Lezione presso Azione Cattolica – Torino
Il profetismo e la letteratura profetica sono fra i fenomeni religiosi di maggiore portata nella storia religiosa di ogni tempo. Con la profezia la fede ebraica raggiunge un nuovo apice[1].
Sotto certi aspetti si può dire che gran parte della tradizione scritta contiene delle profezie, sin dal momento in cui Adamo interagisce con D. Sotto altri punti di vista il periodo della profezia inizia con quello che, secondo l’affermazione della Torah è il massimo profeta, Mosheh. Secondo un’altra visione si ha l’esordio della profezia quando Shemuel unge il re Shaul. Secondo la definizione popolare la profezia nasce nell’VIII sec. a.e.v. con figure come Oshea’, ‘Amos, Mikhah, Yesha’iahu. Ciascuna di queste visioni delle cose contiene degli aspetti veritieri[2].
I libri profetici apparentemente sono semplici e comprensibili, anche ai profani, ma “Isaia medesimo paragona, in un passo molto notevole, la profezia ad un libro suggellato, per intendere il quale non è sufficiente saper leggere (Is. 29,11-12)… il senso delle parole è per lo più negli scritti profetici semplice; ma il lettore prova di fronte ad esse due sensazioni: o quello che vi è detto gli pare ovvio, per nulla straordinario o importante, oppure gli sembra inconcepibile, poiché egli non sa che cosa il profeta voglia, a che cosa alluda, quali fatti o circostanze abbia in mente[3]”.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi volti a mostrare le analogie e le differenze fra il profetismo ebraico e quello egiziano, mesopotamico e di Mari, in seguito a scoperte che hanno ampliato notevolmente il materiale a disposizione degli orientalisti. L’esegesi, confrontandosi con il fenomeno del profetismo nel suo complesso, non ha dato luogo a sviluppi particolarmente significativi, cercando principalmente di liberarsi di quei presupposti, teologici e filosofici, che hanno fatto, di volta in volta, dei profeti dei rivoluzionari, dei detentori della tradizione, degli innovatori religiosi[4].
Nella tradizione ebraica alla seconda parte del Tanakh[5], i Neviim, appartengono i Neviim rishonim (Profeti anteriori) e i Neviim acharonim (Profeti posteriori). I Neviim rishonim comprendono i libri di Giosuè, Giudici, Samuele (I e II) e Re (I e II), i profeti posteriori Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici Profeti minori.
La distinzione fra profeti maggiori e minori non discende da un giudizio di valore, ma semplicemente dall’estensione dei libri presenti nella raccolta. I libri dei profeti minori contengono pochi capitoli, se rapportati ai maggiori[6].
La fonte principale sull’ordine dei testi che rientrano nel canone è il famoso brano della ghemarà nel trattato Bavà Batra, (foglio 14). In quel passo il libro di Isaia è menzionato dopo Geremia ed Ezechiele, e precede i dodici profeti minori.
Le differenze con il canone cattolico sono il libro di Daniele (nel canone ebraico presente nei Ketuvim), le Lamentazioni di Geremia (ancora contenute nei Ketuvim) e il libro di Baruch (assente nel canone ebraico). Inoltre il canone cattolico pone i libri profetici subito prima del Nuovo testamento, dal momento che le profezie in essi contenuti sono considerate prefigurazioni di quanto viene narrato successivamente.
