Perché la chiamata a Sefer
È da tempi molto antichi che la Torà viene letta pubblicamente in varie occasioni. Al ritorno dall’esilio babilonese Ezrà stabilì delle regole precise sui tempi e i modi della lettura. In origine il brano da leggere veniva diviso tra più persone del pubblico, per consentire di distribuire più largamente l’onore della lettura; ma poiché è difficile leggere e cantare senza errori il testo e non tutti sono in grado di farlo correttamente, la lettura di solito è affidata a un cantore esperto, e si continua a distribuire tra il pubblico l’onore della chiamata. Volendo, ciascuno dei chiamati potrebbe leggersi la sua parte; di solito si evita di farlo per evitare imbarazzi di vario tipo; in alcuni casi invece si insiste a fare leggere il brano a chi è chiamato, come quando c’è un bar mitzwà, per educare il giovane alla lettura (nel rito italiano; gli ashkenazim gli fanno leggere l’haftarà); in occasioni speciali alcuni brani vengono letti dal rabbino più autorevole.
Quando viene letta la Torà
La Torà viene letta in pubblico (dieci adulti) in diverse occasioni, ognuna delle quali richiede un numero fisso di chiamate: il Sabato a Shachrit (7 chiamate) e Minchà (3), a Kippur a Shachrit (6) e Minchà (3), nei giorni festivi a Shachrit (5), di Chol haMo’ed a Shachrit (4), il Lunedi e Giovedi a Shachrit (3), a Rosh Chodesh a Shachrit (4), Chanukkà a Shachrit (3), Purim a Shachrit (3), nei digiuni a Shachrit e Minchà (3). Nel Sabato e nelle feste il numero dei chiamati può essere aumentato, ripetendo lo stesso brano (di almeno tre versi) o dividendo brani lunghi in parti di almeno tre versi.
Chi viene chiamato a Sefer
E’ necessario rispettare un ordine di precedenza: primo a salire deve essere un Coen, o in sua assenza un Levi; se mancano entrambi sale un Israel; se manca il Levi il Coen riceve la prima e la seconda chiamata; se manca il Coen il Levi riceve solo la prima chiamata. Una volta rispettate queste precedenze, si cerca di scegliere tra il pubblico coloro che nel giorno della lettura hanno occasioni speciali da sottolineare: l’anniversario della scomparsa di un familiare, una festa familiare (lo sposo, il bar mitzwa, il padre del bar o della bat mitzwa ecc.), uno scampato pericolo per cui recitare la formula di ringraziamento. Qualche volta i richiedenti superano le disponibilità delle chiamate ed è bene preavvisare per consentire ai parnasim di accontentare il maggior numero possibile di richiedenti. Secondo la tradizione mistica, dei 7 chiamati dello shabbat, il sesto (detto samùkh, colui che è “vicino” all’ultimo, il mashlìm, colui che completa) è il più importante.
Come rispondere alla chiamata
Vi sono diversi usi su come chiamare le persone a Sefer; in qualche luogo si chiama la persona per nome (“il tale figlio del tale”, con eventuale aggiunta di attributi) specificando poi il numero della chiamata; nelle Sinagoghe storiche romane di solito si viene chiamati solo con il numero attribuito (esempio: ya’amòd hashelishi: “si presenti il terzo”); in quel momento bisogna essere già abbastanza vicini al Sefer per non provocare ritardi; è quindi necessario avvicinarsi per tempo alla tevà.
Il percorso dal proprio posto alla tevà deve essere il più breve possibile (in segno di rispetto per il pubblico, che non deve attendere e di sollecitudine per la mitzwà a cui si è chiamati); se i percorsi sono di uguale lunghezza si sceglie quello di destra; in alcuni batè kenesiot si seguono da un certo punto percorsi fissi: al Tempio Maggiore si sale nella scala di destra e si scende nella scala di sinistra.
Il pubblico saluta chi sale con l’espressione: bekhavòd (“con onore!”) e la persona risponde: laTorà (“alla Torà”, come dire: l’onore non è mio ma della Torà).
I figli e le figlie, i fratelli e le sorelle minori, i generi e le nuore, gli allievi di chi è chiamato a Sefer rimangono in piedi dal momento in cui inizia la chiamata fino a tutto il misheberakh.
Una volta chiamati ci si pone nello spazio a destra del chazàn che legge. Se è stata consegnata una piastra con il numero della chiamata la si restituisce lasciandola sulla tevà. Il chazàn mostra al chiamato l’inizio del brano da leggere, scoprendogli il testo che fino a quel momento è rimasto coperto (da un drappo, oppure aprendo il Sefer che è stato arrotolato, o, nei Sefarim sefarditi che sono riposti in contenitori, aprendo il contenitore).
Il chiamato non può toccare la pergamena con la mano. Si usa che la tocchi, nel punto dove inizia il suo brano, con l’interposizione di un angolo del tallèd con lo tzitzit e poi baci lo tzitzit. Subito dopo il testo viene ricoperto.
A questo punto il chiamato deve afferrare il Sefer (la manigliadella colonna o il contenitore dei Sefarim sefarditi) almeno con una mano (la destra) durante la recitazione delle benedizioni (o durante l’intera chiamata). In segno di rispetto, è proibito appoggiarsi alla tevà.
