Riccardo Di Segni
La Rassegna Mensile di Israel – Terza serie, Vol. 64, No. 3 (Settembre – Dicembre 1998)
1. Introduzione
La notizia della “clonazione” di una pecora, avvenuta nel febbraio del 1997, ha scosso l’opinione pubblica, sia per l’incredibile risultato biologico ottenuto su un animale, che per le possibili prospettive di applicazione alla specie umana di questo tipo di tecniche.
Mentre le tecnologie progrediscono sempre più rapidamente, ci si interroga sui limiti del lecito, dal punto di vista etico. Ovviamente anche l’ebraismo è investito da questi interrogativi. Lo scopo di questa nota è di presentare le risposte possibili, e di spiegare in quale modo un problema tanto nuovo possa essere affrontato sulla base della tradizione antica[1].
2. Premessa tecnica
Le informazioni genetiche sono custodite e trasmesse in strutture speciali, dette cromosomi, che le cellule dell’organismo conservano nella loro parte centrale, detta nucleo. In ogni specie il patrimonio cromosomico è costituito in ogni cellula da un numero determinato (23 nella specie umana) di coppie di cromosomi. Alcune cellule speciali sono destinate alla riproduzione: la cellula uovo nella femmina e lo spermatozoo nel maschio; queste cellule si distinguono dalle altre perché il loro patrimonio cromosomico è dimezzato: non 23 coppie, ma 23 singoli cromosomi. Nel normale procedimento riproduttivo, come avviene in una pecora o nella specie umana, la cellula uovo è fecondata dallo spermatozoo. In tal modo si forma una nuova cellula che comprende un nuovo insieme di 23 coppie di cromosomi, metà di provenienza materna e l’altra metà paterna. La cellula fecondata comincia a riprodursi, si annida nell’utero e dà origine ad un nuovo individuo (fig. 1a).
Nell’esperimento realizzato con successo da Wilmut e coll. in Scozia, è stata prelevata da una pecora una cellula uovo; il nucleo della cellula è stato rimosso; è stata poi prelevata una cellula dalla ghiandola mammaria della stessa pecora (contenente l’intero patrimonio genetico) che è stata fusa con la cellula uovo priva del nucleo originario. Si è quindi creata una cellula uovo con patrimonio genetico completo, che è stata stimolata a riprodursi, inserita nell’utero di un’altra pecora, e quindi è cresciuta ed è diventata Dolly (fig. 1b).
Dunque, a differenza di tutti gli animali di quella specie in cui il patrimonio genetico deriva da entrambi i genitori, nel caso di Dolly il patrimonio genetico è solo quello della “madre”, e non esiste “padre”.
Dal punto di vista genetico, se la cellula uovo e l’altra cellula da cui viene prelevato il nucleo provengono dallo stesso individuo, il prodotto (“clone”) dovrebbe avere un patrimonio cromosomico identico al genitore. Questo però non significa che debba essergli uguale, perché lo stesso patrimonio genetico può modificarsi, e nello sviluppo intervengono numerosi altri fattori esterni che trasformano l’individuo.
Se la cellula uovo proviene da un altro individuo, benché privata del nucleo, potrà trasmettere sue informazioni genetiche originali, perché anche al di fuori del nucleo, nei mitocondri, esistono degli acidi nucleici, portatori anch’essi di informazioni. Inoltre le proteine della cellula uovo possono avere un effetto sulle prime fasi dello sviluppo embrionale, anche se non ne conosciamo con precisione il ruolo.

FIG 1a: Meccanismo normale della fecondazione

FIG. 1b: Meccanismo della fecondazione nelle tecniche di clonazione
La novità e l’importanza dell’esperimento che ha portato alla nascita di Dolly sta soprattutto nel fatto che con questo si è dimostrata l’erroneità di una sorta di certezza acquisita: quelle per cui le cellule dell’organismo, ormai cresciute e specializzate nelle diverse funzioni, avrebbero perso la capacità originaria di recuperare le potenzialità originarie di dare origine ad ogni altra cellula dell’organismo. Nel caso di Dolly da una cellula mammaria è derivato un organismo completo.
Inoltre con questo esperimento si è realizzata, in una specie complessa ed evoluta, una modalità particolare del fenomeno ben noto nel mondo vegetale e in molte diverse specie animali, definito come “partenogenesi”, ossia la nascita di un nuovo essere senza l’unione di gameti di individui di sessi differenti. In natura la partenogenesi è possibile in molte specie, talora come modalità fissa di riproduzione, talora come modalità temporanea o ciclica. In esperimenti non tanto recenti, la partenogenesi, assente spontaneamente in una specie, è stata indotta con apposite tecniche di stimolazione. Le nuove tecniche prospettano una sorta nuova di “partenogenesi” anche per altre specie e, teoricamente, anche in quella umana.
Per quanto si sappia al momento attuale, il tipo di esperimento da cui è nata Dolly non è stato tentato, o non ha avuto successo nella specie umana, per cui non si può dire se la cosa sia possibile o meno; probabilmente, dal punto di vista tecnico, non sembra un obiettivo irraggiungibile.
3. Le prospettive
Queste tecniche prospettano la possibilità di sostanziali progressi medici soprattutto nel campo della sostituzione di tessuti, organi e apparati. L’ipotesi di prendere un “clone” intero, di sopprimerlo e di smontarlo come fonte di “pezzi di ricambio” appare possibile tecnicamente, e mostruosa eticamente; ma anziché produrre un organismo intero dentro a un utero, si potrebbero fare dei singoli organi e apparati dentro dei sistemi di coltura. Ciò consentirebbe di disporre di nuovi sostituti (come parti di tessuto cerebrale, fegato, midollo), preziosissimi dal punto di vista terapeutico. Agli stessi risultati si potrebbe arrivare usando il mondo animale, creando geneticamente dapprima degli organi compatibili con quelli umani, e quindi riproducendoli.
