Lezione al Seminario Arcivescovile Torino – 29/2
Il libro di Giona (Yonàh in ebraico) è il quinto dei dodici profeti minori (Terè ‘asar). I Profeti minori non vengono definiti così perché meno importanti, ma perché si tratta di testi molto più brevi di quelli dei profeti maggiori. Fra tutti i profeti tuttavia di certo Giona è quello che in assoluto ha avuto maggiore fortuna, in quanto la sua vicenda è molto conosciuta, anche in ambienti non religiosi. Elie Wiesel si chiede “era un profeta? Se lo è perché non c’è nessun riferimento ufficiale a un simile titolo? In ogni caso, un uomo che discute con D. non per salvare gli uomini, ma per punirli, che specie di profeta è?”. Nonostante ciò, fra tutti i quindici profeti, Maometto parla solo di Giona, “l’uomo del pesce”. Anche in ambito accademico sono stati dedicati a questo libro numerosi studi.
Rav Shimshon Refael Hirsch lo definisce un libro facilmente comprensibile da un punto linguistico, essendovi pochi termini astrusi o rari, ma molto più difficile da un punto di vista contenutistico. Josef Klausner (i Profeti, 1954) definisce il libro “una piccola grande perla che brilla nella corona d’oro degli scritti sacri”. Esistono varie raccolte di Midrashim su questo libro, raccolte nello Yalqut Shim’on’ì e nello Yalkut ha-Makirì, nei Pirqè derabbì Eli’ezer, e nel Midrash Yonàh, pervenutoci in almeno tre versioni differenti. Molti rabbini gli hanno dedicato un commento. Si tratta di un testo molto breve, composto da quattro capitoli e da soli 48 versi, che si distingue dagli altri testi profetici, perché è basato sul racconto di una storia. Il suo stile, pur facendo parte dei Profeti posteriori, è quello proprio dei Profeti anteriori. Possiamo contare nel libro sole cinque parole profetiche: “ancora quaranta giorni e Ninive verrà rovesciata” (Giona 3,4).
Questo ha favorito anche una sua affermazione nell’arte cristiana delle origini. La storia, effettivamente, per via delle sue immagini forti e ben definite, si presta ad essere rappresentata. La figura di Giona è stata intesa nell’iconografia variamente, come simbolo del fedele defunto e portato a nuova vita, o come l’annunciatore di un messaggio di misericordia. Anche nella letteratura moderna i temi e le immagini del libro di Giona sono ampiamente presenti: vari classici (ad esempio Robinson Crusoe, Il vecchio e il mare, Moby Dick, Pinocchio), a torto o ha ragione, sono stati presentati come una riproposizione della storia di Giona. Giona ebbe persino l’onore di essere citato nelle opere di Jung e di dare il nome ad uno stadio dell’esperienza della regressione, chiamato “complesso di Giona e della balena”. Notevole che in quel passo Jung citi non il testo biblico, ma un brano tratto dalla tradizione midrashica, tratto dai Pirqè deRabbì Eli’ezer: “Giona penetrò nella sua bocca come un uomo penetra in una grande sinagoga e si arresta. I due occhi del pesce erano come lucernari che davano luce a Giona. R. Meir disse: una perla era sospesa nelle viscere del pesce dando luce a Giona come il Sole a mezzogiorno, consentendogli di vedere tutto quello che c’era nel mare e negli abissi.
Nelle tenebre dell’inconscio è nascosto un tesoro: quello stesso tesoro difficile da raggiungere nel nostro testo, come anche in molti altri luoghi, viene descritto come perla luminosa, oppure come un mistero” (Jung, simboli della trasformazione). Tuttavia, rimanendo all’interno della tradizione ebraica, questo libro ha avuto il privilegio di essere stato scelto per essere letto come Haftaràh (brano profetico) nella tefillàh di Minchàh del giorno di Kippur, prima della chiusura della giornata con la tefillàh di Ne’ilàh. Scrive in merito Elie Wiesel: “l’accento è sul pentimento, che ha dominato il pensiero ebraico dalle sue origini, da Adamo e Caino. A differenza della mitologia greca, l’ebraismo rifiuta il concetto di fatalismo. Il destino non è inesorabile, le decisioni non sono mai irrevocabili… il male può essere fermato, deviato, vinto… Non si può modificare il passato, ma ci è dato il potere di plasmare il futuro… La lezione in Giona è che nulla è scritto, nulla è sigillato: la stessa volontà di D. può cambiare”.