Nella liturgia durante i sabati e le feste, alla lettura del brano settimanale della Torah (parashah) è affiancato un brano profetico (haftarah), tratto dai Profeti anteriori o posteriori. L’introduzione di questa usanza risale ai tempi di Antioco, quando venne vietata la lettura della Torah, ma non quella dei libri profetici. In sostituzione della lettura della Torah si stabilì di leggere un numero di versi pari ad almeno tre per ciascun chiamato a leggere, e quindi ventuno versi di Shabbat, quindici nelle feste, nove nei digiuni. Quando il decreto decadde, venne stabilito di mantenere la lettura della Haftarah, introducendo una serie di norme per evidenziare la maggiore importanza della Torah rispetto ai libri profetici[7]. La differenza principale è che la lettura della Torah è integrale, in un ciclo annuale o triennale (quest’ultimo caduto ormai in disuso), mentre per i libri profetici viene effettuata una lettura antologica, scegliendo di volta in volta un brano legato in qualche modo con quanto letto nella Torah[8]. Questa scelta mostra in modo abbastanza evidente quale sia la considerazione per i libri profetici all’interno della tradizione ebraica. Questi non forniscono un messaggio contraddittorio rispetto a quello della Torah, ma intendono spiegarla e trasmetterla. Nella prima Mishnah del Pirqè Avot viene illustrata la catena della trasmissione della tradizione; i profeti sono un anello della catena, che garantisce fra la continuità fra Mosheh e i Chakhamim.
Circa i tempi in cui i profeti operarono “La Bibbia ebraica distingue chiaramente tre periodi nella storia della profezia: uno più antico, che inizia con la fondazione dello Stato e dura fino alla fine del sec. VIII; un secondo che inizia col sec. VIII e termina dopo l’esilio del 587/86-539; ed infine quello dalla terminazione dell’esilio fino all’esaurimento del movimento un secolo o due più tardi[9]”.
La profezia letteraria o classica si sviluppa in un arco di tempo di circa tre secoli, nascendo a metà dell’VIII sec. A.e.v. con il tramonto del regno di Israele, contemporaneamente nel regno di Israele e di Giuda.
I primi profeti furono ‘Amos e Oshea, l’ultimo Malakhì. In generale, quando si parla di questi profeti, vengono definiti profeti-scrittori. I loro testi corrispondono ai Profeti posteriori del canone biblico[10].
Una domanda annosa è costituita dalla ricerca del motivo dell’interruzione della profezia in Israele[11]. E’ evidente che la tradizione rabbinica a posteriori ha fissato un limite nel periodo di Ezrà e Nechemiah, ma ancora, ai tempi del Secondo Tempio, Giuseppe Flavio e il Nuovo Testamento segnalavano la comparsa sulla scena di figure profetiche che venivano accettate in quanto tali da ampie fasce della società. Il Talmud (Sanhedrin 11b) individua in Chaggai, Zekhariah e Malakhì gli ultimi profeti. Questa idea è comunemente accettata nei testi rabbinici. L’assenza della ruach ha-qodesh è considerato uno degli elementi che differenziano il periodo del Primo Tempio da quello del Secondo (vedi TB Yomà 21b). Viene riconosciuto inoltre un passaggio nella leadership religiosa dai profeti ai sapienti, che divengono quindi i principali interpreti della legge. Viene tuttavia ammesso che la profezia possa essere ristabilita. Ciò emerge chiaramente dagli ultimi versi del profeta Malakhì, quando si preannuncia che la venuta del Messia sarà preceduta dal ritorno del profeta Eliahu. E’ riconosciuto pertanto che l’era messianica vedrà il riaffacciarsi di manifestazioni profetiche. E’ naturale quindi, nei periodi della storia ebraica in cui l’attesa messianica si fa più vigorosa, trovare personaggi che si proclamano o vengono riconosciuti come profeti.
I profeti assistettero ad eventi cruciali della storia ebraica. In generale si può dire, e questo è l’aspetto maggiormente caratterizzante del loro messaggio, che i profeti hanno attribuito i principali fenomeni, storici, economici e religiosi della loro epoca alla volontà divina, invitando i propri contemporanei a condividere la loro comprensione di tale volontà, modificando di conseguenza il proprio comportamento[12].
Le loro profezie riguardano la punizione e la caduta del Regno di Israele, la punizione e la distruzione del Regno di Giuda; consolano il popolo durante l’esilio babilonese e lo incoraggiano a rialzarsi all’inizio del periodo del Secondo Tempio. Ammoniscono amaramente il popolo, tanto da essere coinvolti in contese ed essere perseguitati e colpiti. Ma il popolo ha reso le loro parole parte della propria vita, e i loro scritti sono stati accostati alla Torah di Mosheh[13]. Un tema sviluppato in modo significativo è quello del confronto con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, che nella Torah, pur non venendo esplicitamente menzionato, aveva un ruolo centrale.