Nel campo della patologia della riproduzione, queste tecniche potrebbero fornire delle soluzioni nelle situazioni altrimenti incurabili di infertilità di coppia, o risolvibili ora solo mediante procedure, come la donazione di seme eterologo, di dubbia legittimità etica.
Gli elementi negativi, o perlomeno angoscianti, sono numerosi.
I rischi più immediati sono i dubbi sui risultati: non sappiamo se la produzione di un nuovo essere da un’unica linea genetica possa produrre (senza una controparte bilanciante) un individuo malato; né se l’uso di una cellula matura e adulta, forse già vecchia e danneggiata, comporti il rischio di creare un individuo tarato e con prospettive di vita ridotte, con caratteri negativi trasmissibili anche alla sua eventuale prole.
Altri problemi sono di ordine sociale, psicologico, economico: si aprirebbe la strada a processi di speculazione economica sul patrimonio genetico; la moltiplicazione di individui eguali eliminerebbe la specificità individuale; i concetti e gli istituti convenzionali di “maternità” e “paternità” entrerebbero in crisi; la formazione biologica delle persone potrebbe essere trasportata in strutture meccaniche completamente al di fuori della famiglia e degli affetti.
Inoltre si prospettano rischi come quelli del prelievo di cellule e riproduzione di individui già deceduti: di riproduzione in serie di esseri umani tutti uguali, motivate da aberranti idee politiche, estetiche e razziali e teorie di superiorità/inferiorità, o semplicemente da casi di psicopatologia individuale (narcisismo, ecc.).
4. Le domande
Dal punto di vista etico generale e religioso particolare ebraico le domande che si pongono sono numerose. Può essere utile una distinzione preliminare tra due tipi di problemi principali:
- se sia lecito intervenire così radicalmente sul processo riproduttivo, animale ed umano;
- quale sia, a tutti i possibili effetti, lo status di un “prodotto” di queste tecniche.
La prima domanda ha notevoli implicazioni di ordine generale e va affrontata da diversi punti di vista. Un punto di partenza è il concetto per cui nell’ebraismo sarebbe permesso tutto ciò che non è esplicitamente proibito[2]. Per cui si tratta di vedere se le operazioni di clonazione vanno contro a divieti o principi espliciti. Consideriamo le varie prospettive.
4.1. Il potere dell’uomo sulla natura
Ci si chiede se operazioni del genere possano rappresentare un’offesa alla fede nel D. creatore, e un’ingerenza indebita nella Sua opera.
Per rispondere a questa domanda, va chiarito, in linea di principio, che secondo l’ebraismo all’uomo è stato dato fin dalla creazione il potere su tutto il creato, l’ordine di dominare la natura e di conquistare la terra; l’intelligenza, donata all’uomo a D., e che lo rende Sua immagine e somiglianza, è lo strumento per realizzare questo obiettivo. Non si tratta tanto di una facoltà, quanto di un dovere. In questa prospettiva la scienza e la tecnologia che controllano la natura non sono di per sé negative, ma al contrario sono la realizzazione auspicata delle potenzialità umane. Se una tecnica qualsiasi, biologica o no, risulta tecnicamente possibile, significa che ciò era consentito dalle leggi naturali stabilite dal Creatore, di cui il ricercatore ha individuato le potenzialità[3]. Quindi in linea di massima la ricerca scientifica su questi aspetti biologici non rappresenta un’offesa all’idea della Creazione.
Il potere dato all’uomo non è tuttavia assoluto o illimitato; viene conferito insieme a degli ordini speciali che in qualche modo lo limitano nel tempo (il Sabato), o nella sostanza: alcune azioni sono proibite: nella sfera dei rapporti interumani è proibito, ad esempio, uccidere o sfruttare gli esseri umani (se non con dei termini precisi); nei rapporti con la natura certe azioni non si devono fare: ad esempio è proibito far soffrire gli animali, e anche la loro uccisione – per scopi alimentari – è regolata da norme ben precise. Su alcuni precetti particolari si tornerà più avanti (§ 4.4).
Il conflitto tra le regole morali e l’ordine naturale è discusso in questo insegnamento talmudico:
Se un uomo commette adulterio unendosi con una donna sposata, dovrebbe essere punito giusto (din hu) che lei non rimanga incinta; ma invece il mondo va avanti con le sue regole, e gli stolti che si sono comportati male dovranno renderne conto in futuro.
È quello che disse Resh Laqish:
«Ai malvagi non è sufficiente rendere pubblico il timbro divino, ma arrivano a costringere il Signore a usarlo contro la Sua volontà». (Talmud Bavli) (=TB) ‘Avodà Zarà 77b)
Le regole della creazione, con le quali la natura funziona, sono immutabili proprio per decreto divino. Questo significa che anche se la legge morale proibisce certe azioni, queste sono comunque possibili, proprio per lo spazio di libertà lasciato dalle regole naturali. Gli esseri umani hanno in dotazione il “timbro” divino, il prezioso conio con cui è possibile creare nuovi esseri a immagine e somiglianza divina; possono conservarlo gelosamente, o usarlo in modo irregolare o immorale; in quest’ultimo caso il Signore sarà paradossalmente “costretto”, per rispettare la regola della Sua creazione, a lasciare la natura nel suo corso. Quindi nell’ambito delle possibilità tecniche naturali gli spazi di azione sono aperti: ma questo non significa che sia tutto lecito, né che si possa restare impuniti per le irregolarità morali commesse.
Il problema allora si sposta sui singoli atti e le singole tecnologie, che nei casi particolari possono rappresentare un’offesa a dei principi o un reato proibito dall’halakhà.
