Intervista allo scrittore Alessandro Piperno
Chiara Amati
«Sono un uomo schivo, con un lavoro borghese: mi sento un privilegiato. Tra università, dove insegno, e scrittura, la mia passione, è come se vivessi in lockdown da una vita. Pensavo che le recenti restrizioni, per uno che rifugge la mondanità, non mi toccassero, invece…». E invece Alessandro Piperno, classe 1972, accademico, critico letterario e scrittore — vincitore, tra gli altri, del Premio Strega 2012 con Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi (Mondadori) — si dice rammaricato per le limitazioni imposte dal governo (anche) a locali e ristoranti. Perché lui con la cucina, quella buona, ha un rapporto strettissimo. Da bon vivant — «ma non chiamatemi gourmet, non ne ho le competenze» — la onora tutte le volte che può. Con un briciolo di inquietudine nel cuore…
«Mi sento ferito. Fa male vedere Roma, la città dove sono nato, cresciuto e vivo, spenta già alle prime ombre della sera — confida —. È disarmante. A volte cerco conforto nei ricordi e così mi rivedo adolescente con i miei genitori, i miei nonni. Insieme a loro si andava alla ricerca dei negozi dove comprare gli ingredienti migliori da preparare e portare in tavola, con rigorosa mise en place. Abbiamo origini ebraiche: la buona cucina è sempre stata centrale per noi. I pasti avevano il sapore opulento del rito. E ogni ricorrenza rappresentava l’occasione giusta per ritrovarsi. Era come se il cibo scandisse le nostre esistenze. Anche in prossimità del Natale, non propriamente ebraico: per consuetudine in casa si cucinava il tacchino, come da tradizione americana. La sfida vera era trovarne uno gigante. Così l’aria di festa si respirava già dalla ricerca, nei posti per noi giusti, che si esauriva in una macelleria di Trastevere, la sola a soddisfare le intransigenze della zia californiana».
Sono sprazzi di memoria che hanno l’incanto avvincente della convivialità quelli di Alessandro Piperno, alle prese con la stesura di un nuovo romanzo, in libreria la prossima primavera. E pervaso da un desiderio: raccogliere le ricette di famiglia lasciate da nonna Maria per farne un libro. Ce ne sono diverse: le pizzarelle al miele che la nonna preparava durante il Pèsach, la Pasqua ebraica. «E visto che non si poteva mangiare lievito, utilizzava del pane azimo con miele, cannella, uvette e pinoli». Oppure la mozzarella all’imperiale: «Nonna Maria tagliava il formaggio a fette, lo passava nel pan grattato o in pastella, lo cuoceva in forno con salsa di burro fuso, limone e pasta di acciughe. Una delizia difficile da trovare».
E una eredità sorprendente che andrebbe salvaguardata. Da qui l’idea del libro. «A dire il vero, è un sogno con cui flirta mio padre da tempo — puntualizza lo scrittore —. Chissà. Certo, rileggere quel piccolo libercolo scritto con grafia ottocentesca è un viaggio nello spazio e nel tempo che, mai come ora, fa bene all’animo. Per una volta, però, temo che non basti. Comincio a sentire il peso di questa (semi) cattività. Pur nella mia riservatezza, non le nascondo che, a tratti, vorrei essere l’uomo della folla di Edgar Allan Poe. Colui che, sul finire d’una sera d’autunno, riesce a uscire di casa dopo una lunga convalescenza. E sa dove va? Dinanzi alla grande vetrata del Caffè D. di Londra a rimirare la gente, dentro, sorseggiare del vino. Era stato malato a lungo, ma ora aveva una disposizione d’animo propizia. E stare là davanti gli procurava un senso di godimento senza pari per la vita ritrovata. Che non scorreva solo all’interno, ma trasudava fuori dove “il mareggiare in tumulto di quella folla di teste umane mi empiva d’una deliziosa e fresca emozione”. Mai come ora ci sarebbe bisogno…».
È appassionato Alessandro Piperno che fatica ad arrendersi a una Roma, a un’Italia ostaggio della pandemia. «La nostra quotidianità è fatta anche di lente colazioni al bar, di cene al ristorante, di un passaggio in enoteca per acquistare del vino che neppure bevo: a casa non ne avevamo il culto. Con il tempo, mi sono iscritto a un corso di enologia. Un disastro: non c’era un solo profumo che fossi in grado di isolare. Ma ne riconosco il valore. E mi rattrista vedere un patrimonio culturale tanto grande, come quello enogastronomico, patire a tal punto. Nel mio piccolo, quando riesco, cerco di prodigarmi in casa per far rivivere i piatti della mia tradizione: la carbonara, la cacio e pepe. E poi la gricia che preparo con il guanciale di Amatrice, sfrigolato e croccante al punto giusto, e la pasta di Gragnano, ricca di amido per un condimento cremoso».
La mise en place? «Da ragazzo era un rito. Mio padre ha sempre lavorato lontano da casa: quando rientrava, ogni venerdì sera, la tavola era come avvolta da una allure ottocentesca. La cura per i dettagli a dir poco maniacale. Oggi mi sono un po’ sottratto a questo uso e confesso che alle volte ne sento la mancanza. Capita allora che mi aggrappi a quell’aroma che esala da un buon piatto, a quel profumo che ti coglie fulmineo e che, d’un tratto, ti catapulta negli angoli più reconditi del vissuto. Un po’ come quando Proust assaporava la sua madeleine capace, una volta intinta nel tè, di disincagliare i ricordi di un’infanzia felice. Il cibo è proprio questo: sa dare gioia anche, anzi soprattutto nei momenti più bui. A tutti perché tutti hanno (almeno) una madeleine da gustare».