Lezione di per Amicizia Ebraico-Cristiana – 15/2
Il termine midrash deriva da una radice darash (ricercare, indagare), ed indica in generale il lavoro effettuato dai Maestri, che esaminano a fondo il testo biblico. Questo termine designa però anche un particolare genere letterario, patrimonio esclusivo della tradizione esegetica di Israele, che ha caratterizzato profondamente il pensiero ed il sentire del popolo ebraico nei secoli. I Midrashim si dividono in due categorie fondamentali, il midrash halakhàh, di contenuto giuridico, e il midrash haggadàh, di contenuto non giuridico.
Lo scopo della haggadàh è di sensibilizzare l’uomo, per mezzo del racconto, rispetto alla tematica divina e umana, e avvicinarlo alla halakhàh. Possiamo distinguere due tipi di midrash haggadàh, quello esegetico, che spiega il testo in maniera sequenziale, e quello omiletico, che selezionano solo alcuni versi nella pericope. Il Midrash omiletico si sviluppa inizialmente nelle Sinagoghe, dove il popolo si riuniva di Sabato. Le derashot seguivano uno schema fisso: 1) l’apertura, dove il maestro introduceva il discorso citando un verso degli agiografi; 2) l’esposizione del problema; 3) la derashàh, nella quale si rispondeva al quesito affrontando un versetto della parashàh letta quella settimana; 4) la semplificazione, attraverso il quale il darshan concludeva il discorso, pronunciando parole di consolazione. Il darshan era coadiuvato da due aiutanti, uno che lo assisteva nella citazione delle fonti, l’altro che ripeteva a voce alta le sue parole, perché spesso era molto anziano. R. Aqivà viene rimproverato per essersi interessato di haggadàh, visto che la sua unica occupazione sarebbe dovuta essere quella di occuparsi esclusivamente di halakhàh. Fra le compilazioni haggadiche certamente la più famosa in assoluto è l’haggadàh di Pesach, che sembra essere un antichissimo commento a Devarim 26, 5-8, dove viene descritto il percorso che conduce il popolo ebraico dallo stato nomadico dei patriarchi alla liberazione dalla schiavitù egiziana.
Il Midrash si avvale di alcune regole interpretative fisse, derivanti da tre raccolte principali: le sette regole di Hillel il Vecchio, primo tentativo di raggruppare una serie di metodologie già utilizzate da tempo, le tredici regole di R. Yshma’el, che hanno influenzato profondamente l’ebraismo nei secoli, tanto da essere enumerate da molti nella preghiera del mattino, le trentadue regole di R. Eli’ezer figlio di R. Yosè ha-galilì.
Scopo di questa esposizione è esclusivamente quello di illustrare per sommi capi lo sviluppo storico di questo genere letterario, che si estenderà per circa un millennio e mezzo, dal III sec. A.E.V., sino al tardo medioevo. Il Midrash ha origine antichissime. Già nel testo biblico troviamo dei passi che richiamano le tecniche che poi i Maestri successivi utilizzeranno. Preliminarmente dobbiamo considerare che molti midrashim, prima di essere messi per scritto, dovevano essere stati trasmessi oralmente, e quindi la versione giunta a noi avrà nel tempo subito delle modifiche.
Nella formazione del corpus midrashico una parte non trascurabile è costituita dalla letteratura intertestamentaria, la quale, pur non essendo entrata a far parte del canone biblico, lega le due espressioni letterarie, rendendo lo scarto fra le due molto meno netto. In generale fanno parte di questo genere i libri apocrifi e gli pseudoepigrafi. Ad un certo punto della storia ebraica, intorno all’anno 70 dell’era volgare, venne fissato il canone biblico. Questo processo non fu istantaneo, e nel Talmud abbiamo testimonianza di varie discussioni legate a tale decisione. Difatti vari testi, che poi furono accolti nel canone, come il Cantico dei Cantici, il Qohelet, il libro di Ester, il libro di Ezechiele, presentavano degli aspetti, concettuali o normativi, che potevano apparire in contrasto con quanto stabilito dalla Toràh. Questa selezione lasciò però fatalmente alcuni libri fuori dal canone, provocandone un rapido oblio. Naturalmente i chakhamim avevano tutto l’interesse di difendere le proprie decisioni, e per questo leggiamo nel trattato di Sanhedrin (cap. X), a nome di R. Aqivà, che chi legge questi libri non ha parte nel mondo futuro. Questi testi furono mantenuti in vita per mezzo delle Chiese cristiane d’Oriente, che ne trasmisero numerose traduzioni.
