In pratica quasi non esiste un suo testo che non faccia riferimento a uno dei due Testamenti. Lo stesso Premio Nobel aveva parlato a suo tempo di rock biblico. Il volume di Giovannoli apre una trilogia interamente dedicata a questo tema. Quello di Carrera, invece, ne chiude un’altra sulle liriche del Menestrello.
Andrea Monda
Il 27 dicembre 1967 Bob Dylan pubblica l’album John Wesley Harding, il «primo disco di rock biblico» secondo la definizione che lo stesso cantautore darà successivamente a questo album di musica country. Era la prima volta che veniva usata una tale definizione. Eppure di “rock biblico” Dylan ne aveva già prodotto parecchio a partire dai primi anni Sessanta, da quando aveva cominciato a incantare il mondo con la sua musica e la sua inconfondibile voce.
Questo «rock biblico», la sua natura, la sua estensione, i suoi confini, è il tema del saggio di Renato Giovannoli La Bibbia di Bob Dylan.
Questo primo volume tocca la produzione dal 1961 al 1978 (e porta come sottotitolo Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione), il secondo, che uscirà il prossimo autunno, comprende il decennio 1978-1988 (Il periodo “cristiano” e la crisi spirituale) mentre il terzo volume, previsto per la primavera del 2018, arriva fino al 2012, cioè fino a Tempest, per ora l’ultimo album con testi originali di Dylan, con il titolo Un nuovo inizio e la maturità.
Fino al 2012 arriva anche il terzo volume delle Lyrics tradotte da Alessandro Carrera (Feltrinelli. Pagine 454. Euro 20,00) come continuazione della precedente monumentale opera in unico volume che però si era fermata al 2002. La concomitanza temporale dell’uscita di questi due volumi è favorevole anche perché incrocia un altro evento, il conseguimento del premio Nobel da parte di Dylan che i primi di giugno ha consegnato anche il discorso ufficiale richiesto dal regolamento del premio e che la segretaria dell’accademia, Sara Danius, ha definito «discorso straordinario» ed «eloquente».
Insomma giunto a 76 anni Bob Dylan non smette di stupire e di far parlare di sé, magari continuando a spaccare il mondo in fan incalliti e detrattori scatenati. I due studiosi italiani, Renato Giovannoli e Alessandro Carrera, sono dei fan ma non solo, come spiega Carrera nel saggio introduttivo al primo volume dell’opera di Giovannoli, opera «la cui crescita ho seguito nel corso degli anni grazie all’amicizia che mi lega al suo autore e che è nata proprio dal comune interesse per Dylan. Nessuno di noi è solamente un fan, anche se un po’ lo siamo. Siamo venuti per studiare Dylan, non per celebrarlo ed è passato così tanto tempo da quando abbiamo iniziato a occuparci di lui che non sappiamo più se possiamo ancora mantenere una certa distanza critica». La passione per Dylan si avverte in queste due trilogie che però restano due grandi opere di studio, serio e approfondito e quanto mai documentato. L’opera di traduzione da parte di Carrera è a dir poco preziosa per il grande pubblico italiano, anche se oggi, dopo la vittoria del Nobel, il rischio di “ridurre” Dylan a poeta è più alto di ieri, per fortuna lo stesso cantautore nel succitato discorso ha precisato l’ovvia verità che i suoi sono testi di canzoni, creati per essere quindi suonati e cantati. D’altra parte La Bibbia di Bob Dylan di Giovannoli, l’intuizione è sempre di Carrera, è un testo che vale in entrambi i sensi: «Non è solo la guida più completa alla Bibbia secondo Bob Dylan, o a Bob Dylan secondo la Bibbia. [ … ] Tante introduzioni sono possibili a Dylan: musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato».
L’iperbole per cui non c’è testo di Dylan che non abbia almeno un riferimento biblico, più o meno esplicito, non è poi così iperbolica come è dimostrato da questo primo meticoloso e ponderoso volume di Giovannoli che rappresenta un unicum non solo in Italia ma anche all’estero. L’ennesima prova del nesso vitale tra le canzoni di Dvlan e il testo biblico sta proprio nell’omissione che Dylan ha compiuto nel citare le sue fonti principali all’interno del discorso ufficiale per il Nobel: ha infatti menzionato la musica di Buddy Holly e poi tanta poesia, in particolare John Donne, soffermandosi su tre libri per lui fondamentali, Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea. La Bibbia non l’ha citata, proprio perché non è un “altro” libro a fianco di questi, ma molto di più, parafrasando Shakespeare (usando così un’immagine cara allo stesso Dylan): la Bibbia è «la stoffa con la quale sono fatti i suoi testi».
E non solo e non tanto la Bibbia ebraica, come si potrebbe pensare data l’origine semita di Robert Allen Zimmerman, nato da Abraham e Betty a Duluth il 24 maggio 1941, ma soprattutto la Bibbia cristiana, più precisamente la King ]James Version, la Bibbia di Re Giacomo che, come ricorda Northrop Frye, è il Grande Codice della letteratura occidentale. Antico e Nuovo Testamento queste sono le due parti del grande codice dylaniano, un codice oggi più accessibile grazie all’opera di due seri e competenti studiosi italiani.
Avvenire, 28 giugno 2017