Il termine greco profetes, è già attestato nel greco classico da Pindaro ed Erodoto (per quest’ultimo indica un funzionario del tempio). Traduce il termine ebraico navì, e a volte termini come chozeh e roeh. Il termine navì, che ricorre oltre trecento volte nel testo biblico (non il sostantivo astratto, molto raro), viene ad indicare una vocazione da parte della divinità; troviamo una eccezione significativa, in Es. 7,1, dove Aharon è navì di un essere umano, Mosheh. Il termine è usato la prima volta parlando di Abramo (Gen. 20,7). Dal V sec. a.e.v. il termine profeta indica ‘chi annuncia’, ‘chi proclama qualcosa’. La preposizione pro- viene a sottolineare anzitutto la posizione nella quale il messaggio viene dato, davanti a qualcuno, sia esso un gruppo, un’assemblea, una persona. Almeno originariamente l’accezione cronologica, di comunicare qualcosa prima che l’annuncio si adempia, è estranea al termine[14], e non è comunque caratteristica dei profeti biblici: “questi annunciano raramente il futuro vero e proprio, ed allora in termini vaghi, generici e spesso idealizzati; si concentrano invece sull’interpretazione del passato e del presente, e per il presente proclamano la volontà divina… Il concetto invece che sta alla base della pretesa funzione futurologica del profeta proviene non dalla Bibbia ebraica, ma dall’Apocalittica intertestamentaria e dai due libri apocalittici canonici[15]”. Questa seconda accezione costituisce una differenza fondamentale e irriducibile nella considerazione del fenomeno profetico nel mondo ebraico e in quello cristiano, che vede nelle profezie bibliche delle anticipazioni che si compiranno successivamente; spesso, anche nel mondo ebraico, nelle varie generazioni si sono cercati nei testi profetici riferimenti ad eventi futuri.
Neher, parlando del profeta, scrive: “egli annuncia un destino latente, muovendo proprio dalla dinamica alternativa dell’ora presente e, al tempo stesso,riferendosi ad essa. Nella dimensione temporale che la parola gli apre non vi è alcun futuro stabilito e perciò suscettibile di predizione: nel suo parlare egli si situa sempre in quel punto del tempo in cui il destino si decide, e a tale decisione partecipano, con la loro decisione, le persone lì, davanti a lui. Con il suo annuncio della parola, egli le pone di fronte alla decisione tra la via e le vie. E quando sembra che egli preannunci con la massima precisione una sventura inevitabile il cui tempo è fissato, rimane ancora spazio per il ‘Chissà!’ dei Niniviti (Giona 3,9), aperto nonostante tutto alla speranza; rimane spazio per la conversione dell’uomo dalle sue vie alla via di D., e per la ‘conversione’ di quest’ultimo alla grazia[16]”. Le previsioni dei profeti a volte si avverano, ma si deve considerare che la missione dei profeti è anzitutto educativa, come mostrano proprio le predizioni che non si avverano, dal momento che l’intervento educativo è stato coronato dal successo[17]. Il profeta è al contempo veggente e vedetta: “ha visioni per poter avvertire il popolo di ciò che l’attende; non può mutare le azioni del popolo, che è in pieno possesso del suo ‘libero arbitrio’, altro che con la persuasione, con la forza delle argomentazioni con cui tenta di convincerlo a seguire le vie del Signore… E poiché in sostanza il compito dei Profeti è quello di influenzare e di educare, essi concentrano i loro sforzi sempre su quegli argomenti dei quali il popolo ha più necessità in quel dato periodo[18]”.
I messaggi dei profeti rientrano in vari generi letterari: la parola del messaggero, l’invettiva o rampogna, la minaccia, l’annuncio del giudizio, e la Torah, l’ammaestramento, l’insegnamento in forma oracolare o catechetica… Lo studioso della profezia biblica deve quindi confrontarsi con una difficoltà iniziale: nella Bibbia ebraica navì e derivati indicano funzioni ed istituzioni che il nostro modo di pensare vorrebbe mantenere distinte, mentre i libri biblici le accomunano sotto una medesima terminologia[19].
