Rav Chayim Navon – Makòr Rishòn 28.5.2020
In America esistono le comuni, una specie di kibbutz. L’antropologo Richard Sosis ha condotto uno studio sulla storia di 200 comuni fondate negli Stati Uniti nel XIX secolo. Ha studiato quali di loro si sono sciolte con facilità e quali hanno invece resistito di più. Sosis ha scoperto che a vent’anni dalla fondazione era sopravvissuto solo il 6% delle comuni laiche contro il 39% delle comuni religiose. Approfondendo l’argomento Sosis ha scoperto che la caratteristica di tutte le comuni di successo: più la comune esigeva sacrifici e sforzi dai propri membri, più le possibilità di sopravvivere erano alte. A volte le persone credono di cercare una comunità dalla quale possano ricevere qualcosa, ma in generale quello che veramente cercano è una comunità per la quale potersi sacrificare.
Il bet hakkenèset non nasce come un’istituzione comunitaria. I nostri Maestri dicevano cose terribili di chi chiamava il bet hakkenèset “casa del popolo”, cioè: casa della comunità (TB Shabbàt 32). Il bet hakkenèset è un’invenzione ebraica originale, copiata successivamente dal Cristianesimo e dall’Islam, ed è stato fondato come casa di preghiera, o meglio ancora come casa di Dio. Quando preghiamo dai balconi (in Israele NdT), Dio è nostro ospite: ma quando preghiamo nel bet hakkenèset siamo noi i Suoi ospiti. Il bet hakkenèset non è fatto per viziarci. Quando dissero a rav Soloveitchik che è più comodo per la famiglia stare seduti a pregare insieme, egli rispose che è vero, ma che la preghiera al bet hakkenèset non è fatta per essere comoda. La preghiera dovrebbe essere un’esperienza di tensione spirituale nella casa di Dio. E questo è vero in contesti diversi: la preghiera col pubblico richiede comunque uno sforzo. È incredibile che proprio da tutto questo nasca una comunità. Una comunità forte è il sottoprodotto di quando ci si dedica a uno sforzo comune. Proprio per questo il bet hakkenèset che è una casa di Dio e che non è indirizzato di principio alla soddisfazione dei bisogni emotivi e comunitari di chi prega, riesce a creare comunità forti.
Va di moda negli ultimi anni criticare i nostri battè hakkenèset. Molto prima del Covid-19 è diventato popolare parlar male dei battè hakkenèset che sarebbero diventati irrilevanti, e quindi si svuoterebbero. L’esatto contrario è vero. C’è chi sottolinea che senza alcun legame col Covid-19 la maggior parte del pubblico verrebbe al bet hakkenèset solo di shabbàt, e questo, a sentir loro, perché il bet hakkenèset non sarebbe sufficientemente aggiornato, accessibile e sensibile. La verità è invece che la maggior parte dei battè hakkenèset in tutte le generazioni erano pieni principalmente di shabbàt. In ogni periodo storico troviamo sermoni di rimprovero per le preghiere infrasettimanali vuote. Già nel Talmud si dice che la maggior parte delle persone pregano al bet hakkenèset di sera solo il venerdì (Rashì, TB Shabbàt 24). Triste, ma così è sempre stato, anche se un bet hakkenèset non viene misurato solo su questo parametro. La verità è che ogni famiglia osservante lotta per legarsi a un bet hakkenèset, o per fondarne uno, o per abbandonarne uno. I nostri battè hakkenèset sono vivaci come non mai.
L’istituzione religiosa più libera che esiste in Israele è il bet hakkenèset, che ogni gruppo può fondare e gestire come vuole senza alcuna influenza statale. Il risultato è che ci sono oggi in Israele circa 15.000 battè hakkenèset, vivaci e diversi tra loro, per ogni rito e per ogni gruppo etnico. Più del 99% di questi sono ortodossi. Quando viene data agli israeliani la libertà di culto, questi scelgono di dedicarsi volontariamente alle antiche usanze dei padri. È chiaro che c’è ancora molto da migliorare nei nostri battè hakkenèset. In molti di questi, per esempio, la configurazione del matroneo non è adatta e non è rispettosa. Ma questo non vuol dire che il bet hakkenèset sia un’istituzione in crisi, ma che al contrario è una buona istituzione che prospera, deve cambiare in meglio e perfezionarsi.
Quando ero bambino quasi ogni persona aveva una comunità di riferimento. Oggi, in termini generali solo chi ha un bet hakkenèset ha una comunità di riferimento. Una volta si tornava dal lavoro alle 4 del pomeriggio e si stava seduti fuori della porta con i vicini. Oggi torniamo dal lavoro alle 8 di sera e ci chiudiamo a casa con condizionatore e televisore. Non è un fenomeno solo israeliano. Il prof. Robert Putnam ha scritto un libro intitolato “Capitale sociale e individualismo” (Il Mulino, 2004), dove descrive la scomparsa dei campionati comunitari di bowling che vede come l’espressione del dissolvimento delle comunità di riferimento negli Stati Uniti. Molte di queste comunità si sono dissolte anche in Israele, mentre quelle legate a un bet hakkenèset al contrario prosperano. I battè hakkenèset di oggi sono molto più attivi di quello che erano quarant’anni fa. In ogni bet hakkenèset sionista-religioso medio ci sono almeno due gruppi di preghiera la mattina, una lezione di Daf Yomì (studio di una pagina al giorno di Talmud NdT), una commissione di accoglienza e una culturale, e a volte anche una cerimonia dei più giovani per Yom Hazikkaròn (giorno che commemora i caduti nella guerre di Israele NdT). Tutto questo una volta non esisteva. La potenza dei battè hakkenèset e delle loro comunità di riferimento è un piccolo miracolo, una fioritura continua in un trend universale di appassimento.
Le comunità dei battè hakkenèset sono floride proprio perché si riuniscono intorno alla casa di Dio. Quando gli ebrei si prepararono per l’evento del Sinài erano tutti «come un solo uomo, un solo cuore». L’unità non è solo la condizione per l’accettazione della Torà, ma anche il suo risultato: si può raggiungere l’unità solo quando ci sacrifichiamo per uno scopo più grande. A livello nazionale un governo di unità sarà in grado di unire il paese solo se riuscirà a proporre un obiettivo nazionale comune. Al livello delle comunità, non sono i picnic fatti insieme ad unirci, ma l’impegno dedicato al bet hakkenèset. Che bello poterci ritornare.
Traduzione D. Piazza
Titolo originale: “Kenèsset Israèl”
Chaim Navòn, nato nel 1973 a Ramat Gan, è un rav, pensatore, scrittore e pubblicista. Insegna Talmud e pensiero ebraico alla Yeshivà di Har Etziòn e all’Istituto Lindenbaum. Ha ricevuto il titolo rabbinico dal Rabbinato d’Israele e da rav Aharon Lichtenstein z.l.