XXIX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei
Si racconta che una volta Napoleone Bonaparte stava passeggiando durante il digiuno del 9 di Av. Capitò in una sinagoga e chiese perché tutti erano seduti sul pavimento a piangere. Gli risposero che stavano piangendo per il Tempio di Gerusalemme, distrutto quasi duemila anni prima. Napoleone osservò allora che un popolo che è in grado di mantenere il lutto per duemila anni è sicuramente eterno, e un giorno ricostruirà il suo Tempio. Il rifiuto di dimenticare è uno dei segreti della sopravvivenza del popolo ebraico, fatto che sfida le grandi leggi della storia.
Il libro di Ekhah negli ultimi decenni è stato oggetto di un’attenzione particolare fra gli studiosi, decisamente superiore a quella destinatagli in precedenza.
Da un punto di vista letterario si tratta di un testo molto interessante, che presenta numerosi parallelismi con altre creazioni della letteratura del Vicino Oriente antico, in modo particolare mesopotamica, dell’inizio del II millennio A.e.v. Il testo si presenta anzitutto come un lamento per la distruzione di Gerusalemme e il suo Santuario, il centro religioso e culturale principale in terra d’Israele durante il periodo biblico.
Il testo ha ispirato nei secoli molti artisti, pensatori e poeti, che ne hanno ampiamente evocato le immagini, riferendosi alle numerose tragedie che hanno colpito il popolo ebraico nei secoli, sino alla Shoah. Alcuni ne hanno fatto uso anche per descrivere drammi più recenti, come gli sconvolgimenti nei Balcani negli anni ’90 e l’11 settembre[1]. E’ importante ricordare, usando un concetto riportato da Jonathan Roberts, che, in generale, il metodo storico-critico costituisce solo una piccola parte della recezione dei vari libri biblici, è solo una parte della storia dell’interpretazione, e non la base sulla quale l’interpretazione può essere costruita[2]. La storia della recezione di un’opera ha acquisito sempre maggiore importanza dal momento in cui venne pubblicato, agli inizi degli anni ’60, Verità e metodo di Hans-Georg Gadamer. Secondo la sua visione, che richiama molti concetti espressi dal Maharal di Praga, il lettore non può non essere parte del processo creativo. Il confronto con il nostro passato è pertanto un processo profondamente dialogico. Un testo molto interessante, nel quale questo approccio si mostra in tutta la sua freschezza, è A Biblical Text and Its Afterlives: The Survival of Jonah in Western Culture di Yvonne Sherwood (2000).
La tragedia nazionale sollevò chiaramente seri problemi ideologici: ad esempio, come è stato possibile che il D. d’Israele abbia permesso a degli idolatri di distruggere il Suo Santuario? Forse le divinità degli altri popoli sono più forti? La meghillah di Ekhah intende rispondere a queste dolorose domande. Era necessario mostrare al popolo che gli ultimi eventi luttuosi, al di là delle impressioni che si potevano trarne, non costituivano un punto senza ritorno nella storia del rapporto fra D. e il Suo popolo Israele.
Il nome
Nelle fonti rabbiniche il libro di Ekhah è chiamato Qinnot, elegie, lamenti, da cui il nome greco Treni, il latino Lamentationes, e l’italiano Lamentazioni. Bisogna tuttavia segnalare che il termine Qinnah, quello che indica più immediatamente il genere letterario dei componimenti, non compare mai esplicitamente nel testo. Questo può farci comprendere come questi componimenti siano anche altro. La scelta di attribuire il nome al plurale (a differenza ad esempio del Cantico dei cantici, Shir ha-shirim) suggerisce l’individuabilità di varie unità all’interno del testo[3], scandite principalmente dall’ordine alfabetico. Il nome Ekhah deriva invece dalla prima parola del libro (come mai?), che apre i primi quattro capitoli, espressione molto difficile da rendere nelle lingue moderne come titolo del libro, ma molto significativa, dal momento che nella tradizione ebraica i nomi dei libri biblici intendono fornire un insegnamento sul senso del libro stesso.
Il libro nel canone ebraico è inserito nei Ketuvim (Agiografi), fra le Chamesh meghillot, i cinque rotoli, che vengono ordinati in base al loro uso nel calendario festivo, o all’antichità della composizione, in base all’attribuzione tradizionale dell’autore. Nel primo caso, attestato in manoscritti di area sefardita, la meghillah di Ekhah si trova in terza posizione, dopo Shir ha-shirim e Ruth; nel secondo, rintracciabile in manoscritti e codici medievali, ed accolto nelle edizioni odierne del Tanakh, Ekha è in penultima posizione, prima del libro di Ester.