Da un punto di vista stilistico Cassuto scriveva: “I profeti non si prefiggono intenti letterari e i pregi di stile non sono da loro coscientemente ricercati, ma l’acceso entusiasmo che agita il loro cuore dà al loro spontaneo eloquio una vigorosa efficacia, una grande elevatezza di tono e un alto valore anche estetico. Perciò i loro discorsi tengono di solito più della poesia che della prosa, e talvolta sono vere e proprie composizioni poetiche[20].
Gli studiosi hanno avanzato varie ipotesi, nessuna delle quali soddisfacente, per caratterizzare unitariamente il fenomeno profetico: il Wellhausen aveva sottolineato il trionfo dell’elemento razionale ed etico su quello rituale; Holscher, Mowinckel e Haldar hanno sottolineato il legame dei profeti con i Santuari, fatto riscontrabile in alcuni casi, ma non universale; il Robinson ha letto il profetismo principalmente in termini di estasi[21]. E’ molto difficile raggiungere una definizione che esaurisca tutti gli esempi che incontriamo nel canone biblico, dal momento che può dirsi profeta chi comunica con il divino (comprendendo quindi personaggi che non immagineremmo, come Avimelekh, Lavan, Bil’am, persino il serpente!), chi Lo rappresenta (come Avraham, che viene definito un navì, anche se nell’episodio in questione non riceve alcuna profezia), chi ne porta il messaggio, chi fissa le norme in Suo nome (in questo senso Mosheh è unico), chi investe i re di Israele (figura inaugurata da Shemuel, che con il passare del tempo avrebbe assunto un’accezione negativa, in quanto riferita a profeti collusi con il potere regale), chi si oppone al potere regale (in questo senso sono notevoli le figure di Eliah ed Elisha’). Tutte queste manifestazioni del fenomeno profetico sono presenti in differente misura nei Profeti Anteriori. Questi profeti hanno molto da fare e poco da scrivere. Con la minaccia assira, a metà dell’VIII sec., il quadro si modifica totalmente e subentrano dei profeti, la cui leadership si manifesta per mezzo della persuasione e della retorica. I momenti di espressione più copiosa riguarda naturalmente i momenti in cui la tragedia nazionale, con la caduta prima del Regno di Israele, poi di Giuda, incombe. I profeti, con le loro parole, intendono salvare il popolo dal proprio destino. L’ultima fase è quella della consolazione e della ricostruzione dopo la distruzione del Tempio. Il tono di questi ultimi profeti è molto diverso da quello dei loro predecessori, ma è naturale che sia così. Il messaggio profetico infatti è spiazzante: nel momento dell’abbondanza si concentra sulla corruzione del potere, quando si è in difficoltà, richiama alla speranza e ricorda l’alleanza con D.[22]
I profeti sembrano non avere delle caratteristiche naturali, fisiche o spirituali, che giustifichino la loro scelta. Non profetizzano se non per la misericordia divina, e non sanno altro che ciò che il Signore rivela loro o mostra. Non possiedono strumenti tecnici per svelare la volontà divina[23]. E’ chiaro pertanto che non esistano “scuole” profetiche. Vi sono tuttavia dei casi in cui un “allievo” di un profeta (Yehoshua’, Elisha’) profetizza a sua volta[24]. Il fenomeno del profetismo è in ogni caso dirompente, spazzando via le barriere di genere (c’erano anche delle profetesse), culturali (i profeti non facevano parte necessariamente dell’intellighenzia), sociali (c’erano profeti legati alla corte, come Yesha’aiah, altri piccoli proprietari terrieri, come ‘Amos, altri semplici contadini, come Mikhah), religiose (il profeta spesso non era un sacerdote), di età (alcuni profeti, come Samuele all’inizio della sua missione, sono appena dei ragazzi).