4.2. La magia
Si potrebbe pensare che un atto tanto nuovo e originale possa rientrare nel divieto biblico[4] e rabbinico di esercitare la magia, intesa genericamente come un intervento potente ed eccezionale sull’ordine naturale. Per chiarire questo problema, bisogna tener presente che esistono nelle interpretazioni rabbiniche due linee principali per definire un’azione come magica:
- Secondo Maimonide la magia è una falsità totale, nel senso che è illusione, inganno, truffa; per cui ogni azione in cui il rapporto tra causa ed effetto è logicamente comprensibile, non costituisce magia[5]. Da questo punto di vista un processo scientifico controllato come quello della clonazione non rientra nel divieto della magia.
- Secondo altri autori gli atti magici hanno una loro forza e sostanza; non tutti gli atti magici sono proibiti, ma solo quelli esplicitamente menzionati nei divieti biblici e rabbinici, e con l’eccezione di quelli fatti a scopi costruttivi, come la medicina. «Ogni cosa che serve a guarire non è considerata alla stregua delle abitudini degli Emorei (cioè: un atto magico)»[6].
Difficile quindi, anche in questa seconda prospettiva, classificare la clonazione come atto magico, se giustificata da scopi medici.
Valga in particolare questa citazione – quasi profetica – dal Meiri (TB Sanhedrin 67b):
ogni cosa che si fa con un atto naturale non rientra nella magia; e persino se si riuscisse a creare delle belle creature senza unione sessuale, come è noto dai libri sulla natura che non è cosa impossibile, è consentito farlo, perché qualsiasi cosa che è naturale non rientra nella stregoneria[7].
4.3. Il diritto di esercizio della medicina
Particolarmente importanti sono le domande che la tradizione si pone sulla liceità dell’esercizio della medicina. In una visione provvidenziale del mondo, nella quale anche le malattie potrebbero essere considerate un intervento divino sulle vicende umane, quale diritto possono avere gli uomini di interferire nelle decisioni divine, cercando di guarire gli ammalati? La risposta della halakhà è che esiste un diritto-dovere di esercitare la medicina, al punto che la salvezza della vita umana prevale su tutte le altre regole della Torà (escluse tre: idolatria, omicidio e gravi reati sessuali). Una delle spiegazioni aggadiche è che l’uomo è come una pianta, che l’agricoltore ha il diritto e il dovere di curare e far crescere bene, lottando contro tutti i pericoli che la insidiano. L’esercizio della medicina non allontana l’uomo dalla fede in D. guaritore. Si faccia tuttavia attenzione alle implicazioni di questo principio; perché mentre da un lato allarga gli orizzonti del lecito, dall’altro pone dei limiti, nel senso che è lecito curare e guarire, ma non, ad esempio, prolungare artificialmente la vita ad un agonizzante[8].
Nel problema che discutiamo, si ha notizia di una dichiarazione del Gran Rabbino ashkenazita di Israele, Yisrael M. Lau, che ritiene che «la formazione di una nuova vita in quel modo (la clonazione) va ben oltre i limiti» dati ai medici per curare e allungare la vita[9]. È una valutazione importante, e fortemente limitativa, per come le cose stanno al momento attuale. Tuttavia, come si è detto sopra al § 2, esistono, nelle inevitabili ricadute tecnologiche delle tecniche di clonazione, importanti potenzialità terapeutiche che non possono essere ignorate. Quindi sul piano pratico bisognerebbe arrivare a distinguere ciò che è potenzialmente utile da ciò che non lo è, e si tratta di una decisione molto difficile. Certo è che tentare di mettere al mondo un essere umano con un processo di clonazione, senza avere idea di quale creatura si possa produrre, soprattutto senza sapere se e come potrà essere malformato e soffrire di malattie, appare, in assenza di chiare motivazioni legittimanti – che oggi non si vedono –, un’operazione al di là del lecito.
Nel dibattito sulla questione dei limiti alla medicina è stata riportata la Mishnà (Pesachim 4, 9) che dice che il re Ezechia fece riporre, togliendolo dalla circolazione (ganaz), il “libro delle medicine”, e per questa sua azione fu approvato dai Maestri. L’episodio non è esplicitamente menzionato nella Bibbia, ma trasmesso dalla tradizione rabbinica. Le interpretazioni di questo episodio sono diverse[10]; una delle spiegazioni proposte da Maimonide è che si trattasse di un libro importante di medicina e farmacologia, nel quale erano indicati i farmaci e gli antidoti: «ma quando gli uomini degenerarono e se ne servirono per uccidere, lo tolsero dalla circolazione».
Da questa spiegazione si deduce che se la medicina diventa uno strumento pericoloso, in mano a criminali, bisogna evitare che le sue conoscenze si diffondano. I commenti notano inoltre due dettagli: che il libro non fu distrutto, ma tolto dalla circolazione (a differenza del serpente di rame fatto da Mosè, che fu distrutto da Ezechia – cfr. 2Re 18, 4 – perché divenuto oggetto di culto improprio); e che la decisione, se era giustificata, avrebbero dovuto prenderla per primi i Maestri e non il re. Da qui Rav Shafran deduce alcuni principi: 1. che l’intervento dei Maestri, in nome della Torà, deve avvenire per proibire ciò che è esplicitamente proibito nella Torà, e che per sua natura ha un carattere perenne; 2. vi sono dei casi in cui non esiste una proibizione assoluta, e sono solo le circostanze a suggerire di proibire temporaneamente delle cose che in altre situazioni potrebbero essere lecite e utili; in questi casi è lo Stato – per la natura transitoria della sua autorità rispetto a quella Torà – che deve intervenire[11].
Nel nostro dibattito ciò dovrebbe dimostrare che se il bilancio tra fattori positivi e negativi si inverte, l’autorità dello stato deve intervenire per sospendere temporaneamente le procedure. Non è una decisione facile, perché d’altra parte «non c’è motivo di essere rigorosi e proibire ciò che è permesso a persone buone e perbene, per colpa di gente violenta e disinvolta»[12].
Da tutto questo deriva un invito alla vigilanza, e alla verifica permanente delle effettive prospettive benefiche che, sole, possono consentire lo sviluppo di tecniche altrimenti angoscianti.
4.4. Le regole “genetiche” della Torà
Alcune norme della Torà investono problematiche di tipo “genetico” e sono importanti per la nostra discussione. È proibito fare accoppiare animali di specie differenti, o innestare o seminare specie differenti (kilaym). La Torà è coerente fin dal racconto della creazione nella regola del leminehu (“ciascuno secondo la sua specie”), della difesa dell’individualità di ogni specie, animale, o vegetale. Gli interpreti tradizionali, e specialmente quelli di formazione cabalistica, sottolineano che certi atti vanno oltre al potere che è stato concesso all’uomo sulla natura, negano e offendono l’azione creatrice divina, come se questa fosse imperfetta, producono squilibri nella realtà invisibile dei mondi superiori, e alla fine si ripercuotono contro l’uomo[13]. Dunque esiste un concetto di limite all’intervento genetico, ma la definizione di questo limite non è arbitraria, bensì fissata dalla tradizione, dalla Torà orale, che spiega ad esempio per quali specie vale il divieto di mescolanza[14]. Da tutto ciò impariamo che il problema attuale è diverso per la novità tecnologica, ma non tanto per le sue implicazioni essenziali; che bisogna porsi il problema dei limiti in tutte le procedure genetiche, ma che questo non vuol dire affatto che tutte le procedure siano di per sé proibite. Il limite non può essere posto allargando a tutto il possibile l’interpretazione del motivo delle mescolanze proibite, ma ragionando con estrema cautela su ciò che la tradizione orale ha permesso o proibito in pratica.
Dal punto di vista strettamente tecnico, nel confronto con le regole di kilaym, rav Steinberg ha espresso in proposito un’opinione ben precisa:
la tecnologia della clonazione umana è un atto naturale, che non introduce una specie del tutto non comune (totally unfamiliar species) in natura, e pertanto è differente dalla stregoneria (witchcraft) o dalla mescolanza di specie differenti[15].
Effettivamente, dal punto di vista genetico va notato che il tipo di operazioni proibite dalla Torà è agli antipodi di quelle della clonazione. Nelle prime infatti si cerca di mescolare materiale proveniente da specie differenti, con l’intenzione di creare qualcosa di nuovo. Nella seconda al contrario si riduce la varietà cromosica nell’ambito della specie, fino al punto di limitarla allo stesso individuo che potrebbe non mescolarla con quella di un altro. Procedimento che, per altre specie, esiste già in natura (v. § 2). È vero dunque che non c’è il tentativo di una specie nuova, e che non c’è spazio per allargare il divieto di kilaym.
4.5. Differenza dei sessi e creazione di una nuova vita
Tuttavia c’è sempre un’interferenza radicale sui processi naturali; nel progetto della creazione è necessario che nella specie umana, a differenza di altre specie vegetali e animali, un nuovo essere nasca dall’unione di un maschio e una femmina, con tutte le implicazioni, non solo biologiche, ma anche umane, sociali ecc.. Quindi anche se non valgono i confronti con i kilaym, le preoccupazioni morali non possono scomparire.
Il dato biologico e naturale è evidente, perché finora non vi sono state eccezioni alla regola della nascita di un essere umano dall’unione di uomo e donna. Che questo sia un progetto della creazione, è esplicito nelle prime pagine della Genesi; la donna viene “presa” dall’uomo primordiale e quindi condotta davanti a lui: «Pertanto l’uomo abbandonì il padre e la madre e si unisca alla sua donna e diverranno una sola carne» (2, 24).
Come spiega Rashi (in loco): «l’essere nasce per mezzo di loro due (padre e madre) ed è là (nel nuovo essere) che la loro carne diventa una sola».
L’umanità discende quindi dall’unione di sessi differenti, che in qualche modo ripropone una unità originaria. Sulla natura di questa unità originaria non abbiamo precise indicazioni, ma possiamo identificare qualche traccia di pensiero rabbinico, soprattutto nelle discussioni del problema dell’androginos, che hanno espressioni giuridiche e midrashiche.
«Androgino» «androginos» nei testi ebraici) è il termine di chiara derivazione greca con il quale nel linguaggio rabbinico si indica il portatore di una malformazione congenita in cui sono presenti organi genitali maschili e femminili (in medicina nota come ermafroditismo o androginia, di cui sono descritte numerose varianti), e per questo soggetto di difficile classificazione rispetto ai differenti doveri religiosi dell’uomo e della donna[16].
Le halakhot sull’androgino dimostrano come nel pensiero rabbinico la presenza di entrambi gli organi sessuali e la mancata differenziazione del sesso sia considerata un’irregolarità, un’eccezione negativa. E questo potrebbe implicare una valutazione negativa anche per l’origine di un nuovo essere umano da una sola creatura.
Sul piano midrashico si segnala questo insegnamento: «Rabbi Yermiyà ben El’azar disse: -Quando il Signore benedetto creò il primo Adamo, lo fece androgino, come è detto ‘maschio e femmina li creò'(Gen. 1, 27)»[17].
La novità di questo insegnamento è che si immagina un originario stato di androginia, che sarebbe stato superato nella separazione in due sessi[18]; l’aspetto misterioso di questo insegnamento non consente altre deduzioni certe (androginia come modello da superare o ideale cui ritornare in prospettiva escatologica?), che comunque avrebbero un valore halakhico molto relativo.
Più direttamente legato al problema della creazione umana è un noto insegnamento “embriologico” che afferma:
Vi sono tre compartecipi (shlosha shutafim) nella formazione di un essere umano: il Signore benedetto, il padre e la madre. Il padre semina il bianco, da cui derivano le ossa, i nervi, le unghie, il cervello e il bianco dell’occhio. La madre semina il rosso, da cui la pelle, la carne e i peli, e la parte scura nell’occhio. Il Signore benedetto vi mette lo spirito e l’anima, l’aspetto del volto (qlastar panim), la vista, l’udito, la parola, il movimento delle gambe, l’intelligenza e il discernimento. (TB Niddà 31a).
