Non odierai tuo fratello nel tuo cuore. Ammonisci il tuo compagno, ma non potrai attribuirgli una colpa (in pubblico, per svergognarlo). (Vayikra 19:17)
C’è un comandamento di ammonire, tokhaha, un altro individuo, come indicato nel pasuk sopra. Uno dei Rishonim, lo Smak (Sefer Mitzvot Katan), conta addirittura l’accettazione della tokhaha come un comandamento separato. La Ghemara (Arakhin 16b) cita Rabbì Elazar ben Azarya: “Dubito che ci sia qualcuno in questa generazione che sappia come rimproverare”. Perché è così difficile? Qual è il segreto per ottenere almeno una visione approfondita dell’adempimento di questo impegnativo comandamento?
Rav Soloveitchik osserva che la parola tokhaha deriva dalla parola hokhaha, che significa “prova” o “dimostrazione”. Offrire un rimprovero significa provare o dimostrare al prossimo che può fare molto meglio, mostrandogli che l’azione è alla sua portata e che è possibile per lui essere una persona migliore. Il corretto ammoninmento, quindi, consiste nell’incoraggiare il prossimo e non nell’ abbatterlo. Questo è anche il motivo per cui il pasuk usa la parola “amitekha” (il tuo compagno). L’ammonimento dovrebbe essere un promemoria amichevole che un certo comportamento non si addice alla persona che riceve questo avviso. Rav Soloveitchik continua con un’affascinante visione su qualcosa in comune a varie storie che compaiono nella Ghemara. Ogni volta che le persone sono citate come riferite alla parte migliore del loro carattere, viene usata la parola “ana”. Quando si riferisce a qualcosa di malvagio, l’espressione usata è “hahu gavra” (quell’uomo), come se si stesse parlando di un altro individuo, come a dire che il comportamento errato non era nell’essenza dell’individuo che, in quel momento, era sopraffatto dallo yetzer hara (l’inclinazione al male). Nel dare un ammonimento, bisogna riconoscere “ana”, la vera, buona essenza del prossimo, non la personalità esteriore e superficiale di “hahu gavra”. La Ghemara alla fine del trattato di Sota (49a-b) discute la mishna che afferma che quando Rabbì Yehuda HaNasi morì, l’umiltà lasciò il mondo. Rav Yosef sfida questa ipotesi e dichiara: “de’ika ana” – “Ma io sono ancora qui!” La risposta di Rav Yosef è piuttosto sconcertante. Non sembra molto umile dire: “L’umiltà non è morta; dopo tutto, sono ancora vivo. Rav Soloveitchik suggerisce che “de’ika ana”, l’espressione usata da Rav Yosef, significa che tutti hanno ancora un “ana” interiore. Guardando in profondità in noi stessi, potremo realizzeare chi siamo veramente e questo ci porterà all’umiltà. In ogni persona c’è una scintilla di umiltà e, solo a causa di alcune esperienze impegnative, “hahu gavra” può penetrare e nascondere lo spirito reale della persona. Ognuno ha il suo “ana”, la sua umiltà interiore. Il corretto ammonimento dimostra loro che sono davvero amitekha, con una “ana” pronto per essere scoperta.
Rav Yaakov Kamenetsky in Emet L’Yaakov adotta sul concetto di ammonimento un approccio simile a Rav Soloveitchik, mettendosi fortemente in contrasto con coloro che considerano questo comandamento come un requisito per disciplinare il prossimo per aver violato un comandamento, come se dovessimo servire come poliziotti di D-o, lottando per il suo onore e assicurandoci che tutti rispettino i precetti della Sua Torah. Se così fosse, sostiene Rav Kamenetsky, questo comandamento sarebbe un precetto puramente ben adam laMakom, qualcosa tra l’uomo e D-o. Se fosse così, perché ci sono limitazioni su questa mitzva? La fine del pasuk afferma: “non potrai attribuirgli una colpa (in pubblico, per svergognarlo)”, il che ci insegna che non si può mettere in imbarazzo il prossimo, bensì l’ammonizione va fatta in modo sensibile e in privato. Inoltre, se so che il trasgressore non accetterà il mio rimprovero, mi è proibito farlo. Perché? Rav Kamenetsky sostiene che questa è una mitzva ben adam lahavero, che riguarda il rapporto tra gli uomini.
Nella Torà, il pasuk che riguarda questo precetto appare immediatamente prima del comandamento di amare il prossimo e seguìto dal divieto di odiare qualcuno. È quindi inserito nel contesto di comandamenti che sono ben adam lahavero, che hanno lo scopo di generare amore e unità e portare le persone insieme. Questo sembra essere strano perchè il risultato che potrebbe conseguire dall’applicazione di questa mitzva potrebbe dividere le persone e portare alla discussione. Questo però è il tipo sbagliato di tokhaha. Il vero ammonimento deve derivare dall’amore e dalla preoccupazione, come un genitore che vuole aiutare il proprio figlio a diventare una persona migliora.
Il risultato della mitzva della tokhaha è che il destinatario dovrebbe sentire che l’obiettivo è di aiutarlo, come se gli si stesse restituendo un oggetto smarrito. Il destinatario deve giudicare favorevolmente l’ammonitore e presumere che l’obiettivo comune sia il migliore interesse. Come afferma il pasuk – chi viene ammonito è “amitekha” – il tuo amico. Questa è una delle mitzvot più delicate e difficili da attuare. Tendiamo tutti a vedere ed esaltare i difetti del prossimo, senza notare il potenziale della persona stessa o, peggio, a proiettare i nostri difetti sugli altri. Questo, come diceva Rabbì Elazar be Azarya, rende impossibile attuare la mitzva della tochacha. Anche nel mondo iperveloce e iperconnesso di oggi, dobbiamo trovare il modo di fermarci, riflettere e fare emergere la parte migliore di noi stessi e la parte migliore di chi ci sta intorno.