Nella liturgia il libro di Ekhah viene letto durante il digiuno del nove di Av, che ricorda principalmente la distruzione dei due Santuari di Gerusalemme. Questo fatto mostra in modo esplicito come Gerusalemme mantenga un ruolo centrale nella spiritualità ebraica, duemila anni dopo la distruzione del Tempio. L’usanza di leggere il rotolo durante il digiuno è una prova del legame del testo con l’esilio babilonese, che seguì la caduta della città. Tuttavia, nella letteratura rabbinica antica (la Mishnah e il Talmud), l’uso non è riportato esplicitamente, a differenza della Meghillah di Ester. E’ ricordato invece in Massekhet Soferim (14,3; 18,4). Sicuramente la struttura acrostica del libro ne favoriva la memorizzazione e la recitazione all’interno della preghiera in sinagoga. La lettura è accompagnata nei vari riti da una melodia malinconica, differente da quella usata per gli altri libri della Bibbia.
L’autore
La famosa Baraytà riportata nel trattato di Bavà Batrà (15a) identifica l’autore del libro con il profeta Geremia: “Geremia scrisse il suo libro, il libro dei Re e le Qinnot”. Questa attribuzione non è condivisa da parte della critica, che fa derivare questa tradizione dalla tendenza, abbastanza comune nel mondo antico, di riferire testi anonimi a figure storiche ben note e autorevoli. Una fonte importante per spiegare quanto i Maestri sostengono è il secondo Libro delle Cronache (35,25), dove è scritto “Geremia compose una elegia su Joscijàhu; e fino a oggi tutti i cantori e le cantatrici, nelle loro elegie, hanno parlato di Joscijàhu, tanto che furono stabilite come norma in Israele e si trovano scritte nel libro delle elegie”, Ekhah secondo i Maestri. I critici tuttavia, in base a vari ragionamenti, non considerano questa fonte significativa per l’attribuzione del testo. Anche il Targum (1,1) indica esplicitamente Geremia come l’autore del libro.
Molte espressioni che compaiono nel libro di Ekhah riprendono in maniera puntuale espressioni e concetti che si trovano esclusivamente nel libro di Geremia, in particolare nella seconda parte del libro. Il legame più evidente ed immediato fra il libro di Geremia e il libro di Ekhah è chiaramente il tema della distruzione del Santuario. Nella traduzione dei Settanta, che riflette la tradizione ebraica ai tempi del secondo Tempio, questo legame venne recepito, tanto che il Libro delle Lamentazioni si trova subito dopo il libro di Geremia, allo stesso modo in cui il libro di Ruth è inserito dopo il libro dei Giudici, narrando una storia che avvenne in quel periodo storico. Anche Giuseppe Flavio quando enumera i 22 libri biblici (come le lettere dell’alfabeto ebraico, e non 24) considera Geremia ed Ekhah e Giudici e Ruth come un unico libro.
Capitoli del libro di Ekhah sono stati trovati anche nei rotoli di Qumran, e possiamo quindi dedurre che all’epoca il testo facesse già parte del canone biblico.
Nella traduzione dei Settanta e nella Vulgata è presente un prologo, che richiama le circostanze in cui le Lamentazioni vennero pronunciate, dopo l’esilio di Israele e la distruzione di Gerusalemme. Nel prologo viene citata esplicitamente la figura di Geremia.
Secondo alcuni autori moderni, le prove portate rispetto all’attribuzione a Geremia, in un senso o nell’altro, sono deboli, tanto che è impossibile determinare chi sia l’autore o gli autori del testo[4]. Molti commentatori cattolici hanno considerato opera di Geremia solo i capitoli 2 e 4. Max Lohr[5] per esempio considera questi capitoli, cronologicamente anteriori, superiori agli altri da un punto di vista poetico ed ideologico. I cap. 1 e 5, che enfatizzano il tema della trasgressione, risalirebbero ad un periodo posteriore, attorno al 540 a.e.v. Il capitolo 3 sarebbe stato scritto solo molto dopo, intorno al 325 a.e.v.
Altri attribuiscono il libro a personaggi vicini al profeta, come il suo segretario Baruch.
Vari studiosi considerano invece l’opera, incoraggiati principalmente dalla struttura acrostica che conferisce completezza a ciascun capitolo, una collezione di poemi di differenti autori.