Circa le modalità attraverso le quali la profezia avviene, è importante sottolineare a livello preliminare che il profeta non è risucchiato nell’estasi, spogliato della propria individualità, bensì mantiene il proprio Io, ha delle visioni o ascolta delle voci, prova delle sensazioni molto forti, alle quali dà espressione per mezzo delle proprie parole, pur essendo ispirato dalla divinità[25].
In generale sono individuabili due visioni della profezia, una che sottolinea il ruolo passivo del profeta, l’altra che evidenza la sua portata eminentemente attiva. Nella profezia passiva il profeta si fa portatore di un messaggio, che a volte non comprende a pieno. In alcuni casi la coscienza e l’apparato razionale del profeta vengono coinvolti, e il profeta elabora e formula le informazioni prima di trasmetterle. Il profeta non è più un semplice ripetitore; a volte è persino chiamato a decodificare il messaggio, che appare inizialmente enigmatico e altamente simbolico.
Il tema della profezia interessa significativamente i filosofi ebrei medievali. Ad esso Maimonide dedica una parte significativa della sua principale opera filosofica, La guida dei perplessi (II, 32-46). Maimonide, così come altri filosofi e teologi, si concentra sul ruolo attivo del profeta, sottolineando il suo livello intellettuale fuori dal comune. L’ispirazione in tal caso non arriva solo dall’alto, e per raggiungere il livello della profezia è necessario un duro esercizio, che porta l’acquisizione della perfezione razionale e morale oltre allo sviluppo al massimo livello della facoltà immaginativa[26]. Maimonide, per via della sua visione, ritiene, al contrario di Yehudah ha-Levì, che i profeti non debbano necessariamente fare parte del popolo ebraico. Rimane tuttavia che il profeta non può dare insegnamenti che siano in contrasto con la Torah, così come emerge dall’Epistola allo Yemen. Entra in polemica anche con i mondi cristiano e islamico, quando nel Mishneh Torah (Hilkhot Yesodè ha-Torah, cap. 10) scrive che il profeta non può stabilire una nuova religione, né abrogare i comandamenti della Torah o aggiungerne dei nuovi.
Per mezzo dell’ispirazione profetica l’uomo, sorpreso dallo spirito divino, diviene anzitutto diverso, in un quadro in cui la sua alterità non si realizza nei confronti degli altri uomini, ma nel suo non essere più solo. L’uomo non diventa profeta singolarizzandosi, ma comunicando; il profeta diviene tale perché diviene partecipe della vita di D.[27]. Il rapporto che si instaura fra D. e il profeta è così illustrato da ‘Amos (3,3-8): “Potrebbero due camminare insieme se non si fossero prima incontrati? Rugge forse il leone nella foresta se non ha preda? Emette forse il leone la sua voce dalla sua tana se non ha predato? Cade forse l’uccello nella rete se non gli è stato teso un laccio? Sale forse la tagliola dalla terra se non ha preso qualche cosa? Può il popolo non spaventarsi se si suona lo sciofar nella città? Può esservi una sventura nella città se il Signore non ne è l’autore? Ma il Signore non fa nulla senza svelare la Sua decisione ai Suoi servi, ai profeti. Il leone rugge, chi non avrà paura? Il Signore D. parla, chi non profetizzerà?”.
Secondo Neher l’elemento centrale del mistero della profezia è la ruach, pneuma in greco, spirito in italiano. Tutte le personalità bibliche superiori sono ispirate: “la loro energia proviene dalla ruah che D. depone o esalta in esse[28]”. Tale ruach si evolverà sino a divenire la ruach ha-qodesh, spirito santo, che il giudaismo rabbinico e il cristianesimo introdurranno[29].
Il profeta si mostra anzitutto un inviato divino. Non attende una sollecitazione esterna, ma agisce autonomamente, sollecitato dalla divinità[30]. Quando parla non si avvale di documenti, come farebbe uno storiografo, né dell’esperienza umana in generale, come farebbe un sapiente.
