Nell’ora di Ne’ilà 5782, 16 settembre 2021
Questo è il secondo anno in cui siamo costretti a fare un Kippùr diverso, con limitazione del numero dei partecipanti alla tefillà, cosa che pesa soprattutto al momento finale. L’anno passato, pensando solo al Covid e non a tutto il resto delle amarezze, è stato l’anno dell’aumento vertiginoso delle vittime, poi delle vaccinazioni di massa. L’anno delle difficoltà economiche ma anche della solidarietà, che in questa comunità non è mancata. Siamo ancora nel mezzo della crisi, vediamo prospettive incoraggianti, ma dobbiamo difenderci e riorganizzarci. Aspettiamo tutti il ritorno alla normalità. Ma normalità non vuol dire il bene in assoluto. Quando si finisce lo studio di un trattato di Talmud si fa una piccola cerimonia di festeggiamento in cui si recita una preghiera nella quale si ringrazia il Signore che ha indicato, a chi vuole seguirlo, un comportamento particolare che lo distingue da altri: loro si svegliano presto e noi ci svegliano presto, loro si affaticano e noi ci affatichiamo, loro corrono e noi corriamo; ma bisogna vedere per cosa vale la pena di svegliarsi presto, correre e faticare. Queste domande di solito se le pone una persona che ha avuto un trauma e si vede crollare il mondo addosso, normalmente è difficile che una persona se le ponga. La reclusione e le limitazioni imposte dal Covid sono state per molti, ma non per tutti, un’occasione per riflettere. Kippùr con il Covid è una opportunità doppia per pensare. Ritorno alla normalità, sì, ma che sia una normalità diversa, che dia senso alla nostra vita.
Qualche giorno fa c’è stata una piccola polemica interreligiosa originata da alcune predicazioni autorevoli che, citando fonti antiche che parlavano della Torà, l’hanno presentata come una normativa superata, formalismo senza senso, legalismo, preparazione a qualcos’altro. Il pubblico ebraico, e non solo ebraico, si è risentito per espressioni così poco rispettose. La protesta ebraica ha portato a dei chiarimenti e a delle precisazioni. Quando veniamo attaccati dall’esterno reagiamo con dignità e unità, e questo è un valore importante. Ma non bisogna nasconderci il fatto che al nostro interno molte di queste affermazioni di critica alla Torà siano effettivamente condivise, anche se non portano ad abbracciare un’altra fede. Sono semplicemente autodistruttive. Diciamolo francamente, quanti di noi considerano molte delle nostre regole come pratiche inutili e senza senso, esagerazioni, invenzioni rabbiniche? Prima di protestare contro chi dall’esterno manca di rispetto alla nostra tradizione, verifichiamo se non siamo noi i primi a prenderla ogni giorno sottogamba o a picconate. Osservare le nostre regole è impegnativo e non tutti ci riescono, ma giustificare la mancanza e la trascuratezza con un’ideologia è micidiale. Molto spesso non è neppure un’ideologia o un pensiero articolato, ma una sequenza di pensieri semplici e disinformati. La critica che nasce dalla profondità, dallo studio, è degna di rispetto ed è stimolante, ma non lo sono le banalità orecchiate. Cominciamo a rispettare noi stessi, a non parlare a vanvera, ma dedicare tempo allo studio, alla comprensione dei meccanismi, alla conoscenza delle idee potenti e suggestive che sono alla base delle nostre pratiche. Rimettersi in discussione, questa è la teshuvà; riconciliarsi con le nostre radici e far crescere i rami è la nostra missione.
Il giorno di Kippùr comprende tante cose, in primo luogo il digiuno. Ma come tutti sappiamo la tefillà, la preghiera, ha un ruolo essenziale, a riempire queste lunghe ore. In questa preghiera del Kippùr un ruolo del tutto speciale lo assumono le selichòt, che sono le suppliche di misericordia, i ricordi del Kippùr passato dai tempi biblici al Tempio di Gerusalemme, i brani profetici prima severi e poi consolatori. I libri che abbiano in mano in queste ore sono il risultato di sovrapposizioni di secoli di studio e creatività. La preghiera di tutti i giorni, e del Kippùr in particolare, è il nostro modo di comunicare con il sacro, di parlare verso l’Alto, di esprimere tutti insieme con un’unica voce le aspirazioni di un’intera collettività. Le regole del digiuno di questi giorni ci trasformano in creature angeliche e la preghiera è la lingua delle nostre anime. Una lingua pulita, buona, che semina concordia, e che ci educa a non usare la lingua per dire e fare male, il contrario della lashon harà’ dalla quale è tanto difficile astenersi. Per chi non comprende la lingua originale della tefillà sono a disposizione libri con traduzioni. Che si approfitti di questa ultima ora per cercare di seguire e capire almeno una parte di quello che è scritto, di riflettere sui messaggi potenti che vengono espressi, di prepararci all’emozione collettiva dello shofàr finale.
Ho provato a lanciare tre semplici messaggi: ritorno a una normalità piena di valori, rispetto per il nostro patrimonio, partecipazione consapevole alla preghiera. Kippùr è un giorno di austerità e molto esigente sul piano personale. Ma è anche un giorno di consolazione e di gioia. È il giorno in cui dopo una trattativa estenuante Moshè riuscire a ottenere il perdono per il popolo e ricevette, בשמחה con gioia, le nuove tavole. Questa sottolineatura, “con gioia”, non viene a caso. Queste devono essere ore di simchà, e quando torneremo a tavola e riprenderemo le nostre abitudini potremo farlo perché una vita spiritualmente sana nel rispetto delle mitzwot non deve escluderci dai piaceri sani materiali della vita.
חתימה טובה, תזכו לשנים רבות
Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma