Da una parte sarebbe ora di finirla con la caccia all’untore nei confronti degli operatori kasher. Dall’altra bisogna capire che comunque kasher non vuol dire solo adatto al consumo ebraico.
Pierpaolo Pinhas Punturello
I social network, le pagine Facebook ed i video di YouTube che si rivolgono ad un pubblico ebraico hanno spesso trattato il tema dei costi dei prodotti kasher dilaniando spesso gli schieramenti di coloro che partecipavano alle discussioni. Accanto ad alcuni sostenitori dei dati che comparano il mercato a kasher a quello biologico, che non vanno sottovalutati per la loro intuizione economica, sono apparse in trincea le giuste dichiarazioni di alcuni operatori del settore e commercianti di prodotti kasher e le affermazioni di un certo tipo di mondo rabbinico che si è posto con lo Shulchan Aruch in mano tra le fila degli scaffali dei supermercati e le famiglie ebraiche italiane investite, come tutti gli italiani, dalla crisi, dai tagli e dagli inevitabili conti di fine mese.
Volendo provare a comprendere le diverse ragioni apparse in rete diventa necessaria una analitica freddezza di intenti ed una onestà intellettuale che si pongano lontane da schieramenti e polarizzazioni e provi a fotografare il momento storico con l’aiuto di posizioni halachiche che non possono essere avulse anche dal mercato e dalla crisi economica.
Prima di ogni cosa dobbiamo mettere a tacere una volta e per sempre le voci popolari che additano nel commerciante o nell’esercente “kasher” il male di tutti i mali.
Il commerciante, il macellaio e il venditore al dettaglio di prodotti kasher hanno diritto al loro giusto guadagno ed operando in un sistema di nicchia e settoriale devono affrontare difficoltà organizzative e costi che non vanno sottovalutati e che incidono fortemente sul prezzo di vendita. Se quindi il prezzo di vendita di un dato prodotto è più caro rispetto ad uno analogo non kasher, la colpa di questo meccanismo sta nel maccanismo stesso e non in chi opera all’interno di esso.
Ebraicamente è inconcepibile l’idea della non esistenza di un giusto guadagno, mentre è halachicamente obbligatorio intervenire in un sistema senza regole dove il lucro sia l’unica ragione di azione (Shulchan Aruch, Choshen Mishpat, 231, 20), ma certamente la realtà del mercato kasher italiano non è da annoverare in questo sistema poiché, parafrasando le parole dello Shulchan Aruch: “ Colui che vende la sua merce con fatica ha il permesso di guadagnare fino ad un sesto”. Chi, quindi, opera in Italia nel mercato e nella produzione kasher, lo fa senza dubbio con fatica e gli attacchi propagandistici al commerciante non hanno né basi economiche né tantomeno logiche.
Resta aperta la questione economica per la media famiglia ebraica italiana che ha il dovere e il diritto alla propria alimentazione kasher , questione che non potendo essere imputata al commercio deve trovare altre soluzioni per fare in modo che mangiare kasher non si cristallizzi in una spesa insostenibile o in una scelta drammatica .
Il consumatore kasher, proprio perché legato al prodotto che acquista da motivi religiosi e tradizionalisti, potrebbe non arrivare mai a mangiare taref per motivi economici ma di fatto per continuare a mangiare kasher opera tagli significativi in altri ambiti della sua vita e di quella della sua famiglia: esistono genitori che devono vietare ai loro figli una serata al cinema, un gelato in più o una gita al mare la domenica per garantire la carne per Shabbat.
Non possiamo continuare ad ignorare che la crisi economica non abbia influenzato e non influenzi le scelte di molte famiglie ebraiche di Roma, Milano, Firenze, Napoli, Livorno.
Se quindi gli attacchi propagandistici contro il commerciante capitalista sanno di un comunismo decisamente retrò, la non considerazione delle nostre nuove realtà economiche ha invece il triste sapore di cecità, insensibilità e nel migliore dei casi ignoranza.
Quali sono le eventuali strade che possiamo percorrere per provare a risolvere il problema senza sventolare bandiere di nessun colore e senza scatenare le ire funeste di nessun sorvegliante delle mitzvot?
Di progetti di analisi del mercato ne sono stati proposti molti ma di fatto, oltre ad un vago appello liberista in campo economico a favore di una concorrenza risolutrice, non sono apparsi nuovi orizzonti che facessero sperare in un sol dell’avvenire kasher ed economico.
Ad ogni modo chiunque si voglia cimentare nella comprensione del problema kasher non può sottovalutare nessuno degli aspetti della vita del consumatore kasher in Italia
Tenere conto dei capisaldi mentali e tradizionali del consumatore kasher d’Italia potrebbe portare alla nascita di politiche rabbiniche e comunitarie che si dirigano verso il controllo, l’analisi, il recupero di dati dei prodotti della grande distribuzione già presenti sul mercato che possono essere autorizzati anche per il mondo kasher italiano.
