenta una caratteristica peculiare dell’ebraismo. Conoscere Dio non vuol dire avere una visione metafisica sull’esistenza, l’essenza e gli attributi divini, ma coglierLo nell’essenza dell’uomo, nella sua vocazione e nel suo compito in relazione al mondo che lo circonda. L’ottavo Salmo parla “dalla bocca dei bambini”: anche la mente di un bambino è in grado di comprendere quello che abbiamo bisogno di sapere su Dio
[1] TB, Qiddushin 40b.
[2] Avot I, 17.
[3] A.Y. HESCHEL, Dio alla ricerca dell’uomo, Torino 1969, p. 388.
[4] Zohar, parashat Terumàh.
[5] A.Y. HESCHEL, Dio alla ricerca dell’uomo, Torino 1969, p. 306.
[6] Es. 24,7.
[7] L. SESTIERI, Ebraismo e cristianesimo. Percorsi di mutua comprensione, Milano 200, p. 87.
[8] Mechiltà, Sheminì, cap. 12.
[9] A.Y. HESCHEL, Dio alla ricerca dell’uomo, Torino 1969, p. 304.
[10] TB, Yomà, 67b.
[11] RAMBAM, Hilkhot Temuràh 4,13.
[12] S. SIERRA, Il valore etico delle mitzwoth, Roma 1979, p. 23.
[13] A. NEHER, L’essenza del profestismo, Genova 1984, p .127.
[14] L. SESTIERI, Cit., p. 89.
[15] A.Y. HESCHEL, Dio alla ricerca dell’uomo, Roma 1983, p. 319.
[16] Vedi M. PERANI, Personaggi biblici nell’esegesi ebraica, Firenze 2003, p. 22.
[17] N. LEIBOWITZ, Yi’unim besefer Shemot, p. 136.
[18] Sefer ha-Chimukh, Mitzwàh 20.
[19] N. LEIBOWITZ, Yi’unim besefer Shemot, p. 137.
[20] N. LEIBOWITZ, Yi’unim besefer Shemot, p. 138.
[21] TB, Qiddushin, 40b.
[22] A.Y. HESCHEL, Dio alla ricerca dell’uomo, Roma 1983, p. 330.
[23] Sifrè su Deut. 11,13.
[24] Bereshit Rabbà 44,1.
[25] TB, Sotàh 14a.
[26] S. WOLBE, ‘Alè Shur II, p. 71.
[27] CHAYIM DI VOLOZIN, Nefesh ha- Chayim 1,22.
[28] Y. LEIBOWITZ, Toràh umitzwoth bazeman ha-zèh, Tel Aviv 5714.
[29] S. SIERRA, Il valore etico delle mitzwoth, Roma 1979, p. 14.