La figura di Giona è citata anche in altri brani biblici, ad esempio in 2Re 14,25. L’appartenenza di Giona è oggetto di discussione: alcuni ritengono che provenga dalla tribù di Asher, altri da Zevulun. C’è chi, per armonizzare le due opinioni, ritiene che il padre venga da Zevulun e la madre da Asher. Secondo alcuni fu introdotto alla profezia da Elishà’. La storia si svolge durante il regno di Geroboamo II, nell’VIII sec A.E.V. All’epoca la città di Ninive era la capitale dell’Assiria. Il nome della città significa in ebraico “casa del pesce” perché la pesca era un’importante attività commerciale. Il suo simbolo era un pesce all’interno di una casa. Ciò è significativo anche per la storia di Giona, perché voleva sfuggire da un pesce, e fu inghiottito da un pesce. Il Tanakh già in Bereshit 10 testimonia sulla costruzione di Ninive, definita una grande città. Il Midrash loda il suo fondatore Ashur, per aver abbandonato i malvagi seguaci di Nimrod, fondando la città, poi premiata attraverso la chiamata profetica di Giona. In base a quanto risulta dagli scavi archeologici già nel 1800 A.E.V. Ninive era un importante centro di culto delle divinità babilonesi.
All’epoca di Giona non si trattava ancora di una grande potenza, ma sarebbe stata destinata a diventarlo presto, con l’ascesa al potere di Sancheriv (704-681), che provocò l’esilio delle Dieci tribù dal regno di Israele e assaltò Gerusalemme, senza successo, come narrato in 2Re 17-19, Isaia 36-37, 2Cronache 32. Secondo la tradizione araba la città di Ninive ospita la tomba di Yonàh. La città fu sconfitta e distrutta da una coalizione di Persiani e Babilonesi nel 612 A.E.V. Il Kaufmann ritiene che il racconto voglia presentare semplicemente un problema morale, così come avviene nel libro di Giobbe. La letteratura morale ebraica tende a svolgersi in un ambiente non ebraico; i protagonisti di Giobbe non sono ebrei, Abramo discute con D. sulla sorte di Sodoma, città non ebraica. Ninive non è la capitale dell’impero assiro o il simbolo del paganesimo, ma un paese qualsiasi, una città leggendaria.
I critici ritengono che il libro non sia stato scritto nell’VIII sec., sia per via di alcuni riferimenti contenuti nel testo, sia per lo stile, dal quale traspare una composizione tarda. Molte espressioni contenute richiamano il linguaggio utilizzato dai rabbini. Alcuni si spingono a tardarne la composizione sino al III secolo A.E.V, e non vanno oltre perché Giona è citato fra i profeti minori da Ben Sirà, che visse nel periodo del secondo Tempio. Secondo alcuni il libro è stato scritto nel periodo di Ezrà e Nechamiàh, in aperta polemica contro il particolarismo religioso allora imperante, per affermare l’uguaglianza di tutti i popoli di fronte al Signore. Il Kaufmann anticipa la datazione del testo sino al periodo in cui il profeta visse o poco dopo, considerando le idee contenute nel libro non in contrasto con il pensiero religioso di Israele che emerge dalla Bibbia. La tradizione talmudica non fornisce indicazioni sull’autore del libro.
L’unica indicazione è contenuta nel famoso brano in Bavà Batrà 15a, secondo il quale gli uomini della Grande assemblea operarono la canonizzazione del libro di Ezechiele, i 12 Profeti minori, Daniel ed Ester. Ma questo non significa che gli uomini della Grande assemblea scrissero questi testi. Semplicemente li inclusero all’interno del canone biblico, anche se contenevano delle espressioni problematiche, per via delle quali alcuni intendevano escluderli dal canone. Rashì nel suo commento ai Profeti minori segnala che per questi libri la questione era di natura differente: gli ultimi profeti Chaggai, Zekhariàh e Malakhì infatti intuirono che l’epoca della profezia si sarebbe chiusa con loro, e pertanto assieme ai loro libri inclusero altri libri profetici di piccoli dimensioni affinché non andassero persi. D’altro canto Rashì ritiene che in generale i libri profetici siano stati scritti dai profeti stessi prima di morire.
Quanto è narrato nel libro è reale? C’è chi ritiene di no, almeno in parte. Ad esempio Yosef Kaspi all’inizio del suo commento accenna all’opinione di alcuni secondo i quali il primo capitolo e parte del secondo descrivono una visione profetica. Sembra invece che i maestri del Talmud considerino quanto narrato come reale, tanto che nel trattato di Ta’anit (Mishnàh 2,4) viene riportata una benedizione che recita “colui che rispose a Giona nel ventre del pesce vi risponda ed ascolti la voce del vostro lamento”.