Ulteriore impulso derivò dal ritrovamento di frammenti delle opere originali, e a volte delle opere complete nella ghenizàh del Cairo, a Qumran e a Masada. Altro evento molto importante fu la nascita della comunità di Alessandria d’Egitto, che adottò la lingua greca, maturando di conseguenza l’esigenza di tradurre la Bibbia in greco, cosa che gradualmente avvenne. Alcuni definiscono la traduzione dei Settanta la prima forma di Midrash. Secondo alcuni il canone alessandrino era più inclusivo di quello di Eretz Israel, e questo spiegherebbe le differenze fra la tradizione ebraica, che comprende meno libri, seguendo la dottrina dei maestri di Eretz Israel, e quella cristiana, che avrebbe avvolto il canone alessandrino. Anche in Israele tuttavia non sembra che la lista fosse completamente fissata: difatti nelle grotte di Masada è stato rinvenuto un rotolo di Siracide, testo non accolto nel canone, forse utilizzato in ambito sinagogale. Questo testo, composto nel terzo sec. A.E.V., alcune generazioni prima degli Asmonei, è talvolta citato nella letteratura rabbinica. Il libro di Siracide fa parte della letteratura sapienziale, e si richiama in molti passi ai Proverbi e al Qohelet. Negli ultimi capitoli, chiamati, Elogio dei padri, l’autore ripercorre la storia biblica, inserendo all’interno della narrazione elementi che non compaiono nel testo, che sono evidentemente frutto di tradizioni successive. Ad esempio la figura di Enokh nel Siracide, al contrario della successiva letteratura rabbinica, gode di una buona considerazione. Anche nel libro greco di Ester è presente per esempio una sezione, denominata il sogno di Mardocheo, dove è descritto il futuro di Mordekhai e della sua comunità. I vari generi letterari che emergono in questi secoli verranno utilizzati a modo proprio dalla letteratura midrashica.
Fra gli pseudoepigrafi spiccano i Testamenti dei dodici patriarchi, che risale al periodo asmoneo, ed il libro dei Giubilei. Varie tradizioni che compaiono in essi troveranno poi spazio nel Midrash, permettendo di determinare con una certa precisione quando una certa tematica, sviluppata successivamente dal Midrash, fece la propria apparizione. Lo stesso ausilio ci è fornito dalle opere della letteratura giudeo ellenistica, prime fra tutte quelle di Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, autori di vari trattati che contengono letture allegoriche del testo biblico, che avevano come scopo di presentare al pubblico greco la religione ebraica attraverso uno stile ed un linguaggio che potessero esercitare un certo fascino sui filosofi. Il genere letterario dei libri intertestamentari, che riscriveva la storia biblica, non fu adottato dai chakhamim almeno sino al VII sec., con i Pirqè deRabbì Eli’ezer. Non dobbiamo tuttavia ritenere che il Midrash faccia semplicemente da raccordo fra il testo biblico e tradizioni preesistenti, ma inserisce numerosi elementi di novità. Altri testi, che richiamano da vicino il Midrash, sono i Pesharim, rinvenuti in gran numero nelle grotte di Qumran.
Tuttavia non dobbiamo farci ingannare dalla similitudine esteriore: questi testi infatti volevano, aiutandosi con il testo biblico, descrivere quanto avveniva nella realtà sette qumraniche, e da quest’ultimo partivano, mentre il Midrash parte dal testo biblico con lo scopo di spiegarlo. Altre opere che permettono di comprendere l’haggadàh, sebbene non rivelino nulla sulla sua metodologia, sono le traduzioni aramaiche della Toràh, il Targum Onqelos (I-II sec.), che si sforza di eliminare gli antropomorfismi dal testo biblico, e che ispirò molte traduzioni moderne, il Targum Yehonathan, che ci presenta una versione midrashica della Bibbia, modificando il testo spesso in modo significativo, e il Targum Yerushalmì, giunto a noi incompleto, che cerca di tradurre i vari termini sempre nello stesso modo. Secondo alcuni le tre traduzioni sono coeve. In tali opere il materiale midrashico viene naturalmente inserito all’interno della traduzione.
