הנסתרת לה’ אלקינו והנגלת לנו ולבנינו עד עולם לעשות את כל דברי התורה הזאת
C’è un versetto della Torah che abbiamo appena letto nella Parashah dell’ultimo Shabbat dell’anno trascorso (Nitzavim) e che ripeteremo in ciascuna delle Tefillot di Yom Kippur al termine della Confessione dei Peccati. Il versetto dice: “Le cose nascoste appartengono a H. nostro D., mentre quelle manifeste sono per noi e i nostri figli in eterno affinché mettiamo in pratica tutte le parole di questa Torah” (Devarim 29,28).
Che cosa si intende per “cose nascoste” e “cose manifeste”, dalle quali dipenderebbe il destino della nostra Torah? E poi, cosa c’entrano “i nostri figli” in tutto questo discorso? Infine mi domando io: perché scegliere proprio questo versetto a conclusione del Widduy? Su quale importante trasgressione vuole farci riflettere?
Posto a conclusione di uno degli ultimi capitoli della Torah, questo versetto contiene un messaggio programmatico. E’ quanto rileva il Maor wa-Shemesh, un commento chassidico di grande attualità e profondità. L’adesione ideale alle Mitzwot –scrive il nostro commentatore- non consiste tanto nella loro esecuzione pratica, quanto nel sentimento che le accompagna, perché lo scopo della Torah è creare in noi una personalità e un carattere e le singole Mitzwot sono asservite a questa finalità. A ciò alluderebbe la prima parte del nostro versetto: “Le cose nascoste appartengono a H. nostro D.” Ciò che per D. conta al di sopra di ogni altra cosa è la nostra interiorità che agli altri non è visibile. Molti benpensanti in buona fede la pensano in modo analogo: essi si riferiscono all’osservanza esteriore della Torah come componente puramente formale e sostengono che quella sostanziale risiede invece proprio nel nostro cuore.
Ma il cuore, ancorché sia al centro della nostra umanità, non basta. Il Maor wa-Shemesh sostiene che l’esteriorità è comunque fondamentale se non altro per uno scopo preciso: educare i nostri figli a seguirci. Se ci basassimo su qualcosa di esclusivamente interiore i nostri figli, che pure sono le persone a noi più legate, non sarebbero in grado di coglierlo in noi e di apprezzarlo. Anche la Torah richiede la sua visibilità. E’ per trasmettere ai nostri figli l’importanza del messaggio che dobbiamo viverlo nella pratica esteriore. A questo allude la parte finale del versetto: “mentre le cose manifeste sono per noi e i nostri figli in eterno affinché mettiamo in pratica tutte le parole di questa Torah”. Ben si comprende a questo punto il riferimento ai nostri figli e all’eternità della Torah. Se vogliamo che essa passi a una nuova generazione occorre metterla in pratica, nel senso letterale del termine. Non sono sufficienti i significati dei precetti e le interpretazioni metaforiche. Non basta la storia e la filosofia. In una sola parola, la Torah deve essere vissuta per ciò che ci chiede di fare.
E se non ci trovassimo nella condizione di dovere educare dei figli o dei nipoti? Il versetto risponde a questo aggiungendo la parolina “per noi”: facciamolo comunque per noi stessi. Non solo una famiglia, ma neppure una Comunità si costruisce sulla sola dimensione interiore dei suoi membri. Il gruppo richiede comportamenti manifesti e condivisi nel solco di quella tradizione che ha tenuto vivo il nostro popolo per secoli. La crisi del mondo ebraico, specialmente in Italia, è sotto gli occhi di tutti. Voglio richiamare l’attenzione in particolare su due punti nevralgici della nostra vita comunitaria. Tantissimi giovani si astengono dal creare una famiglia. A ciò concorre certamente una difficile congiuntura economica che impedisce a molti di loro di accedere a una posizione lavorativa stabile. Ma questa scusante non vale in tutti i casi. Sembra piuttosto di trovarsi dinanzi a una vera e propria mentalità dettata dalla società globale. Al cuor non si comanda, ma ciò è vero fino a un certo punto: occorre far intervenire la mente e la pratica. Noi Ebrei siamo depositari di un messaggio che può essere portato avanti in un modo soltanto. La nostra tradizione si fonda sull’educazione dei figli e affida questo progetto ai genitori. Per questo è necessario attivare una politica di incentivazione del matrimonio ebraico.
Se il matrimonio ebraico è finalizzato all’educazione dei figli, è anche vero l’inverso. Non si perviene a nuovi matrimoni ebraici senza aver educato ragazzi e ragazze nella giusta direzione. L’istruzione elementare ebraica è compito benemerito della Scuola, ma questa non è sufficiente. Una volta trascorsa l’età del Bar/Bat Mitzwah i giovani si perdono e non tornano più. Da anni non si riesce più a creare gruppi di studio regolari per gli adolescenti a partire dall’età liceale. Occorre indagare sulle cause di questo fenomeno drammatico. Oggi viviamo in un’epoca di alta specializzazione. L’ignoranza è penalizzante e in definitiva colpevole. Come avviene in altre discipline, solo chi avrà acquisito sufficienti conoscenze sarà motivato un domani a vivere la Comunità Ebraica con consapevolezza e cognizione di causa.
Rischiamo seriamente di non avere una nuova generazione davanti a noi. Il problema è chiaro, ma non gli viene destinata la priorità che giustamente meriterebbe. Non è più sufficiente domandarsi cosa debbono fare gli altri per noi, e neanche cosa siamo in grado di fare noi per gli altri. E’ giunto il momento di interrogarci su che cosa possiamo ancora fare noi per noi stessi. Per scongiurare una Shoah spirituale di cui noi stessi siamo i principali responsabili. E se non ci affrettiamo a darci una risposta, “liberazione e salvezza arriveranno agli Ebrei in altre parti del mondo”. Ma noi ci saremo auto-esclusi. Ciò è un peccato in tutti i sensi: un’occasione tristemente perduta, ma anche una grave colpa di cui chiedere perdono al S.B. onde porvi rimedio. יהי רצון מלפניך שתתן חלקנו וחלק זרענו בתורתך Sia gradito dinanzi al S.B. di darci la parte nostra e quella della nostra discendenza nella Tua Torah.
Ghemàr Chatimah Tovah