La storia ha inizio con l’ordine divino di recarsi a Ninive per portare agli abitanti un avvertimento, di pentirsi, perché altrimenti la città sarebbe stata distrutta nel giro di quaranta giorni. Giona, pur sapendo cosa fosse giusto fare, cerca di sottrarsi al comando divino. Giona si recò presso il porto di Yaffa, dove trovò una nave che lo avrebbe portato a Tarshish, in direzione opposta rispetto a Ninive, identificata con una località della Spagna o della Sardegna (ma vi sono anche altre teorie). Durante il viaggio però si scatenò una tempesta, e mentre tutti erano in preda al panico, Giona scese nel ventre della nave e cadde in preda ad un sonno profondo. I marinai erano convinti che D. volesse punire qualcuno sulla nave e svegliarono Giona, che confessò loro che stava sfuggendo al comandamento divino. Li invitò pertanto a gettarlo in mare, al fine di placare la tempesta. I marinai, che fecero ogni tentativo per risparmiarlo, si trovarono alla fine costretti a gettarlo in mare, e difatti in questo modo la tempesta si placò. Giona venne inghiottito da un grosso pesce, e rimase nel suo ventre per tre giorni e tre notti. Pregò D. di liberarlo, ed il pesce lo sputò sulla terra ferma. Giona si recò finalmente a Ninive, esortando gli abitanti a mutare condotta, ed in questo modo la città fu salva.
Da un punto di vista letterario la profezia di Giona è divisa nettamente in due parti: i primi due capitoli rappresentano una profezia non portata a compimento, mentre gli ultimi due vedono la realizzazione del comandamento divino. Le due parti sono simmetriche, e presentano all’inizio l’ordine del Signore, mentre al loro termine la misericordia divina sulle creature, prima su Giona, poi sugli abitanti di Ninive. Questa simmetria di fondo fra le due parti si manifesta anche scendendo maggiormente nei particolari. Sempre ragionando per unità, nei primi capitoli di ciascuna parte si verificano una serie di avvenimenti, mentre nei secondi capitoli è centrale quanto avviene nell’animo di Yonàh e la preghiera, paradossalmente una volta per aver salva la vita, una volta per morire ed impedire che Ninive venga salvata.
La missione di Giona nei confronti degli abitanti di Ninive, in una terra lontana e rivolta ad un popolo straniero, non si discosta da quanto sappiamo circa il ruolo dei profeti di Israele nei confronti delle altre popolazioni, anche se Rav Jacobson (Chazon ha-miqrà 2, pp. 380-381) nota come Giona abbia la particolarità, invero condivisa con altri profeti, di andare presso gli altri popoli per profetizzare. Già il profeta Geremia, che nella sua investitura era stato designato profeta per i popoli (Ger. 1,5), nella sua disputa con Chananiàh (Ger. 28), aveva segnalato tale predisposizione dei profeti d’Israele. Effettivamente già Isaia (cap. 13-23) aveva profetizzato per una lunga lista di popolazioni, ed anche nello stesso libro di Geremia (cap. 46-51) troviamo profezie rivolte ad altre nazioni. Ezechiele (cap. 25-33) ed ‘Amos (cap. 1-2) si erano rivolti ai vicini di Israele. Il profeta ‘Ovadiàh aveva profetizzato su Edom, mentre Nachum si era rivolto alla stessa Ninive. Lo stesso può dirsi degli altri profeti minori, all’infuori di Oshea’, dove non troviamo in alcun modo accenno alle altre popolazioni. Nel libro di Giona non troviamo invece alcun accenno al popolo d’Israele. Questo porta Radaq a chiedersi, aprendo il suo commento, perché questo libro sia stato inserito nel canone biblico. L’unico riferimento ad Israele lo troviamo nella risposta che Yonàh fornisce ai marinai, che lo interrogavano sulla sua identità. Giona risponde di essere ebreo, e di temere il Signore del cielo.
Anche il rifiuto da parte di Giona non costituisce una novità: anche se Giona è l’unico a fuggire, già in precedenza Moshèh (Esodo 3) e Geremia (Ger.1) avevano rifiutato l’incarico destinato loro dal Signore (Shemot Rabbàh 4,3). Ulteriore differenza è che il rifiuto di Moshèh e Geremia era dettato dalla considerazione di non essere adatti per ricoprire l’incarico, Giona invece non condivide il messaggio che avrebbe dovuto riferire. L’atteggiamento di Giona è molto strano, e di ciò si era già stupito Avraham ibn ‘Ezrà all’inizio del suo commento: come è possibile che un sapiente, che aveva conoscenza del Signore e delle sue opere, pensi che si possa scappare da Lui?