Le benedizioni
Il chiamato recita le benedizioni. Le benedizioni vanno dette in ebraico; chi non le conosce si fa aiutare dal chazàn che le suggerisce; possono essere lette, anche da questo foglio, e anche nella trascrizione in lettere italiane:
Italiani e sefarditi dicono:
Ado-nai immachèm “Il Signore sia con voi”
Il chazan risponde:
Yevarechekhà Ado-nai “Ti benedica il Signore”
Fin qui italiani e sefarditi.
Il chiamato dice:
Barekhù et Ado-nai hamevoràch “Benedite il Signore benedetto”
Il chazan (insieme al pubblico) risponde:
Barùkh Ado-nai hamevoràch le’olam va’ed “Benedetto il signore benedetto per sempre”
Il chiamato a sua volta ripete:
Barùkh Ado-nai hamevoràch le’olam va’ed “Benedetto il signore benedetto per sempre”
e aggiunge:
Barùkh atta Ado-nay elo-henu melekh ha’olam asher bachar banu mikkòl ha’amin wenatan lanu et toratò, barukh attà Ado-nay noten haTorà. “Benedetto tu o Signore re dell’universo che ci ha prescelti tra tutti i popoli e ci ha dato la sua Torà, Benedetto tu o Signore che dai la Torà”.
Il chazan inizia la lettura aiutandosi con l’indice (la “manina”); il chiamato deve seguire in silenzio senza distrarsi.
Terminata la lettura il chazan fa cenno al chiamato che nuovamente bacia il Sefer con il talled. Il chazan copre il testo e il chiamato dice:
(Italiani e Sefarditi):
Emet toratenu ha kedoshà “E’ vera la nostra santa Torà”
(Tutti)
Barùkh atta Ado-nay elo-henu melekh ha’olam asher natàn lanu (i sefardim aggiungono: toratò) torat emèt we chayè ‘olam natà’ betokhenu, barukh attà Ado-nay noten haTorà.
“Benedetto tu o Signore re dell’universo che ci ha dato la (sua Torà, ) Torà di verità, e ha piantato in noi vita eterna, benedetto tu o Signore che dai la Torà”.
Se il chiamato deve ringraziare per scampato pericolo (per guarigione da malattia, per viaggi pericolosi ecc.) continua:
Barùkh atta Ado-nay elo-henu melekh ha’olam hagomel lachayavim tovot sheghemalani kol tuv
“Benedetto tu o Signore re dell’universo che fai del bene a chi è colpevole (oppure: a chi ti è debitore), che mi hai fatto ogni tipo di bene”.
Il misheberakh
Mentre il chazan chiama il lettore successivo e questi si avvicina, il segàn (l’aiutante del chazan) recita il misheberakh (dalle parole iniziali: “colui che benedì i nostri padri ecc. benedica ecc.). Il segàn cita il nome ebraico di chi è chiamato (il tale figlio del tale della famiglia…); cita, a richiesta, i nomi dei defunti che questi vuole ricordare (possono essere parenti, amici, Maestri: di solito non bisogna esagerare con liste troppo lunghe); menziona poi le persone in vita alle quali la chiamata è dedicata; invita poi il chiamato a fare un’offerta a sua discrezione.
Vi sono formule diverse per la benedizione: il ricordo dei defunti non si fa tra gli ashkenazim.
Tra i Sefardim si usa, in alternativa, a richiesta del chiamato, per un anniversario, recitare subito dopo la lettura una hashkavà(preghiera per il riposo di un defunto)
L’offerta è un atto meritorio che serve a sostenere la vita comunitaria e di Eretz Israel; è dedicata a chi si vuole; talora si suggerisce la partecipazione a raccolte finalizzate; non è necessario specificare l’entità della somma (in tal caso si dice: mattanà le…,“offerta generica a…”). Nelle Sinagoghe sefardite di origine libica la chiamata a Sefer è un onore che si acquista con un’asta prima della lettura del Sefer, dedicando la somma promessa alle istituzioni concordate.
In molte Sinagoghe, prima o dopo la chiamata, si segna il nome dell’offerente e della sua offerta con dei cartellini predisposti (per evitare di scrivere nella festa).
L’impegno preso di fare un’ooferta deve essere onorato quanto prima, al più tardi entro la festa successiva.
Il congedo
Finito il misheberakh il chiamato si congeda; aspetta, dietro al segàn, che il prossimo chiamato abbia finito di recitare le benedizioni prima della lettura, o che finisca completamente tutta la sua lettura; in tal modo torna al suo posto durante il misheberakh successivo senza disturbare la lettura.
Mentre torna al suo posto viene salutato dal pubblico. Italiani e Sefarditi gli dicono: chazàq (“sii forte!”; perchè fare una mitzwà in pubblico, e in particolare tenere il Sefer Torà, richiede forza, oppure perchè la Torà e la fonte della nostra forza e in quel momento ce ne stiamo allontanando). La risposta del chiamato è: chazàq barukh tihyè (“sii forte e benedetto”). Gli Ashkenaziti dicono: shkòyach (derivato da yashar kochakha, “che la tua forza sia ferma”, sempre con lo stesso significato).
Settembre 2003