Numerosi riferimenti a Geremia, rappresentato nei secoli da Michelangelo, Rembrandt, Gustavo Dorè, ecc., sono presenti nella storia dell’arte. Molto interessante l’opera Jeremiah’s Lamentation’s di Marc Chagall (1956), nella quale il profeta straziato tiene il rotolo come se fosse una mamma che culla il figlioletto.
La struttura
Il libro è composto da cinque capitoli. La sua costruzione letteraria è raffinata e sofisticata. Il libro nei suoi primi quattro capitoli è costituito da acrostici. Alcuni studiosi considerano questa caratteristica come segno di una compilazione tarda, dal momento che questo artificio stilistico era in voga solo durante il periodo del secondo Tempio. Si deve tuttavia tenere conto del fatto che la medesima tecnica è usata in alcuni Salmi e nel cap. 31 dei Proverbi, oltre a essere tipico della letteratura siriaca[6]. Il ritmo dei vari poemi è costante, all’infuori di due eccezioni (1,7; 2,19), che possono essere considerate accidentali.
In apertura il Midrash su Ekhah vede il Signore interrogare le lettere dell’alfabeto, affinché testimoniassero contro Israele, mentre Abramo le convince a non testimoniare, sottolineando l’enorme valore di ciascuna lettera nella Torah. E’ noto in ogni caso come le lettere siano lo strumento principale del quale D. si avvale nella Creazione, e le lettere delle Lamentazioni possono avere la funzione di creare nuovamente in seguito alla distruzione[7].
Piero Stefani definisce il libro “l’alfabeto del dolore, della sventura e del lamento[8]”. In ebraico l’alfabeto è incorporato nello scritto, nella Vulgata le singole lettere sono trascritte all’inizio di ogni versetto: Aleph. Quomodo sedet sola civitas plene populo (Lam 1,1). Il liber Threnorum è stato nei secoli per la Chiesa lo scrigno che ha custodito l’alfabeto ebraico. Le Lamentazioni in molte tradizioni cristiane facevano parte della liturgia che precedeva i giorni della Pasqua, e in quei giorni veniva rafforzata l’idea, superata solo con la dichiarazione Nostra Aetate, che gli ebrei fossero in toto colpevoli per la morte di Gesù, scatenando in alcune aree sanguinosi pogrom.
Nei capitoli 2,3,4, è presente l’inversione delle lettere ‘ain e peh rispetto all’ordine abituale. Secondo alcuni si tratta di una testimonianza dell’esistenza, o della coesistenza, di un ordine differente delle lettere in una fase arcaica. Alcuni studiosi attribuiscono il fenomeno alla dominanza del tema dell’inversione all’interno del libro. La ghemarà in Sanhedrin (104b) collega il fenomeno all’episodio degli esploratori narrato nel libro dei Numeri, che il digiuno del 9 di Av commemora fra le altre disgrazie; gli esploratori infatti, disprezzando la terra d’Israele, espressero con la bocca (peh) ciò che i loro occhi (‘ain) non avevano visto.
Il quinto capitolo del libro non è un acrostico. Mantiene tuttavia la lunghezza di 22 versi. Da un punto di vista letterario l’ultimo si differenzia dagli altri poemi, trattandosi di un lamento collettivo.
Il Midrash (Ekhah Rabbah 3,1) sostiene che il rotolo che il re Yehoyaqim diede alle fiamme, così come narrato nel cap. 36 di Geremia, fosse una prima versione del libro di Ekhah, che comprendeva i capitoli 1,2,4. Al verso 32 è detto “Geremia prese un altro rotolo e lo diede allo scriba Baruch figlio di Nerijà che vi scrisse sotto dettatura di Geremia tutte le parole del libro che Jehojakim re di Giuda aveva dato alle fiamme; vi furono aggiunte molte altre parole della stessa natura (we’od nosaf ‘alehem devarim rabbim kahemmah)”. Il midrash intende questa espressione letteralmente, nel senso che il quarto capitolo ha un’estensione pari agli altri tre, dal momento che ogni lettera nel capitolo è ripetuta per tre volte. Il quinto capitolo zekhor H. viene dedotto invece dal termine “rabbim”. Secondo il Midrash pertanto la composizione del libro di Ekhah è contemporanea a quella del libro di Geremia e precede la distruzione del Santuario. E’ una toccante profezia, che non intende essere una rappresentazione storica, ma un avvertimento, simile a quello che troviamo al termine del libro di Devarim. L’altra opinione nel Midrash vede nei componimenti delle elegie funebri, e colloca quindi il testo in un momento successivo alla distruzione del Tempio. Infatti, chiede R. Nechemiah a R. Yeudah, sostenitore dell’altra opinione, “si piange il morto prima che sia morto?”.