Durante la fuga di Giona, siamo impressionati dai marinai, che mostrano, nel pieno della tempesta, una grande umanità. Il loro comportamento è sconvolgente, rispetto a quanto ci saremmo aspettati, sia nei rapporti interpersonali che in quelli con la divinità. In un momento di profonda crisi, durante la tempesta, quando di solito i nervi sono i primi a saltare, dimostrano una grande unità. Anche da un punto di vista stilistico abbondano in quei versi le particelle relazionali, a dimostrazione della ricerca sistematica del contatto umano da parte loro. Anche il loro atteggiamento nei confronti di Giona, che nel bel mezzo della tempesta non trova di meglio che dormire, fa riflettere perché avrebbero avuto tutte le ragioni per arrabbiarsi con lui e punirlo. Difatti dall’ordine dei versi è possibile ricavare che Giona si assopì dopo che i marinai iniziarono i tentativi per salvare la nave. Scrive Dante Lattes (I profeti, p. 302): “Il quadro di quella gente primitiva e della vicenda drammatica che stava attraversando è molto affascinante nella sua semplicità e nella sua ingenua veridicità. L’arte del narratore, così priva di artifizi, riesce a farci penetrare nell’anima di quella ciurma, dai sentimenti e dai costumi pagani, e di farcene apprezzare tutta la grande umanità. La maniera cortese, il rispetto della vita altrui, il sentimento religioso di cui fan mostra, rendono quei rozzi marinai degni di ammirazione. E’ il quadro di un’umanità ideale, in cui non ci sono differenze di fede, di nazionalità, di razza, di lingua, ed in cui il nome di ebreo suscita rispetto e il nome del Dio del Cielo che egli adora desta venerazione e timore”. Ibn ‘Ezrà nel suo commento (3,3) scrive persino, sebbene non vi siano riferimenti espliciti nel testo, che i marinai si recarono a Ninive per portare il messaggio di Giona, e questa fu successivamente la chiave del successo di Giona. Secondo il Midrash addirittura, terminata la tempesta si convertirono all’ebraismo. Più in generale i non ebrei nella storia mostrano tratti eccezionali, il timore di D. per i marinai, la fede per gli abitanti di Ninive, che richiamano i termini utilizzati dalla Toràh nei confronti del popolo ebraico ai tempi dell’apertura del Mar Rosso.
Possiamo individuare nei marinai, istruiti da Giona, un percorso di fede. Infatti inizialmente pregano le loro divinità, e chiedono a Giona di fare altrettanto con la propria, e dal racconto di Giona, assieme agli eventi che stavano vivendo, comprendono l’esistenza della provvidenza individuale.
Come spiegare l’atteggiamento di Giona? Perché rifiuta di adempiere alla missione divina? Lo apprendiamo solo dalla fine della storia, quando gli abitanti di Ninive si vestono di sacco e digiunano, ottenendo il perdono divino. Giona rimane irritato da questa decisione. Ma perché fuggire? Se la decisione di D. era questa, si sarebbe compiuta indipendentemente dai comportamenti di Giona. Secondo il Midrash Giona fuggì per via di una sua esperienza precedente. Fu mandato difatti ad annunciare la distruzione di Gerusalemme, ma il popolo si pentì ed il Signore annullò il decreto. Da allora i figli di Israele lo considerarono un falso profeta. Quando fu incaricato di andare a Ninive, Giona comprese che gli abitanti si sarebbero pentiti, e lui sarebbe stato un falso profeta anche per le altre popolazioni. Ma probabilmente, fuggendo, Giona persegue un altro scopo: quello di concretizzare il suo desiderio di morire. Lo dirà esplicitamente nel cap. 4, quando avrà compiuto la sua missione, e lo ripeterà quando si seccherà il ricino che gli aveva dato momentaneamente sollievo. Secondo il Midrash (Otzar ha-midrashim, p. 217) vi è un legame fra l’esperienza di Giona nella pancia del pesce ed il ricino. Difatti, per il gran caldo, dovuto presumibilmente ai succhi gastrici, nel ventre del pesce, gli si erano bruciati i vestiti e tutti i peli del corpo, e la sua pelle era divenuta estremamente sensibile al caldo, oltre ad essere tormentata da vari insetti, tanto da desiderare di morire. L’unico sollievo era costituito dal ricino.
