Rav Riccardo Di Segni
Secondo un principio stabilito dai Rabbini del Talmud, “i Patriarchi biblici osservarono l’intera Torà (che non era stata ancora promulgata), conoscendola grazie ad una sacra ispirazione”, e l’intera Torà comprende, secondo Rashì (commento a Gen. 26:5), anche la tradizione rabbinica. È un principio che solleva molte perplessità, anche davanti ad esplicite contraddizioni, ma che se viene esaminato in profondità mostra una concezione della storia e della Torà particolarmente forte ed originale. Restando nell’ottica di questo principio ci si potrebbe chiedere se e quando i Patriarchi celebrarono Hanukkah. La domanda sembra apparentemente assurda; Hanukkah è una festa istituita molto più tardi, nel II secolo avanti l’era volgare, per ricordare un avvenimento storico preciso. Eppure la riflessione su questa domanda provocatoria, apparentemente senza senso, aiuta a comprendere sia le motivazioni della strana idea rabbinica sul rapporto dei Patriarchi con la Torà, che il significato profondo di Hanukkah.
Il precetto fondamentale di Hanukkah, come è ben noto, è l’accensione dei lumi, preceduta dalla recitazione di benedizioni, di cui la più specifica dice: “Benedetto… il Signore… che ci hai comandato di accendere i lumi di Hanukkah”. Ma il precetto di accensione dei lumi è senza dubbio una norma rabbinica, di cui la Torà ovviamente non parla. Ma allora perché attribuire al Signore l’origine di un obbligo che è invece chiaramente di istituzione umana? Altri precetti rabbinici si segnalano per lo stesso paradosso, ma solo per questo di Hanukkah il Talmud (Shabbat 23a) si interroga (“Dove mai ci ha comandato?”) alla ricerca di una spiegazione. La risposta ‘tecnica’ è che quando i Rabbini stabiliscono una norma e danno un precetto, hanno una sorta di delega divina, per cui è come se l’ordine fosse stato dato dal Signore stesso. Eppure il fatto che proprio su questa norma di Hanukkah il Talmud sollevi una questione di legittimità, per risolverla con una generica dichiarazione di principio sull’autorità rabbinica, deve far riflettere sui significati più profondi e nascosti della festa.
Hanukkah è il luogo di tanti paradossi e contraddizioni, e la sua istituzione sembra venire di necessità a colmare uno strano vuoto. Ciò perché malgrado la sua tarda istituzione i significati più o meno nascosti della festa sono tanti, di origine remota e possibilmente conflittuali. Non c’è solo l’opposizione tra la commemorazione di una rivolta militare (che portò al potere una dinastia che avrebbe perseguitato i rabbini) e un significato religioso (il miracoloso aiuto divino a chi lotta per difendere la propria identità); ma c’è anche la celebrazione di un evento del ciclo annuale (il solstizio invernale), potenzialmente carico di rischi di festa pagana; e c’è un legame con il ciclo agricolo, quello del tempo della raccolta delle olive. Di tutto questo la tradizione ha privilegiato senza dubbio l’elemento religioso, la lotta in difesa del culto monoteistico, l’eliminazione dell’idolatria, la scelta sofferta di accettazione della Torà da parte della comunità di Israele, la preparazione al servizio divino con un nuovo altare restaurato, e tutto questo nella fiducia nell’aiuto divino, che protegge il suo popolo dai suoi nemici nel momento in cui Israele torna a cercare il Signore.
Nella coscienza rabbinica, ma anche nella percezione collettiva del popolo ebraico, questo tema non può essere legato ad un unico evento storico, ma rappresenta una situazione che si ripete. E allora la domanda se vi sia nella Torà e in particolare nelle storie dei Patriarchi un modello di Hanukkah antica e primordiale non è più una stranezza e un paradosso, ma una legittima richiesta di ricerca storica e ideologica. In effetti è possibile identificare una situazione con molti punti di contatto nella storia dei Patriarchi, in Genesi 35 (Parashath Wayshlach).
Subito dopo il drammatico episodio di Dinà, Giacobbe riceve l’ordine di partire verso Beth El con tutta la sua famiglia; Giacobbe quindi ordina alla famiglia di “allontanare gli dei stranieri” prima della partenza. Beth El era il luogo in cui Giacobbe aveva visto in sogno la scala e dove aveva eretto una stele, giurando di trasformarla in casa divina. Al suo ritorno nella terra di Canaan giunge per Giacobbe il tempo di mantenere la promessa, ma si frappongono molti ostacoli, e per ultimo l’episodio di Dinà, con tutte le sue conseguenze: pericolo di vendetta da parte dei popoli vicini, ma anche pericolo di assimilazione e di paganesimo. “Gli dei stranieri” che Giacobbe comanda di eliminare, erano, secondo il midrash, quelli presi dal bottino di Shekhem (cft. Rashi a Gen. 35:2) il che dimostra da un lato che malgrado la circoncisione loro imposta i Sichemiti non avevano rinunciato all’idolatria (cfr. Nachai Qedumim a Gen. 34:13), e dall’altro che il pericolo di idolatria e di influenze negative esterne era forte nella stessa famiglia di Giacobbe e nella stessa terra di Canaan. Per questo Giacobbe ordina l’eliminazione dell’idolatria e la purificazione, secondo uno schema che sarà ricorrente nella Bibbia, con le stesse parole (cfr. Gios. 27:23, Giud. 10:16, I Sam. 7:3, 2 Cron. 33:15), e che rappresenta costantemente il desiderio di ritorno della comunità al Signore e la condizione per il ritorno del Signore alla protezione della sua comunità. Solo dopo questo è possibile partire per Beth El ed erigervi una casa e un altare, che sono, a confronto con la primitiva stele, il segno di un nuovo culto, in cui il popolo partecipa in comunione e riceve i precetti divini (cfr. N. Leibowitz, ‘Yiurum besefer Bereshith 270-275).
Accettando questo giogo, viene in soccorso l’aiuto divino: “la paura del Signore fu sulle città…” (Gen. 35:). Malgrado gli aspetti terribili del fatto di Shekhem, e l’esplicita condanna che ne fa Giacobbe (che rappresentano un modello primordiale delle perplessità rabbiniche sul tema della violenza armata che caratterizza la rivolta dei Maccabei e il trionfo della casa Asmonea), esistono nelle motivazioni dei protagonisti delle componenti positive, come l’intenzione di lottare contro l’idolatria e in particolare contro coloro che con la forza o la seduzione vogliono conquistare le persone e le anime di Israel. Non a caso uno dei due combattenti è Levi, antenato di Pinchas e antenato dopo molti secoli della famiglia dei Maccabei. Dunque l’intero racconto è quello di una sorta di Hanukkah patriarcale, dove compare il motivo della lotta contro l’idolatria esterna ed interna, il paradosso della violenza e della sua difficile valutazione, e poi la purificazione e l’erezione dell’altare, sotto l’ala protettrice divina. Manca solo il lume, ma l’olio già c’è, nelle due prime volte che viene citato nella Bibbia: quando Giacobbe lo versa sulla stele che ha eretto a Beth El, e quando viene nuovamente versato sull’altare alla fine del racconto.
Il tema del miracolo di Hanukkah dunque è molto più antico di quello dei tempi dei Maccabei, così come l’olio che brucia in ogni hanukkià esprime una speranza sofferta e complessa, profondamente radicata nella coscienza ebraica senza limiti di tempo.
Rav Riccardo Di Segni