Bianco e rosso rispecchiano evidentemente il colore dei liquidi che escono dai rispettivi organi riproduttivi. I genitori contribuiscono per la sostanza materiale, e il Signore per gli aspetti vitali. Alla luce delle attuali conoscenze scientifiche questo insegnamento può sembrare sotto certi aspetti “primitivo”, ma rispetto alle teorie coeve (come quelle diffuse in ambito greco, di origine aristotelica, ad esempio, che facevano derivare l’essere umano unicamente dal seme maschile) rappresenta un progresso sostanziale; biologicamente la materia umana deriva da entrambi i genitori, mentre lo spirito è dono divino. Ci si chiede ora se questo insegnamento debba essere letto come vincolante, nel senso che siano sempre necessari uomo e donna per la formazione di un essere umano. In linea di principio, si tratta di aggadà, e non di una halakhà, e quindi solo in casi molto particolari questi tipi di affermazioni hanno valore normativo cogente.
Se si vuole usare questo insegnamento come fonte giuridica, se ne può dedurre la necessità, o perlomeno l’opportunità di usare materiale genetico di entrambi i sessi per la formazione di un nuovo essere umano. Nella clonazione questo potrebbe escludere un processo in cui tutto (ovulo e nucleo) deriva da una sola donna; ci vorrebbe comunque un nucleo maschile; ma in questo caso la componente femminile interverrebbe per il patrimonio genetico soltanto per la parte citoplasmatica, contenuta nell’ovulo femminile denucleato e non per i cromosomi, in un modo per ora a noi in buona parte ignoto. In ogni caso il risultato non rispecchierebbe quello che il Talmud prospetta come situazione normale.
La necessità biologica e religiosa dell’unione di maschio e femmina per la creazione di una nuova vita deve essere sottolineata anche in un’altra prospettiva, che è quella della valutazione della vita sessuale. Le tecniche di clonazione potrebbero consentire processi riproduttivi del tutto o parzialmente asessuati: nessuna necessità di organi sessuali maschili, nessuna necessità di rapporti sessuali. Ciò potrebbe fornire soluzioni soddisfacenti per tutte quelle religioni, ideologie, e scuole di pensiero che considerano la vita sessuale come un valore più o meno negativo, o la tollerano a stento nella sola funzione riproduttiva. La possibilità di modalità riproduttive asessuali potrebbe esagerare o giustificare tutti i pensieri contrari alla vita sessuale. Da questo punto di vista bisogna osservare che l’ebraismo, per quanto rigoroso nella sua normativa sessuale, non manifesta mai nelle sue principali correnti di pensiero delle tendenze sessuofobiche; al contrario vede nell’unione dei due sessi un aspetto fondamentale, positivo e necessario del comportamento umano, e nell’assenza di questo incontro un difetto radicale[19]. Quindi tutti gli sviluppi tecnici possibili della clonazione non potranno essere usati di principio contro la vita sessuale, ma tuttalppiù limitati a casi molto particolari e definiti.
Un altro aspetto collegato alla nascita da due genitori è quello della condizione, considerata normale, della derivazione e della crescita di un individuo da un padre e una madre. Anche se le eccezioni al principio possono essere numerose, il modello tradizionale di crescita in una famiglia ove siano identificati e responsabilizzati i due genitori appare il migliore per la protezione e la crescita di ogni individuo. Le tecniche di clonazione possono mettere a rischio questo modello, se ad esempio scompare la componente paterna, o se il processo riproduttivo viene delegato ad altri o a meccanismi automatizzati. Tutte queste considerazioni limitano ulteriormente gli spazi di scelta e di liceità delle procedure. Si considera un obbligo garantire fin dall’inizio a ogni bambino uno sviluppo sereno con due genitori. Questo dovrebbe portare a impedire le procedure di clonazione da donne singole, nelle situazioni in cui mancasse una figura paterna; nelle coppie in cui il prelievo del nucleo dall’uomo non fosse possibile (ad esempio per alterazioni genetiche) la procedura sarebbe consentita con il solo materiale genetico materno, come se fosse una sorta di adozione da parte dell’uomo[20].
5. Lo “status” del clone
Consideriamo ora l’altro aspetto del problema; ammesso che sia possibile creare nella specie umana un nuovo essere con la clonazione, quale sarà la sua posizione legale? Si tratta di questioni per ora molto teoriche, e che certamente davanti alla realtà andranno del tutto riviste; ma nondimeno appaiono molto interessanti per le le loro complesse implicazioni. Consideriamone brevemente alcune.
5. 1. Se il prodotto della clonazione possa essere considerato un essere umano a tutti gli effetti
Il Talmud Babilonese (Sanhedrin 65b) in un breve, ermetico e affascinante passaggio racconta che Ravà, un maestro della quarta generazione degli amoraim, creò un uomo e lo mandò da Rabbi Zerà, che cercò di parlargli, ma non ricevette risposte. Rabbi Zerà concluse che l’uomo era una creatura dei suoi colleghi (o un prodotto di arte magica, secondo un’altra interpretazione) e gli disse di ritornare alla polvere.
Rashi spiega che la creazione di questo uomo era avvenuta per mezzo del Sefer Yetzirà, usando combinazioni di lettere e nomi sacri divini.
Il Talmud prosegue, nello stesso passaggio (ripreso anche più avanti, alla pagina 67b) raccontando che altri due maestri, Rav Chaninà e Rav Hoshaya si occupavano ogni venerdì del Sefer Yetzirà, e per loro «fu creato» un vitello di 3 anni che si mangiarono per il Sabato.[21]
Questi brevi passi sono piuttosto noti (quanto di difficile comprensione), perché dimostrano la pratica in epoca talmudica di esperienze mistiche, con le quali probabilmente si cercava di rivivere la condizione divina della creazione per mezzo della parola («D. disse: sia la luce» ecc., Gen. 1, 3). Sono proprio questi testi la base di molte pratiche cabalistiche successive e la fonte più antica del complesso leggendario noto anche con il nome di gòlem. Golem è appunto la massa informe che riceve la vita per mezzo di una operazione di qabbalà, e che diventa una sorta diominide, che rimane più o meno al servizio del cabalista che lo ha creato, il quale, secondo le necessità e i rischi, gli può togliere la vita.[22] Un po’ meno noto, ma invece importante per la nostra discussione, è il fatto che esiste una piccola letteratura ritualistica intorno al problema dello status di questo golem: se lo si possa contare per minìan e se uccidendolo si possa essere colpevoli di omicidio. La risposta è negativa, perché i diritti umani si riferiscono solo all’uomo che cresce nel ventre materno.[23]
Ogni formazione differente farebbe escludere uno status umano. Quindi il golem creato con l’uso delle lettere e dei nomi sacri, non è uomo. Ma se questa è la discriminante, ne deriva che nel nostro problema il prodotto della clonazione è un essere umano, in quanto cresce e poi esce da un grembo materno.
Oltre al requisito della nascita da un grembo materno, la presenza di una volontà, della parola e del pensiero qualificano l’essere umano. Sono tra le facoltà che nel brano sopra citato di Niddà (§ 4. 5) derivano all’uomo non dai genitori, ma dal Creatore. La presenza di questi attributi conferisce dignità e diritti umani.
5.2. Quale è lo status familare del clone?
Nel diritto ebraico è essenziale definire lo status di una persona in rapporto alle sue origini; da queste dipendono diritti e doveri e rapporti reciproci con i genitori, fratelli e parenti: la questione ha vaste implicazioni, dall’obbligo di riproduzione alla definizione della appartenenza nazionale, all’essere Kohen, Levi o Israel, ai divieti e obblighi matrimoniali e incestuosi, al diritto ereditario ecc. Con la clonazione si possono determinare numerose diverse situazioni perché esistono tre parti in causa: una fornitrice di ovulo, uno o una donatrice di nucleo, e una donna che nel cui utero cresce il feto. Nell’ipotesi più semplice, le tre parti possono essere la stessa persona, ma in teoria potrebbero essere due o tre persone differenti. Vediamo le diverse eventualità:
a. Nel caso in cui la donna che porta avanti la gravidanza è diversa dalla donatrice di ovulo il problema già esiste (noto con il termine di “utero in affitto”) e i decisori rabbinici si sono divisi su due principali fronti opposti, se considerare la madre “uterina” quella decisiva, o invece quella “ovarica”[24]. I problemi e le difficoltà legati a questo tipo di procedura appaiono per la clonazione più sfumati e meno rigorosi, perché in ogni caso un ovulo privato del suo nucleo è certamente meno legante, rispetto alla discendenza, dell’ovulo intero[25].
b. Se tutto (ovulo e nucleo) deriva da un’unica donna, si può parlare di padre, o con chi va identificato? Forse con il padre della donna? E visto che geneticamente i cloni sono quasi simili, la “madre” e il clone non dovrebbero piuttosto essere considerate sorelle, e quindi entrambe con gli stessi genitori, quelli normali della “madre”? La risposta è che il clone in questo caso semplicemente non ha padre; la madre è tale in quanto lo genera; il padre della madre è soltanto il nonno, non avendo alcuna parte diretta nella formazione del nato[26].
c. Se il nucleo deriva da un uomo, in che misura questi può essere considerato il padre (o fratello?). Per tentare di rispondere a queste domande ci si richiama inevitabilmente alla ormai ampia letteratura sulla inseminazione artificiale, dove, è bene dirlo, i problemi sono stati delineati, ma le opinioni dei maggiori ritualisti spesso divergono. Anche per l’inseminazione artificiale si pongono problemi vari sulla paternità; le decisioni sul seme non possono, per l’ovvia differenza, trasportarsi automaticamente nella donazione di cellula, ma almeno possono costituire un elemento di partenza.
Per la donazione di seme si discute ad esempio se possa essere un modo per adempiere all’obbligo di procreare[27] e se stabilisca un legame padre-figlio. La risposta prevalente (ma non unanime) è sì, quando il seme di un ebreo venga dato ad un’ebrea. Anche per la clonazione prevale questo orientamento positivo, nel senso che si sostiene che il precetto di “moltiplicarsi” non deve essere necessariamente adempiuto con il rapporto sessuale e con il liquido seminale, ma può essere inteso «in qualsiasi modo possa crearsi dal corpo dell’uomo un altro corpo»[28].
I problemi più seri nascono quando il donatore è estraneo alla coppia: in un caso “normale” di adulterio il prodotto del concepimento rientra nei rigori della definizione di mamzer; se si tratta di sola donazione di seme, la questione è meno rigorosa e molti autorevoli decisori negano la condizione di mamzerut. Con la clonazione questo tipo di problemi, almeno, potrebbe ridursi: sia perché le indicazioni a una donazione estranea alla coppia (come nei casi di infertilità maschile) potrebbero ridursi, potendo prelevare qualsiasi cellula del corpo del marito (non così, però, in presenza di gravi alterazioni genetiche); sia perché l’uso di una cellula del corpo di un estraneo, al posto del suo liquido seminale, appare un procedimento con implicazioni sessuali molto minori, e quindi anche il senso dell’adulterio si ridimensiona. Ma non manca chi, anche in questo caso, continua a parlare di mamzerut, invocando il senso midrashico del termine, da mumzar, «difetto che deriva da una estraneità», che comunque si inserisce nella unità della coppia
d. Assolutamente nuova la prospettiva che si pone con la donazione del nucleo da un’altra donna; il clone può avere due madri e nessun padre? E se la donatrice di ovulo è sposata e quindi la donatrice di nucleo è estranea alla coppia, si può parlare di “adulterio femminile”? Anche se non si volessero applicare i rigori della mamzerut, rimane sempre la questione dei divieti incestuosi con i parenti. La questione appare estremamente complicata e per tentare di risolverla si è fatto riferimento ad alcune casistiche sull’androginos (per la definizione v. sopra al § 4. 5) che feconda una donna; se da queste si potrebbe dedurre che una persona può avere solo una madre, il resto del problema resta aperto e il rischio di mamzerut e di estensione di divieti incestuosi sono tali da suggerire il divieto a priori di questa eventualità[29].
6. Considerazioni finali
La clonazione rappresenta dal punto di vista etico e dell’halakhà un problema estremamente complicato. I potenziali vantaggi (come la soluzione di problemi di infertilità di coppia e lo sviluppo di tecniche per la produzione isolata di organi sostitutivi) vanno confrontati con le prospettive di usi impropri, per molti aspetti mostruosi e agghiaccianti. In realtà ogni progresso tecnologico e scientifico comporta degli aspetti potenzialmente negativi e positivi: in termini puramente materiali vi possono essere dei benefici e dei danni; è così dalla scoperta del fuoco a quella dell’energia nucleare. Lo stesso vale in termini etici; possono esserci delle implicazioni positive (come la cura di malattie), e negative. Il progresso non può essere fermato, ma si può agire – con il rigore della legge, o con l’educazione – per limitare l’uso negativo delle tecnologie. Al momento attuale non possiamo sapere neppure approssimativamente quali saranno i danni e i benefici delle tecniche di clonazione umana; un giudizio di merito e un bilancio reale è quindi impossibile. Ciò che comunque è opportuno e necessario in questo arco temporale è la vigilanza e la definizione dei termini di intervento. Rav Steinberg ha suggerito, in accordo con orientamenti emersi da più parti internazionalmente, la proibizione immediata e temporanea degli interventi sulla specie umana; ciò per consentire la costituzione di organismi (etici, giuridici, legislativi) a livello nazionale e internazionale, per la definizione concordata dei limiti del lecito e le modalità di controllo del rispetto delle norme e l’evoluzione della tecnologia. Questa pausa di riflessione può essere una proposta concreta sulla quale raccogliere un consenso che vada molto più in là della comunità ebraica e delle sue leggi tradizionali.
Collegio Rabbinico Italiano
[1] Questa nota si basa su ricerche personali e su: • Gli atti de The Ninth Annual International Conference on Jewish Medical Ethics, San Francisco, CA, February 13-16, 1998, in particolare gli interventi di Charles J. Epstein, The Cloning of Mammals, Pinchas Lipner, Human Cloning Lecture Synopsis, e soprattutto Avraham Steinberg, Human Cloning-Scientific, Moral and Jewish Perspectives;
• Rav Yizchaq Shilat, Shikhpul genetì leor ha-halakhà, «Techumin» vol. 18, 5758, pp. 137-141;
• Rav Yigal Shafran, Ha-Shibbut hageneti leor ha-halakhà, «Techumin» vol. 18, 5758, pp. 150-160.
• Una breve teshuvà personale di Rabbi Reuven Lauffer, dell’Istituto Ohr Somayach di Gerusalemme, ricevuta attraverso e-mail.
Come testo di riferimento essenziale e aggiornato per tutti i problemi di bioetica ebraica rimando ad A. Steinberg, Entsiqlopedia Hilkhatit Refu’it, Yerushalaim 5748 (1988, (qui di seguito abbreviata con EHR).
I termini di lingua ebraica recente con cui si indica la clonazione sono due: shikhpul, dalla radice kfl che indica la moltiplicazione, e shibbut, da shevet, che è l’asse ereditario, appunto il clone.
Ringrazio il sig. Gershon Horowitz di S. Francisco, e rav Shalom Bahbout per le segnalazioni bibliografiche; il dr. Gianfranco Di Segni per l’attenta lettura e i preziosi suggerimenti.
[2] Qualcuno potrebbe ragionare alla rovescia, perché alcune linee di pensiero halakhico (secondo alcuni gli ashkenaziti in opposizione ai sefarditi) sostengono che ogni atto è a priori proibito, a meno che non sia esplicitamente permesso. Ciò porterebbe senza dubbio ad una prospettiva di partenza più rigorosa, che però deve misurarsi con i dati reali della tradizione.
[3] Gen. 1, 28; Isaia 28, 29; Salmo 8; Talmud Yerushalmi, Qiddushin 4, 12; commento di Nachmanide a Gen. 1, 28; cfr. Shafran pp. 152-154; Rav Kook, Orotḥ haqodesh 2, 412. Cfr. anche il mio articolo su Legittimità della scienza in Ebraismo e cultura europea del ‘900, a cura di Marco Brunazzi e Anna Maria Fubini, Firenze, Giuntina 1990, pp. 91-97.
[4] Lev. 19, 26 e 31; Deut. 18, 10-11.
[5] Commento alla Mishnà’Avodà Zarà 4, 7; Hilkhot ‘Avodà Zarà 11, 16; Guida agli smarriti 3, 37.
[6] La citazione è da TB Shabbat 67b. Su questa linea cfr. Sefer ha-Chinukh 62 e 511, Nachmanide a Es. 7, 11 e Deut. 18, 9, Rashbà, Responsa, 1, 413, Bechayyè a Es. 22, 17. Entziqlopedia Talmudit, vol. VII, s.v. «Darkè haemori».
[7] È stato osservato che le parole del Meiri si riferiscono probabilmente alla credenza nella generazione spontanea, e che in questo suo brano sia debitore al pensiero di Maimonide espresso nel Sefer ha-Miẓwot, miẓwot negative 179; ciò non cambia tuttavia la sostanza dell’impostazione; cfr. Shilat p. 146 e Shafran p.151
[8] TB Babà Qamà 85a, su Es. 21, 19; Midrash Temurà 2; Zohar 3, 299 (la medicina è come la liberazione di un prigioniero dal carcere o di un disperso nel deserto); Maimonide, commento alla Mishnà Pesachim 4, 10 (sulla fede in D.) Codificazione in Shulchan’Arukh Yorè De’à 336.