Se prodotti come carne, vino ed alcuni alimenti per Pesach non possono mai essere permessi se non in presenza di regolare hechsher ed hashgachà, altri invece, in maniera sistematica, con regolarità ed impegno fiduciario, potranno essere permessi agevolando così il loro acquisto in contesti concorrenziali accessibili a tutti come i supermercati ovvero luoghi di sconti e di altri vantaggi.
Per indirizzare un politica ebraica in questa direzione sono necessarie e doverose alcuni riflessioni per così dire halachico-sociali, così come una collaborazione onesta e trasparente tra mondo rabbinico, operatori del kasher quali mashghichim ed i commercianti e leader laici di Comunità.
Cominciando da questo ultimo dato bisogna pensare a commissioni miste che vagliando e valutando ogni singolo prodotto presente nella grande distribuzione ne stabilisca con chiarezza, dopo attento controllo, le possibili autorizzazioni per il consumatore kasher.
Per raggiungere questo tipo di serenità di intenti bisogna predisporre una serenità di relazioni tra coloro che hanno punti di interesse differenti come il mashghiach ed il commerciante kasher da un lato ed una rabbanut che non può certo svendere il concetto di kasherut in nome della crisi, ma non può neanche ignorare le facilitazioni halachiche esistenti per poter permettere prodotti reperibili in un qualsiasi supermercato di quartiere.
In altre parole il ruolo del mashghiach dovrebbe essere, da esperto, quello del controllo della grande distribuzione e dell’informatore per una rabbanut ben disposta alla dichiarazione, dove possibile, di autorizzazione per prodotti presenti in comuni scaffali e non solo nei negozi kasher.
Sarebbero pronti i nostri mashghichim ad un lavoro del genere che, inutile nasconderlo, potrebbe portare una decrescita nell’acquisto di prodotti con hechsher con una loro sostituzione con prodotti permessi sulla base dei dati forniti dagli stessi mashgichim?
Procedere in questa direzione porta con sé una pericolosa valutazione: può l’halacha in tema di kasherut essere sensibile a stimoli esterni come la crisi economica? Poggiarsi su facilitazioni, anche internazionali, per nome e conto delle realtà economiche dei nostri iscritti, può avere un valore halachico o comporta dei rischi di legittimità per la nostra rabbanut d’Italia?
Offro come spunto di riflessione una presa di posizione del Bet Din di Boston del 1974.
Dopo una serie di controlli e di denunce circa le condizioni di lavoro degli emigranti messicani, chicanos, che lavoravano nelle vigne locali e che venivano tra l’altro pagati talmente poco da non poter neanche sopravvivere, i rabbini ortodossi del Beit Din di Boston decisero che l’oshek l’oppressione del lavoratore era un issur , un elemento che rendeva vietato l’acquisto di quell’uva per la produzione di vino kasher. Partendo dal versetto di Devarim 24, 13: “Non mancherai di restituirgli il pegno, al tramonto del sole, affinché egli possa dormire nel suo mantello, e benedirti; e questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi dell’Eterno, ch’è il tuo Dio” e seguendo l’opinione del Rambam (Hilchot Ghezelà 1,2) per la quale l’oshek si applica anche ai non ebrei, il Bet Din Di Boston di fatto ha accolto l’idea che la kasherut di una produzione di vino passasse anche per elementi non tecnicamente legati al vino stesso, alla raccolta dell’uva, al bishul (cottura) o al travaso del mosto.
Nella sentenza del Bet Din di Boston del 1974 i criteri di valutazione di una opinione restrittiva sono di natura sociale, seguono i valori della giustizia, del giusto salario, dei diritti inalienabili del lavoratore e degli stessi diritti umani che se violati possono arrivare a rendere non kasher un vino, una vigna, un grappolo d’uva. Potremmo forse pensare che in un momento così critico per la dignitosa sopravvivenza di molte famiglie ebraiche italiane sarebbe giusto halachicamente ampliare gli orizzonti dell’acquisto kasher con una congiunta azione di politica kasher che veda insieme rabbanim, mashghichim, commercianti del settore, presidenti di Comunità ed istituzioni nazionali?
La giustizia sociale non cammina lontana dai sentieri dell’halachà che arriva a permettere un certo prodotto poggiandoci su autorevoli pareri medioevali come contemporanei, ma sopra ogni cosa pubblicizzando e facendo comprendere le giuste facilitazioni e gli ancora più giusti limiti, fugando ogni dubbio, educando ad una maggiore consapevolezza dei limiti e degli spazi aperti della Halachà, si diffonde Torà tra un pubblico, quello italiano, che ha bisogno di capire ciò che è proibito e ciò che è permesso anche in virtù della realtà sociale, religiosa ed economica che sta vivendo.
Shalom – Giugno 2013