Abba Eban scriveva[31]: “il movimento profetico è l’espressione più originale e potente del pensiero ebraico. Ebbe essenzialmente un carattere religioso, ma trascese la moralità ritualistica e convenzionale tanto da diventare una durevole filosofia di condotta individuale e sociale”. Nonostante tutte le diversità che caratterizzano le sue particolari fasi ed espressioni, il pensiero profetico ha una sua fondamentale unità e coerenza. Possiede inoltre un’importanza che va oltre i fattori temporali che contribuirono alla sua formazione[32]”.
Il profeta è un personaggio pubblico, è per definizione in contatto con gli altri. Non può ritirarsi in un luogo tranquillo, o ridursi allo spazio del Tempio. Il suo luogo è la pubblica piazza, in cui avverte tutti i problemi che affliggono la società. La politica, la povertà e il lusso, il disinteresse di alcuni sacerdoti lo riguardano pienamente. Il rapporto con la collettività è tormentato: nella migliore delle ipotesi avviene quanto viene detto ad Ezechiele (33, 31-33): il popolo accorre in massa e sente le parole del profeta, ma non le mette in pratica; queste parole divengono come canzoni d’amore sulla loro bocca, e il loro cuore segue la cupidigia. Altre volte troviamo situazioni ben più difficili, ad esempio Osea viene considerato un pazzo, Geremia un traditore della patria e viene imprigionato. Scrive Rav Laras: “Il profeta è un personaggio tragico che vive in modo drammatico la chiamata o investitura divina, pagando spesso di persona, in termini di sofferenza e angoscia, per questo suo dover predicare verità scomode e impopolari, per questo suo non potersi abbandonare all’acquiescenza, alla cecità, all’oblio[33]”.
Parlando della concezione della divinità dei profeti Heschel premette: “I profeti non avevano ‘teorie’ o ‘idee’ d D. Ciò che avevano era una comprensione. La loro comprensione di D. non era il risultato di uno studio teorico, di un andare a tentoni tra alternative sull’essenza e gli attributi di D. Per i profeti D. era reale in maniera travolgente e la sua presenza era schiacciante. Non parlarono mai di lui con distacco. Vissero come testimoni, colpiti dalle parole di D., più che come investigatori impegnati ad accertare la natura di D.; i loro discorsi costituivano una liberazione da un peso più che barlumi percepiti nella nebbia dell’incertezza… Per i profeti gli attributi di D. erano impulsi, sfide, comandamenti, piuttosto che nozioni fuori dal tempo, staccate dal suo essere. Essi non offrirono un’interpretazione della natura di D., bensì un’interpretazione della presenza di D. nell’uomo, della sua sollecitudine per l’uomo. Essi svelarono atteggiamenti di D. più che idee su D. … Il pathos di D. non è stato concepito come una specie di stato febbrile della mente che, ignorando i principi di giustizia, culmina in un’azione irrazionale e irresponsabile. La Bibbia insiste continuamente che in tutte le sue vie c’è giustizia. Non esiste dicotomia tra il pathos e l’ethos, tra motivo e norma… Siccome D. è la sorgente di giustizia, il suo pathos è etico… D. si occupa del mondo e ne condivide il destino. Questa è la reale essenza della natura morale di D.: la sua disponibilità a lasciarsi coinvolgere intimamente nella storia dell’uomo[34]”.
La relazione fra D. e gli uomini modifica sensibilmente l’immagine dell’uomo: “Mai nella storia l’uomo è stato considerato con rilevanza paragonabile a quella presente nel pensiero profetico. L’uomo non solo è un’immagine di D.; egli è l’eterna premura di D. L’idea di pathos aggiunge una nuova dimensione all’esistenza umana. Tutto ciò che l’uomo fa influisce non solo sulla sua vita, ma anche su quella di D., nella misura in cui è rivolta all’uomo. Il valore dell’uomo eleva l’uomo al di sopra dello stadio di semplice creatura. Egli è un compagno, un partner, ha un ruolo attivo nella vita di D.[35]”.