E’ possibile però dare anche una lettura storica della fuga di Yonàh. Come abbiamo visto difatti gli Assiri erano destinati a distruggere il regno di Israele, e Giona non voleva essere causa della disgrazia del popolo ebraico (Abravanel su Giona 1,3).
Come dobbiamo considerare Yonàh? Se dovessimo giudicarlo per via del suo comportamento nel libro, dovremmo forse ritenerlo un malvagio (Hirsch), ma bisogna essere molto cauti, perché nel libro dei Re Giona è definito “il Suo servo”, epiteto che viene attribuito a pochissime personalità nella Bibbia. Secondo Hirsch la storia narrata rappresenta la prima esperienza profetica di Giona, quando non aveva ancora acquisito tutte le caratteristiche necessarie per profetizzare, oltre alla sapienza, in modo particolare la gioia. Secondo Hirsch c’è una legame molto stretto, non solo linguistico, fra simchàh e tzemichàh, gioia e fioritura, e la gioia costituisce una fioritura a livello spirituale. Il Talmud Yerushalmì (Sanhedrin 11,8) dice che “ Giona, figlio di Amittai, era un vero profeta”. Lo Zohar (1,121a) sostiene persino che Giona per via delle sue sofferenze, in particolari quelle negli abissi marini, entrò vivo in paradiso.
Il messaggio del libro di Giona è quello dell’enorme del valore della teshuvàh sia individuale che collettiva. Gli abitanti di Ninive esplicitano il loro intento con il pensiero, le parole e l’azione. La ghemarà nel trattato di Ta’anit (16a) li assurge a modello: “non il sacco ed il digiuno portano a delle conseguenze, ma il pentimento e le buone azioni, poiché così abbiamo trovato per gli uomini di Ninive”. Il loro pentimento fu totale, tanto che “anche se avevano rubato una trave e vi avevano costruito una torre, distruggevano tutta la torre per restituire la trave ai proprietari”. Nella ghemarà in Rosh ha-Shanàh (16b) dagli abitanti di Ninive si impara che il cambiamento di comportamento è uno dei quattro elementi che hanno la capacità di alterare il destino dell’uomo. Altro elemento fondamentale è che la benevolenza divina si esercita sull’umanità intera, e non solo sul popolo ebraico. La repentina teshuvàh dei non ebrei, che hanno ascoltato immediatamente le parole del profeta, deve servire da monito per il popolo ebraico (Radaq su Giona 1,1). Cinque parole sono state sufficienti per rivedere completamente il loro comportamento. Questo è il motivo per cui questo libro è stato inserito fra i libri profetici, pur trattandosi di un testo che si svolge in una cornice quasi completamente non ebraica (Chidà in Nachal Shureq). Giona non accettava che gli abitanti di Ninive se la cavassero con qualche giorno digiuno, ma, come dice il profeta Isaia (55,8) “I Miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le Mie, dice il Signore”. Secondo un’altra visione Giona invece era convinto che gli abitanti di Ninive si sarebbero pentiti, ma nonostante questo cercò di fuggire, perché in questo modo avrebbe accusato Israele, insensibile ai numerosi richiami dei profeti. Buber vede nel libro l’esempio più caratteristico dell’essenza e della funzione del profetismo e la dimostrazione dello scopo che la predicazione profetica si proponeva, che non era quello di portare una sentenza irrevocabile, ma di ridestare la capacità di decisione dell’uomo o di un popolo, in un dato momento della storia. Scrive Elie Wiesel: “l’aspetto più commovente del libro è la sua fine, o piuttosto la sua mancanza di fine. D. indica la pianta morta e fa a Giona la famosa e ingiusta domanda “tu provi dispiacere per la pianta e non vuoi che Io provi dispiacere per Ninive e il suo popolo e i suoi animali?”… Il libro finisce con la parola di D. il che è più che naturale: D. si assicura sempre di avere l’ultima parola. Ma, caso unico, il libro finisce con una domanda, e questo è ciò che ci lascia stupiti e profondamente commossi. Quanti altri libri sacri ed eterni, ispirati e ispiranti, non hanno come ultima frase né un’affermazione né un ordine, e neanche una dichiarazione, ma hanno semplicemente una domanda?”.
Bibliografia
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B. Gezundeith, ‘Iunim besefer Yonàh (ebr.)
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