Esaminando i vari capitoli alcuni hanno notato come nei primi due capitoli non vi sia riferimento alla distruzione del Tempio, ed è possibile pertanto che risalgano agli anni del regno di Yehoyaqim e dell’assedio di Gerusalemme. Nel quarto capitolo invece si parla dell’incendio del Tempio, e, secondo l’opinione di Rashì, della tragica morte del re Yoshiahu, che influenzò negativamente il destino d’Israele. Secondo Ibn Ezrà invece si parla di Tzidqiahu, secondo altri il riferimento è a Ghedaliah. Il capitolo quinto sarebbe invece stato scritto molti anni dopo lo svolgimento degli eventi in Egitto. Il terzo capitolo, espresso alla prima persona, si differenzia dagli altri sia per ragioni stilistiche che concettuali. E’ importante tuttavia sottolineare come la catastrofe nazionale della distruzione del Santuario sia vissuta anche come una disgrazia individuale, perché il Santuario era considerato il luogo in cui avveniva l’incontro fra il singolo individuo e la divinità. L’opinione prevalente fra gli studiosi è che l’opera abbia una struttura concentrica. Il cap. 3 è considerato il fulcro del libro. Gli studiosi che esprimono questa idea spesso tendono ad attribuire all’opera una datazione tarda.
Ekhah
Le lettere che compongono il termine ekhah compaiono con una differente vocalizzazione in Genesi 3,9 nel termine Ayekkah – dove sei?, domanda che il Signore pone ad Adamo dopo la colpa. “Il lamento per la distruzione è collegato ad un dramma iniziale e archetipico, la colpa dell’uomo che ne ha provocato l’allontanamento da D., ma che lo stesso D. cerca di recuperare andando in cerca dell’uomo[9]”. Il Talmud (TB Sanhedrin 104a) ritiene che l’autore abbia utilizzato proprio il termine ekhah per via del suo valore numerico, che è 36, a dire che il popolo ebraico aveva trasgredito i 36 peccati che vengono puniti con la pena del Karet, così come enumerato all’inizio del trattato Keritut (2a). Nello stesso brano l’uso dell’acrostico viene attribuito alla trasgressione di tutta la Torah, “che è stata data con l’Alef-bet”, vale a dire hanno commesso tutti i peccati che sono esprimibili per mezzo del linguaggio. Il Midrash (Ekhah Rabbah 1,1) collega il valore numerico delle lettere del termine ekhah alle colpe d’Israele, che “hanno rinnegato l’Unico al mondo, i dieci comandamenti, la milah che è stata data alla ventesima generazione (dalla creazione del mondo ad Abramo) e ai cinque libri della Torah”. Nel medesimo brano viene ricordato che tre profeti hanno usato l’espressione Ekhah, Mosè, Isaia e Geremia. Mosè, che vide Israele quando era degno di essere onorato, chiese (Deut. 1,12): “Come posso da solo sopportare i vostri fastidi, il vostro peso e le vostre liti?”; Isaia, che li vide nella loro leggerezza, disse (Is. 1,21): “Come mai si è trasformata in una prostituta la città prima onesta?”; Geremia, che li vide impauriti, e chiese (Lam. 1,1): “Come mai siede solitaria la città già piena di popolo?”.
Le Tosafot (Bavà Batrà 88b) spiegano che la parashah di Devarim viene letta sempre nel sabato che precede il 9 di Av, di modo tale da leggere l’Ekhah di Mosè nella parashah e quello di Isaia nella haftarah, tratta dal primo capitolo del libro.
Le tematiche
Ciascuno dei poemi che compongono il libro affronta delle tematiche legate alla caduta di Gerusalemme. Sotto certi aspetti i problemi posti sono simili a quelli del libro di Giobbe, affrontati però da un punto di vista collettivo e non individuale. Secondo molti interpreti moderni il libro affronta la tematica della teodicea, o la riflessione teologica e filosofica sull’eterna questione del perché un D. giusto permette che vi siano il male e la sofferenza in questo mondo. Stilisticamente il libro non appartiene al genere del lamento funebre puro, perché ampie sezioni sono dedicate all’individuazione delle cause che hanno condotto alla distruzione di Gerusalemme e alla preghiera per la redenzione. In generale l’autore, pur discostandosi in alcuni passi, ritiene che la punizione sia conseguenza di una colpa. La consolazione si trova solo rispetto alla vendetta nei confronti dei nemici, che si rallegrano per la disgrazia che ha colpito Israele. Non bisogna tuttavia sostenere che D. ha abbandonato Israele, dal momento che il Signore governa tutta la storia, e il nemico è pertanto uno strumento divino. La distruzione è conseguenza in modo particolare del comportamento della leadership politica e spirituale del popolo.