“Il profeta- chiamato ‘uomo di D.’ perché, dal momento della chiamata, non apparterrà più a se stesso, dato che, da quel momento in poi, sarà costretto a dire e a fare cose che, altrimenti, mai direbbe o farebbe per le conseguenze che gliene deriverebbero – è un uomo che improvvisamente abbandona la propria famiglia, la propria casa ed il proprio lavoro… per dedicarsi, anima e corpo, ad una missione impostagli dall’alto (si pensi a Geremia che arriva a maledire il giorno in cui nacque, tanta è la sofferenza che gli deriva dall’investitura a profeta), missione che deve compiere senza indietreggiare o tergiversare, specie al cospetto dei potenti e dei violenti[36]”.
[1] Y. Kaufmann, Toledot ha-emunah ha-israelit, vol. 3, Gerusalemme-Tel Aviv 1963, p. 6.
[2] Rav Y. Etshalom, Introduction to the Prophets, etzion.org.il/shiur-01-introduction-prophets.
[3] C. E. Cornill, I profeti d’Israele, Bari 1923, p.1-2.
[4] P. Rota Scalabrini, Libri profetici, www.teologiamilano.it/teologiamilano/allegati/68/Rota-Scalabrini.pdf.
[5] Acronimo di Torah (Pentateuco), Neviim (Profeti), Ketuvim (Agiografi).
[6]Il libro di Isaia conta 66 capitoli, Geremia 52, Ezechiele 48. I profeti minori complessivamente 67.
[7] Per le regole relative alla haftarah, riportate in maniera schematica, vedi N. Hoffner, Sefer Halakhah, Dinè Qeriat ha-Torah, Tel Aviv 1992, pp. 272 e ss.
[8] G. Rizzi, I libri profetici in A. Merlo (a cura di), L’Antico Testamento, Roma 2014, p. 197.
[9] J. A. Soggin, cit. p. 282.
[10] Y. Kaufmann, cit., p. 1.
[11] Per una bibliografia sul tema vedi D. D. Sommer, Did Prophecy Cease? Evaluating a Reevaluation, Journal of Biblical Literature 115, 1, p. 31 nota 2. La questione era stata nuovamente posta nel 1946 da E. Urbach in un articolo, When Did Prophecy Cease?, apparso su Tarbiz 17, p. 1-11.
[12] M. A. Sweeney, The Latter Prophets and prophecy in , S. . Chapman, M. A. Sweeney (a cura di), The Cambridge Companion to Th eHebrew Bible/Old Testament, p. 233.
[13] Y. Kaufmann, cit., p. 1.
[14] Vedi J. A. Soggin, Introduzione all’Antico Testamento, Brescia 1987, p.267.
[15] J. A. Soggin, cit., p. 268.
[16] M. Buber, prefazione a La fede dei profeti, Genova 2000, pp. 5-6.
[17] Vedi A. Barth, I problemi eterni dell’ebraismo, Milano 1957, p. 226.
[18] A. Barth., cit. pag. 227.
[19] J. A. Soggin, cit. p. 271.
[20] U. Cassuto, Letteratura ebraica antica, La Rassegna Mensile di Israele 27 (1961), p. 441.
[21] H. L. Ellison, Recent Work on the Old Testament Prophets, The Churchman 84, pp. 115-116.
[22] Per la classificazione riportata e numerosi esempi in merito vedi Y. Etshalom, cit.
[23] Y. Kaufmann, cit., p. 3.
[24] Y. Kaufmann, cit., p. 5.
[25] Y. Kaufmann, cit. p. 3.
[26] Vedi G. Laras, Storia del pensiero ebraico nell’età antica, Firenze 2006, pp. 26-28.
[27] A. Neher, cit. pp. 80-81.
[28] A, Neher, cit. p. 73.
[29] A. Neher, cit. p. 74.
[30] Y. Kaufmann, cit., p.4.
[31] A. Eban, Storia del popolo ebraico. Dall’Età dei profeti allo stato di Israele, Milano 1971, p. 48
[32] A. Eban, cit. p. 50.
[33] G. Laras, cit. p. 31.
[34] A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma 1993, pp. 5-6; 10-11.
[35] A. Heschel, cit., p.12.
[36] G. Laras, cit. p. 31.