L’opera principale e più antica della letteratura rabbinica è la Mishnàh, che ebbe il grande merito di conferire all’ebraismo un carattere normativo. La Mishnàh tende a definire i precetti esposti nella Toràh, calandoli nella realtà concreta. Nella Mishnàh tuttavia possiamo trovare in misura minore anche del materiale haggadico, che ci presenta la visione del mondo dei tannaim. La seconda opera del genere che gode di una certa rilevanza è la Toseftà (aggiunta) che comprende gli insegnamenti che non erano stati accolti nella Mishnàh. Il corpo delle baraitot fu ampiamente utilizzato dagli amoraim nel Talmud babilonese. Nelle baraitot il materiale haggadico è molto più abbondante che nella Mishnàh. La compilazione della Toseftà è datata fra il III e la fine del IV sec. Il materiale in essa raccolto risale ad un periodo compreso fra il I e il III sec. In questi secoli vengono poi redatte le raccolte dei midrashim tannaitici, che si presentano come un’interpretazione continua del testo biblico, per dimostrare che le regole insegnate, che nella Mishnàh venivano stabilite in modo indipendente, trovano il loro fondamento nel testo biblico stesso. Anche su queste opere gli studiosi sono in disaccordo sulla data della loro composizione, posta fra il III e il V sec. I midrashim tannaitici si occupavano principalmente delle sezioni legali della Toràh. Per questo motivo non esiste un midrash tannaitico al libro della Genesi, testo narrativo per eccellenza. La Mekhiltà di R. Yshma’el commenta il libro dell’Esodo, a partire dal cap. 12, dove troviamo le prime prescrizioni rivolte al popolo d’Israele. Nonostante questo circa la metà di questa opera è costituita da materiale haggadico. Il secondo Midrash tannaitico all’Esodo era la Mekhiltà di R. Shim’on Ben Yochai, testo andato perduto nel medioevo, e ricostruito in gran parte per via delle numerose citazioni presenti nel Midrash ha-gadol.
Il Levitico è oggetto di un solo Midrash tannaitico, Sifrà, chiamato in Israele Torat kohanim, costituito per lo più da materiale legale, vista la natura del testo commentato. Due testi commentano il libro dei Numeri: il Sifrè Bemidbar e il Sifrè Zuta, anch’esso andato perduto nel medioevo, ma ricostruito per via delle citazioni presenti nello Yalqut Shim’oni, ove erano annotate a margini le fonti da cui erano tratti i Midrashim. Questo permise di ricostruire il testo pressoché nella sua interezza. Oggetto del quinto libro è il Sifrè Devarim, che per lungo tempo è stato considerato un’unica opera assieme al Sifrè Bemidbar, ma è stato dimostrato dagli studiosi che non è così. Si è cercato, senza successo, di ricostruire un midrash tannaitico al Deuteronomio, senza successo. In queste raccolte, così come nella Mishnàh e nella Toseftà, la cesura fra halakhàh e haggadàh non è ancora netta, e le tecniche interpretative variano in base alla natura del tema trattato. Riprova di questo intreccio è l’abbondante presenza di materiale haggadico all’interno dei due talmudim. All’interno del Talmud Yerushalmi è possibile individuare un migliaio di detti haggadici. Il Talmud Bavlì raccoglie tutto il materiale haggadico proveniente da quell’area geografica, perché in Babilonia non venivano prodotte raccolte di midrashim autonome. Per rendersi conto della mole di tale materiale è sufficiente sfogliare l’En Ya’aqov di Rabbì Ja’aqov ibn Chaviv (1445-1515), che ha raccolto tutte le haggadot del Talmud Babilonese.
L’espressione maggiormente caratterizzante della produzione midrashica dei chakhamim è tuttavia il midrash haggadico, che commenta linearmente il testo biblico, verso per verso, parola per parola, interessandosi principalmente delle parti narrative della Bibbia. Nella haggadàh i chakhamim esprimono il pensiero religioso d’Israele in forma non sistematica. L’opera più significativa del genere è di certo il Midrash rabbàh. Al giorno d’oggi viene presentato come un’unica opera composta di dieci parti, una per ogni libro del Pentateuco e una per ciascuna delle cinque meghillot. In realtà i libri del Midrash rabbàh sono autonomi e indipendenti. Il termine rabbàh originariamente era riferito solamente al Midrash sul libro di Bereshit, derivandolo dalle prime parole del testo (apertura di R. Oshajàh Rabbà), o perché circolava una forma più breve della raccolta, e solo successivamente agli altri. Furono raggruppati abbastanza tardi: la prima edizione risale al 1512, e presenta solo le parti sul Pentateuco; l’edizione di Venezia del 1545 presenta anche le parti sulle meghillot. Bereshit Rabbàh è il più antico ed ampio testo della raccolta. E’ stato scritto intorno al V sec. dai maestri della terra d’Israele. L’origine del testo è facilmente individuabile per via del linguaggio utilizzato, un misto di ebraico, aramaico parlato in Galilea con molti grecismi. Commenta verso per verso il libro della Genesi.