[9] Opinione citata nella teshuvà di Rabbi Reuven Lauffer.
[10] Cfr. Rashi Pesachim 56a e Berakhot 10a: il libro fu eliminato perché i malati guarivano subito e la malattia non era uno stimolo al pentimento. Questa interpretazione è rifiutata da Maimonide, nel suo commento alla Mishnà, perché a suo dire la medicina può essere inquadrata nell’opera divina. Lo stesso Maimonide propone, tra le sue spiegazioni, che si non si trattasse di un libro vero e proprio di medicina, quanto di un libro di magia.
[11] Shafran pp. 155-156.
[12] Harav Sh. Z. Auerbach, No’am 1, 157.
[13] Lev. 19, 19; Gen. 1, 12; Nachmanide a Lev. 19, 19; Recanati alla Torà Es. 23; Chinukh, miẓwà 62 e 92; Bechayyè Es. 23. Sulle interpretazioni di Gen. 36, 24, riferite alla nascita dei muli, cfr. il mio articolo cit.. Maimonide (Hilkhot Melakhim 10, 6) ritiene che questi divieti riguardino anche i Noachidi, ma non tutti sono concordi.
[14] Nelle regole sugli innesti, ad esempio, si definiscono le specie la cui mescolanza è proibita; nelle regole su kilae ha-kerem (mescolanze della vigna), sono definite le specie da non mescolare alla vite, e la regola in alcuni casi vale solo per la terra d’Israele; nelle regole del sha’atnez il divieto è solo per lana e lino, e non altre specie; cfr. Shulchan ‘Arukh J.D. 295-300. Nel commento alla Torà di Iashar (1. S. Reggio), Lev. 19, 19, si sottolinea espressamente come altri tipi di mescolanze siano permesse, come ad esempio le leghe di metalli.
[15] Sulla stessa linea rav Shilat, p. 138.
[16] Mishnà-Toseftà, Bikkurim cap. 4
[17] Bereshit Rabbà 8, 1 e 14, 1; in Midrash Tehillim 139, 5 la versione è lievemente differente (al passivo) e il detto è attribuito a Rabbi Eli’ezer.
[18] Molti studiosi vedono in questi insegnamenti un rapporto con le dottrine sull’androginia originale diffuse in particolare in ambienti gnostici; cfr. A. Di Nola, Enciclopedia delle Religioni, alle voci «Adamo» e «Bisessualità e androginia».
[19] Per una sintesi cfr. EHR alla voce «minyiut» (vol. IV), in particolare coll. 6-13.
[20] Rav Shilat p. 141.
[21] Da alcune sfumature del commento di Rashi a questo brano si può dedurre una sorta di diffidenza di Rashi per questo tipo di pratiche; la creazione di nuove creature con questi sistemi non dovrebbe rientrare nelle intenzioni dei Maestri. Di qui Rav Shafran (pp. 153-154) vuole dedurre, per la nostra discussione, il principio che non sarebbe legittimo spingersi oltre ai limiti naturali nella ricerca.
[22] È nota in particolare la versione attribuita al Maharal di Praga, con il dettaglio della scritta Emet ( = verità) posta nella fronte della creatura, che senza l’alef iniziale diventa met (=morto); basta togliere l’alef per uccidere la creatura. Per una ricostruzione della tradizione di questo tema, cfr. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, Einaudi 1980, pp. 201-257).
[23] Responsa di Chakham Tzvi 73. Il ragionamento giuridico si basa sull’interpretazione del primo verso che nella Torà stabilisce la sanzione per l’omicidio: shofekh dam ha-adam be-adam damò yisshafekh (Gen. 9, 6); che letteralmente significa: «colui che versa il sangue dell’uomo, per mezzo dell’uomo (ba-adam) il suo sangue sarà versato». Nel midrash viene accettata, con alcune particolari conseguenze halakhiche, l’interpretazione che legge ba-adam come se fosse riferita alla metà precedente del verso, che viene così interpretato: «colui che versa il sangue dell’uomo, che è nell’uomo (ba-adam), il suo sangue sarà versato»; e questo nel senso che è considerato uomo, essere umano, colui che si forma nell’uomo, cioè all’interno di un corpo umano, nel ventre materno.
[24] Per un orientamento generale su questo problema cfr. EHR alle voci «hafrayà chutz-gufit» (vol. II) e «hazra’à melakhuìt» (vol. II). Per una sintesi in italiano rimando al mio articolo Fecondazione artificiale e bioetica ebraica «Rassegna Mensile di Israel», LX, 1993, pp. 187-194.
[25] Così sembra orientarsi nelle varie articolazioni del problema rav Shilat, pp. 146-147.
[26] Rav Shilat p. 141, soprattutto in base al responsò n. 116 di R. Menachem ‘Azariyà da Fano.
[27] Nel diritto ebraico la mitzwà del perù urvù («fruttificate e moltiplicatevi», Gen. 9, 1) è intesa come un obbligo dell’uomo, e non della donna, che si adempie con la nascita di un figlio maschio e una figlia femmina. Da ciò si discute se con le forme alternative di riproduzione (inseminazione artificiale, varie modalità di procreazione assistita ecc.) si possa adempiere a questo precetto; in altri termini se al precetto si possa adempiere solo con le naturali o con qualsiasi altra modalità che porti ad una gravidanza. Tra l’altro nel nostro caso c’è da osservare che un prodotto originato da una cellula maschile sarebbe sempre di sesso maschile. Ammettendo che il prodotto clonato sia valido agli effetti della mitzwà, c’è sempre bisogno di una femmina, non creabile da un uomo con la clonazione.
[28] Rav Shilat p. 140.
[29] Id., pp. 144-145, soprattutto in base a Minchat Chinukh 192.
