Intervista a Marco Sed del Ristorante Yotvata di Roma: “Cucina kosher? Un servizio di natura sociale”.
Anna Tina Mirra
“A Roma abbiamo una vera cucina tradizionale ebraica. Fino al 1870 gli ebrei erano costretti a vivere nel Ghetto e, per imposizione papalina, a fare la spesa solo alla fine del mercato di S. Angelo in Pescheria. E poiché lì si trovavano soltanto prodotti quali indivia o zucchine, le nostre nonne cominciarono a fare di necessità virtù, ideando piatti come gli aliciotti all’indivia o la guiche di zucchine. Oppure la cassuola di ricotta, perché alla fine del mercato si trovava soltanto la ricotta e non anche altri formaggi. Piatti che poi la cucina romana ha ‘rubato’ dalla tradizione ebraica”. E’ con Marco Sed – 43 anni, sposato con Sharon, padre di Yael, Gabriel e Sarah, imprenditore, titolare del Ristorante “Yotvata” a Piazza Cenci, nel cuore del Ghetto romano – che GIROMA comincia ad addentarsi nelle tradizioni della cultura ebraica.
Come è nata la sua esperienza con “Yotvata”?
“Io e mia moglie Sharon venivamo dal settore dell’abbigliamento. Ci siamo trovati per gioco catapultati in questa realtà 12 anni fa. Questo ristorante era già stato creato kosher da una persona, che poi era stata costretta a chiudere. Fu mia moglie a dirmi: ‘Proviamoci’. Io ero terrorizzato, non avevo nessun tipo di esperienza nella ristorazione. Ci siamo così imbarcati in questa avventura, attorniandoci da persone che avevano esperienza nel settore. E nel giro di sei sette mesi, da buona spugna, sono riuscito a capire sistemi e meccanismi. Quando si fa cucina kosher la devi fare con il cuore. Devi sentirla dentro ed avere l’idea di dare anche un servizio di natura sociale. Fare un ristorante kosher sotto il controllo del rabbinato vuol dire anche dare un servizio alla clientela internazionale ebraica, che altrimenti non saprebbe dove andare a mangiare. Quando abbiamo aperto 12 anni fa, di ristoranti kosher sotto il controllo del rabbinato qui al Ghetto eravamo soltanto in due. Oggi siamo in cinque, due di latte e tre di carne: noi, la Taverna del Ghetto, Ba’Ghetto nella versione latte e carne, e Yesh”.
Che cosa comporta nello specifico “sotto il controllo del rabbinato”?
“Prima di ottenere la certificazione kosher, la comunità ebraica di Roma ci rilascia un certificato scritto in ebraico ed in italiano, che viene affisso all’ingresso del ristorante e che evidenzia che tutti i cibi contenuti nel ristorante sono sotto la loro stretta sorveglianza. Ogni giorno, anche più volte al giorno, viene un incaricato della comunità che controlla i cibi e ci dà quelle che sono le tecniche di lavorazione. Non tutti i cibi possono essere lavorati alla stessa maniera. Ci sono le verdure, le uova, il pesce, la carne, il latte. Il primo divieto è quello di non mischiare mai il latte con la carne. C’è scritto ben tre volte nella Bibbia (Esodo cap. 23 verso 19, Esodo Cap. 34 verso 26, Deuteronomio Cap. 14 Verso 21) “Lo Tevashel Ghedi Bachalan Immò” “Non cuocere il capretto nel latte di sua madre”. Da qui scaturiscono una serie di normative tecniche. Un ristorante kosher sotto il controllo è o di carne o di latte. Non si troveranno mai carne e latte insieme. Latte e pesce oppure carne e pesce sì. Noi di ‘Yotvata’ siamo pesce e latte; ed, inoltre, tutto il prodotto che noi abbiamo di latte è controllato fin dalla mungitura. I formaggi sono di nostra produzione. Il latte lo controlliamo fin quando non si è casificato e poi prendiamo il prodotto”.
Se qualcuno che non conosce la cucina ebraica venisse a mangiare da ‘Yotvata’, che piatti gli consiglierebbe?
“Qui si mangia la cucina giudaico romanesca, quella che cucinavano mia madre e mia nonna. Abbiamo riportato all’interno del ristorante, con i canoni di industrializzazione, per renderli adatti alla ristorazione, piatti tipici della cucina ebraica: carciofi alla giudia, filetti di baccala, roba fritta pastellata, aliciotti all’indivia, quiche di zucchine, baccala cipolla e pomodoro”.
La conduzione è familiare?
“Tendenzialmente sì, con personale che ci coadiuva. Mia moglie Sharon, molto brava in cucina, spiega i piatti ai cuochi. Io mi occupo dell’approvvigionamento e sono il frontman del ristorante. La mia presenza in sala è fondamentale”.
I cuochi sono ebraici?
“Quando abbiamo aperto il ristorante eravamo il crocevia della multietnicità. Avevamo uno chef, che ancora è qui con noi, ossia Cristiano, ed un direttore di sala musulmano. Noi, invece, di religione ebraica. La pace si faceva in tavola, come dire”.
E’ giusto dire che la cucina ebraica abbia delle tradizioni simili a quella musulmana, ad esempio sulla carne?
“Per grandi principi si, ma non è così nella fattibilità. L’halal è la certificazione per i musulmani, il kosher per gli ebrei. Attenzione però. Quello che è kosher è automaticamente anche halal, perché i musulmani mangiano tutto quello che il popolo del libro, cioè il popolo ebraico, mangia. Per noi non è così. Il prodotto è kosher quando è kosher. Noi non possiamo appoggiarci sulla certificazione halal. Ad esempio sulla carne la differenza sostanziale è questa. Noi facciamo la macellazione rituale come loro nel tagliare la trachea e l’esofago dell’animale. Però la differenza è che noi facciamo tutto un controllo del polmone, la visita ispettiva, valutiamo se l’animale ha avuto delle imperfezioni, usiamo un coltello fatto in un certo modo. Loro procedono solo alla macellazione. Dopo la macellazione noi ebrei facciamo certi procedimenti sulla carne per togliere il sangue, in quanto non mangiamo il sangue che secondo l’ebraismo è il veicolo dell’anima. Facciamo, dunque, salatura e bagnatura, che dopo un’ora tolgono il sangue. O in alternativa la cottura della carne a diretto contatto con il fuoco che brucia il sangue”.
Il vostro giorno di chiusura è il venerdì. In questo periodo il sabato riaprite intorno alle 21. Perché?
“Sì, in ottemperanza allo shabbat, ossia alla festa del riposo. Dio ha lavorato sei giorni e il settimo si è riposato? Oggi gli ebrei il settimo si risposano. Il giorno secondo la tradizione ebraica inizia dalla sera, perché è scritto ‘E fu sera e fu mattino, fu il primo giorno’. Noi entriamo, dunque, in pausa dall’imbrunire del venerdì fino all’uscita delle tre stelle nel giorno dello shabbat. Ovviamente in inverno questi tempi si accorciano ed in estate si allungano. Motivo per cui attuialmente apriamo più tardi”.
Vuole aggiungere qualcosa sulle tradizioni culinarie ebraiche?
“La cucina kosher non è una cucina etnica. E, dunque, non deve mettere paura. Kosher in ebraico vuol dire ‘adatto’, ‘permesso’ a quella serie di norme che Dio dà a Mosé sul Monte Sinai, che sono tutta una classificazione di animali permessi e animali non permessi. Quali sono gli animali permessi? Quelli che hanno uno zoccolo spaccato e che sono simultaneamente ruminanti. Se hanno queste due caratteristiche possono andare alla macellazione ebraica rituale, altrimenti non sono permessi e non sono permessi nemmeno i loro derivati. Porto un esempio. L’asina: ha lo zoccolo intero e anche se ruminante non è permesso. E’, dunque, un animale vietato. Ed anche il suo latte è vietato. Un formaggio fatto con latte di asina, dunque, non è permesso. Ed ancora. Nella nostra cucina, oltre a non mangiare carne e latte, controlliamo che tutte le uova non abbiano sangue. Oppure, controlliamo le foglie controluce una ad una, per verificare che non ci siano insetti. Solo per dirne qualcuna”.
E la tradizione dei dolci kosher?
“Qui a Roma, ad esempio, nella piccola pasticceria al Portico d’Ottavia, fanno la Pizza di Berit (da brit milah – patto della circoncisione). Un dolce che si mangia la sera prima della circoncisione, perché si usa fare una mishmeret. Una veglia durante la quale si eseguono canti melodici, tipici e unici, e si usa mangiare questi dolci che producono da centinaia di anni nella pasticceria ebraica. Il nostro piccolo fiore all’occhiello è anche che questa pasticceria, nel tipico dolce di ricotta e visciole, usa la ricotta kosher di nostra produzione”.
E che procedimento si usa per la ricotta kosher?
“La ricotta, come si sa, è un prodotto di risulta. Viene fatta dal siero dei formaggi. Ne consegue che se il siero non è kosher, la ricotta nemmeno è kosher. Ma quando un siero non è kosher? Il formaggio si fa con il caglio, che è un estratto dall’abomaso del vitello. E ha un problema: essendo un estratto di natura animale già che lo mischi con il latte abbiamo fatto carne e latte. Se abbiamo un siero che viene da una produzione non kosher, non lo possiamo usare. Dunque, noi facciamo formaggi kosher col caglio vegetale e non animale. Facciamo produzioni kosher in diversi caseifici nazionali; come ad esempio presso Auricchio, fiore all’occhiello della caseificazione italiana. Il siero dei formaggi lo utilizziamo per fare la ricotta, che due o tre volte a settimana diamo alla pasticceria”.
Essendo il caglio kosher vegetale, se ne potrebbe suggerire l’utilizzo anche ai vegetariani…
“Il caglio ha una derivazione microbica o deriva dai funghi o dal cardo. Attenzione, però. La cucina kosher di latte è assolutamente vegetariana. Noi abbiamo carne, latte e il parve, che è un cibo che non è né carne né latte, e dunque è un cibo che può essere utilizzato sia con la carne che con il latte. Per noi ebrei il cibo parve è importante per il discorso legato a carne e latte, ma pensiamo anche a chi è allergico ai latticini. Con un cibo parve si ha la matematica certezza che non ci sia il latte, grazie alla supervisione del rabbino”.
http://www.giroma.it/index.php/l-angolo-dell-intervista/2410-marco-sed-cucina-kosher-un-servizio-di-natura-sociale.html
http://www.yotvata.it