E’ possibile che la sua considerazione derivasse dall’assenza di un Midrash tannaitico sulla Genesi. Anche per gli altri libri della raccolta la loro estensione deriva dalla presenza o meno di materiale narrativo nel testo biblico. Per questo per i primi 11 capitoli dell’Esodo e per numerosi capitoli del Levitico troveremo abbondante materiale haggadico. Il secondo libro ad essere composto è il midrash sul Levitico, che è stato definito un midrash omiletico. La sua elaborazione risale al VI sec. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno strano: infatti si tratta di un midrash haggadico su un testo quasi interamente halakhico, che fornisce insegnamenti di vario genere a partire dai versi del Levitico. A tali opere si aggiunge la Pesiqtà deRav Kahanà, che ha la particolarità di non commentare un libro particolare, ma brani scelti che vengono letti in occasioni particolari, come i tre sabati che precedono il digiuno di Tish’àh beAv e i sette che lo seguono. Altro aspetto che lo contraddistingue è il commento di brani profetici. Il testo era andato perduto, e fu correttamente ricostruito nel XIX sec., come dimostrato dal successivo ritrovamento di copie manoscritte. Altre opere midrashiche risalgono al periodo successivo alla chiusura del Talmud. I testi di questo periodo si differenziano da quelli del tardo midrash, e si rifanno a quelli del primo periodo, dai quali attingono ampiamente. A questo periodo risalgono le rabbot sui cinque rotoli, prima delle quali quella sulle Lamentazioni, seguita, poco tempo dopo dalle altre.
Al periodo successivo appartengono il Tanchumà Yelammedenu, che ci è arrivato in due differenti versioni, da cui derivano tre libri inclusi nel midrash Rabbà: Devarim Rabbàh, Shemot Rabbàh, che agli insegnamenti del Tanchumà unisce brani tratti dal Talmud Babilonese, Bemidbar Rabbàh, che nella prima parte, che commenta il libro sino all’ottavo capitolo, riprende ampi brani tratti dall’opera di R. Moshèh ha-darshan (XI sec.). Al Midrash Rabbàh si deve aggiungere la Pesiqtà Rabbatì, un midrash omiletico strutturato come la Pesiqtà deRav Kahanà. A questa epoca risale poi l’Avot deRabbì Natan, una rielaborazione tarda dei Pirqè Avot, che attinge dai midrashim del periodo tannaitico, il Midrash Shocher Tov sui Tehillim, che segue passo passo il testo, con prestiti da midrashim più antichi, sempre non identificati, il Midrash Shemuel, unico a commentare un libro dei profeti anteriori, il Midrash Mishlè, che da un punto di vista stilistico si discosta profondamente dal midrash classico. Due opere hanno dei tratti molto particolari: i Pirqè deRabbì Eli’ezer, che riscrivono la Bibbia incentrando la narrazione intorno a personaggi chiave e il Seder Eliahu rabbà, o Elihau Zutà, opera etica che esorta al retto comportamento e allo studio della Toràh. Una rielaborazione tarda dei Pirqè deRabbì Eli’ezer, il Sefer ha-yashar, attingerà, oltre che alle fonte classiche, anche a materiale derivante dalle tradizioni giudaico ellenistiche e leggende medievali provenienti dal mondo non ebraico, principalmente quello islamico.
Dopo il periodo tardo compaiono delle antologie, che raccolgono materiale da tutta la letteratura rabbinica, lo Yalqut Shim’onì, che riporta citazioni da cinquanta opere differenti, alcune delle quali andate perdute, e il Midrash ha-gadol, composto nello Yemen, che riporta anche citazioni del Maimonide, senza però indicare esplicitamente le proprie fonti.
Bibliografia essenziale:
D. Banon, Il Midrash, ed. Paoline
D. Banon, La lettura infinita, Jaca Book
M. Ventura Avanzinelli, Fare Orecchie alla Toràh, Giuntina