Nell’ora di Ne’ilà 5774, 14 settembre 2013
Quaranta anni, nei ritmi della Bibbia sono un’epoca, una generazione. Sono gli anni passati nel deserto dagli Ebrei usciti dall’Egitto. E oggi sono passati quaranta anni da quel Kippur del 1973 in cui lo Stato d’Israele e il popolo ebraico si svegliarono bruscamente per ritrovarsi in guerra. I meno giovani ricorderanno l’angoscia di quelle ore e dei giorni successivi. Se il vasto pubblico sa che esiste un giorno importante per gli ebrei chiamato Kippur, lo si deve proprio a quella guerra che ne prese il nome, cosa che per noi è una stridente contraddizione. Kippur è il giorno in cui intorno a noi ci dovrebbe essere una tregua e, se proprio ci dovesse essere una guerra, dovrebbe essere una guerra interna, tra le forze opposte dentro di noi che ci spingono da una parte e dall’altra, ma con le quali dobbiamo fare i conti e arrivare ad una pacificazione, dentro di noi, nei riguardi degli altri, e nei confronti del Creatore.
In questi giorni, a 40 anni di distanza, il clima generale sulla scena nazionale e sulla scena mondiale è molto differente e strano. In ogni momento sembra che stiano per saltare gli equilibri precari della stabilità politica ed economica e della pace, poi c’è un rinvio, una sospensione, una dilazione. Viviamo in una situazione di continua sospensione. E’ un po’ il simbolo della condizione umana in questi momenti del calendario ebraico, sospesi in attesa del giudizio divino che si spera favorevole, e impegnati a fare qualcosa perchè la situazione migliori. A cosa serve Kippùr, si chiedevano i Maestri? Dipende dalla gravità delle colpe commesse. Per le trasgressioni minori basta la teshuvah, la consapevolezza di avere sbagliato strada e l’impegno di non ripetere più l’errore; per le colpe progressivamente più gravi ci vuole da parte nostra la teshuvah, e dall’Alto il giorno del Kippur; la teshuvah sospende, appunto, e Kippur cancella.
Ma quando per colpe più gravi la teshuvah e Kippur non bastano, arrivano le sofferenze. Abbiamo però qualche strumento per fermarle, per evitare il peggio, e dipende da noi, dalla nostra capacità di metterci in discussione. Fermiamoci da soli prima che sia qualche evento esterno a costringerci a farlo. Quante volte ci è capitato improvvisamente un evento spiacevole e inatteso. Interpretiamolo come un campanello di allarme, una sveglia personale, fastidiosa ma necessaria. In realtà una “sveglia” l’abbiamo sentita dieci giorni fa, ma era collettiva, positiva e sacra, era il suono dello shofar di Rosh HaShanah. Tra poco lo risentiremo ancora al culmine della nostra celebrazione. In tempi remoti lo shofar si suonava a Kippur una volta ogni 50 anni, quando si proclamava il Giubileo, e oggi il motivo principale per cui lo si fa è il ricordo del Giubileo. Il Giubileo è la libertà, quando i servi devono essere liberati ed è come se nascessero in quel momento, e noi tra poco proclameremo una libertà raggiunta tutti insieme, una rinascita spirituale dopo un bagno collettivo di purificazione. I dieci giorni di Teshuvah che si concludono tra poco sono un cammino collettivo in cui si inizia scoprendo che la macchina non funziona bene, che si è inceppata, ma si può riparare; la si ripara e da questa sera riparte come nuova.
Spesso non ci rendiamo conto della speciale dignità del popolo ebraico, una dignità che non è automatica ma che si assume e cresce in rapporto alla nostra fedeltà alla Torah. In questi tempi strani, proprio in questi giorni, ce l’ha ricordato un’autorevole voce esterna. Una voce proveniente paradossalmente proprio dal campo da cui abbiamo subito per secoli sofferenze, umiliazioni e offese, perché mantenevamo la nostra tradizione e rimanevamo nell’attesa messianica. I nostri padri hanno resistito a queste umiliazioni e se siamo qui lo dobbiamo alla loro forza. Sono stati in pochi a cedere anche nei momenti più drammatici. Abbiamo ora dei libri ben documentati che raccontano le pressioni micidiali cui erano sottoposti gli ebrei nel Ghetto di Roma. Chi abiurava poteva farsi una nuova vita, libera e agiata rispetto alle ristrettezze del Ghetto. C’è stato in verità un flusso continuo di fughe, ma sempre molto contenuto.
Tra gli anniversari di questi giorni, ora sono 75 anni dalle leggi razziali del ’38. Gli archivi della nostra Comunità conservano tutti i dati sulle abiure di quei giorni, dettate dalla paura e dalla speranza di sfuggire alla persecuzione, molto raramente da ispirazione religiosa. Uno studio dettagliato non è stato ancora fatto, ma un primo dato è certo: almeno il 90% della comunità volle restare ebrea. E non erano, nella stragrande maggioranza, ebrei osservanti come oggi si è osservanti. Semplicemente volevano restare ebrei e non tolleravano soprusi. Avevano il senso della dignità ebraica. E sapevano bene che chi sceglie non lo fa solo per sé, lo fa per il passato e soprattutto per il futuro. E noi siamo מאמינים בני מאמינים “credenti figli di credenti”, un tempo vituperati per la nostra fede, oggi additati ad esempio positivo, ma sempre resistenti: alle seduzioni e alle lusinghe di qualsiasi sistema o idea concorrenziale che vuole semplicemente farci scomparire. In ogn momento e luogo della nostra storia dobbiamo confrontarci con culture differenti, idee e sensibilità nuove. Molte possono essere anche positive, e non dobbiamo evitare il confronto; ma quando lo facciamo non dobbiamo compiere l’errore fondamentale di pensare che l’altro è il bene assoluto e indiscutibile, il criterio di verità rispetto al quale l’ebraismo sia solo una materia plastica che si deve adattare, anche cambiando le sue regole di base. Abbiamo visto con quanta rapidità molte delle mode e delle idee degli ultimi due secoli siano scomparse rapidamente insieme al fascino che le accompagnava.
Quando esisteva il Tempio di Gerusalemme il giorno di Kippur era centrato sul servizio del Gran Sacerdote. Di tutto questo ci è rimasto solo il ricordo, insieme a tanti insegnamenti. Finito il servizio dentro l’Hekhal, dove il Gran Sacerdote rimaneva solo, prima di uscire si fermava per recitare una preghiera per tutti. Ma la preghiera doveva essere breve, altrimenti chi l’attendeva fuori avrebbe pensato a qualche terribile incidente. Impariamo da questa storia, tra l’altro, che chi rappresenta la comunità deve pregare per lei ma non deve isolarsi troppo a lungo. Avvicinandoci ai momenti finali del Kippur, in cui si firma in Alto la sentenza che ci riguarda, ripetiamo alcune parole di questa preghiera che è stata letta a Musaf, e che ci accompagni nei nostri pensieri:
“Che quest’anno possa essere per tutti un anno di benedizione, un anno favorito dalle piogge e dal sole, un anno ricco di rugiada e di prodotti abbondanti, un anno di salvezza, un anno di prosperità, un anno di facile sussistenza, un anno di bene e di gioia; un anno di libertà, un anno in cui Tu faccia regnare tra noi la concordia e prosperare tutte le nostre opere…”
חתימה טובה תזכו לשנים רבות
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma