Le accuse di antisemitismo a Shakespeare e la statua di Rhodes
Antonio Gurrado
Volete Shylock, vero?”. Quando la Hogarth Press lo aveva scritturato per un progetto editoriale di riscrittura di classici shakespeariani da parte di affermati romanzieri, Howard Jacobson aveva scelto “Amleto”, ma la tragedia del principe era finita in mani altrui; e “Macbeth” a Jo Nesbo, “Otello” a Tracy Chevalier, “La tempesta” a Margaret Atwood, “Il racconto d’inverno” a Jeanette Winterson. Da lui, il più affermato romanziere ebreo britannico, volevano proprio “Il mercante di Venezia”. Adesso che il libro sta per uscire in Inghilterra, la conclamata intelligenza di Jacobson fa sì che il titolo “Shylock is my name” non implichi un’appropriazione indebita alla #jesuishylock, né un’identificazione confusa e piatta né una rivendicazione di ebraicità da parte di un ebreo chiamato a riscrivere un classico dell’antisemitismo che, francamente, ai tempi della scuola non sopportava affatto. Al Telegraph ha dichiarato che quando era uno dei venti alunni ebrei di un liceo non confessionale non detestava “Il mercante” per le contumelie antiebraiche ma perché glielo propinavano come issue drama, uno spettacolo a tema su cui imbastire ricerche sull’antisemitismo.
Scrivendo “Shylock is my name” Jacobson ha soprattutto voluto evitare di farne un romanzo a tema, persuaso che “una lettura grossolana di qualsiasi opera letteraria sia prerogativa degli ignoranti”. Sa che secondo alcuni Shakespeare meglio avrebbe fatto a non scrivere “Il mercante”, visto che poi sarebbe diventato un caposaldo della propaganda antisemita e addirittura nazista; su Radio Times però ha ribadito che “l’unica ragione di auspicare che un testo non sia mai stato scritto è che è stato scritto male. Non possiamo criticare un’opera perché la riteniamo offensiva, in quanto l’offesa è soggettiva e ogni lettore differisce quanto a suscettibilità.
Probabilmente tutte le opere prima o poi hanno offeso qualcuno”. Se il pubblico non si capacita di questo principio è perché sceglie deliberatamente di non capacitarsene. Sicuramente “non c’è bisogno di Shakespeare per sminuire l’umanità di quelli che ancora oggi strillano contro gli ebrei”. Probabilmente si riferiva a questa storia: nel 2012 il Globe, tempio shakespeariano di Londra, aveva invitato la compagnia nazionale israeliana Habima ad allestire “Il mercante di Venezia” causando l’inevitabile lettera aperta da parte di attivisti pro-palestinesi che esortavano a ritirare l’invito. L’unico nome di grido rimasto impigliato fra i sottoscrittori era quello di Emma Thompson. Jacobson aveva definito la lettera kafkiana e maccartista, specificando che “chiunque si rivolga all’arte con mente pregiudiziale non capisce a cosa serva”, e che quindi per un artista firmare una lettera del genere era “non solo tradimento ma anche masochismo”.
La caratteristica dello Shylock di Jacobson – uguale identico all’originale, appare a un ebreo inglese di oggi in un cimitero di Manchester – è voler scrollarsi di dosso l’antisemitismo senza rivendicare un’ebraicità positiva. Imbarcandosi nel lavoro quasi tre anni fa, Jacobson aveva spiegato all’Independent che ai tempi di Shakespeare la Shoah era inimmaginabile e il concetto di antisemitismo nemmeno esisteva; la sfida risiedeva nel riuscire a raccontare la stessa storia con queste nuove consapevolezze, in un’epoca in cui “ogni riferimento implica un fardello ben differente”. L’altro giorno, a lavoro ultimato, ha scritto un lungo articolo sul Guardian per spiegare che “molti cinici ritenevano che avrei operato un lavoro di ripulitura rimuovendo da Shakespeare il materiale offensivo, un po’ come quelli che disapprovano il colonialista Cecil Rhodes vogliono rimuoverne la statua da Oxford”. Invece Shakespeare è teatro, non un trattato, è storia e non militanza, quindi non ha senso vagliarlo sulla scala dei permalosi valori d’oggi: “Chi è irritato da ciò che vi scorge come ostile agli ebrei si colloca, secondo me, dallo stesso versante di chi si gloria della medesima ostilità”.
(Il Foglio, 9 febbraio 2016)