I commenti
Fra i commenti al libro merita una menzione particolare, per via del suo approccio, quello di Yosef Chayim di Baghdad (il Ben Yish Chay), Nechamat Tzion[10], nel quale, attraverso varie tecniche, individua un senso consolatorio nei versi della meghillah, basandosi su quanto è detto nel midrash (Waiqrà Rabbah 35,1): “se sarete meritevoli, volgerò per voi le maledizioni in benedizioni” e nello Zohar (Zohar Chadash, Parashat Ki tavò): “tutte le rassicurazioni e le consolazioni di Israele sono scritte sotto forma di maledizioni”. Quello che il commentatore deve fare pertanto, seguendo un metodo tradizionale, è trovare le promesse di salvezza nascoste nel testo. Il presupposto che anima il suo intento è quello dell’eternità del testo biblico. Infatti il lutto per la distruzione del tempio alla fine dei giorni non avrà senso alcuno, ed emergerà pertanto il senso nascosto, che richiama cose buone e benedizioni. Questo tipo di lettura richiama quanto i Maestri affermano nel trattato Meghillah (TB 14a), che c’erano numerosi profeti in Israele, e sono state conservate solamente quelle profezie che hanno un significato eterno, di certo più comprensibili per noi, che negli ultimi decenni abbiamo assistito a tanti eventi, che sino a pochi anni prima erano inimmaginabili. Rav Avi Geller narra che quando, nel giugno del 1967, l’esercito israeliano conquistò il Muro Occidentale, i soldati scoppiarono in lacrime. Avevano appena combattuto e vinto una sanguinosa battaglia, e furono i primi ebrei a toccare il Muro in quasi vent’anni. I soldati laici non capivano: il muro ha certamente un significato storico, ma si è mai sentito qualcuno piangere sulla Muraglia Cinese? Uno di loro allora iniziò a singhiozzare incontrollabilmente. Un compagno gli chiese perché piangesse, e il soldato rispose di non sapere cosa ci fosse da piangere al muro, e piangeva perché non gli veniva da piangere. Forse anche il mondo occidentale, che negli ultimi tempi misconosce continuamente, in barba alla tradizione e a almeno tremila anni di storia, oltre a quelle che sono anche le sue radici, il legame che il popolo ebraico ha con questa città, dovrebbe fare altrettanto.
“chi non ha visto Gerusalemme nella sua gloria non ha mai visto una bella città, chi non ha mai visto il Santuario costruito non ha mai visto un edificio splendido” (TB Sukkah 51b)
[1] Vedi P. M. Joyce e D. Lipton, Lamentations Through the Centuries, Wiley Blackwell 2013, p. 8.
[2] Vedi P. M. Joyce e D. Lipton, cit., p. 9.
[3] R. B. Salters, A critical and exegetical commentary on Lamentations, London 2010, p.2.
[4] AA.VV. Enziklopedia Miqrait (in ebr.), voce Ekhah, vol. 1, pp. 261-262.
[5] La posizione di Lohr viene esaminata e confutata nell’articolo di E. Assis The unity of the Book of lamentations, Catholic Biblical Quarterly 2009, pp. 306-329.
[6] G, Ricciotti, Enciclopedia italiana, 1933, voce Lamentazioni.
[7] Vedi P. M. Joyce e D. Lipton, cit., p. 32.
[8] AA.VV. Il libro delle Lamentazioni, sussidio per la XXIX giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, p. 12.
[9] AA.VV. Il libro delle Lamentazioni, sussidio per la XXIX giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, p. 8.
[10] Si segnala sul tema l’articolo di I. Paz, Ha-qinah nechamah – ‘yiun beferush Nechamat Tzion limghillat Ekhah meet ha-Ben Yish Chay (in ebr.), Ma’agalim 10, 5777, pp. 167-176, nel quale vengono riportati vari commenti del Ben Yish Chay alla meghillah.