Tratto da “La giustizia deve essere di questo mondo – Donatella Di Cesare”, Fazi 2012
III. Interrompere il tempo
Il significato politico dello Shabbat
Spesso si dimentica che lo Shabbat ha anche un valore politico. La parola viene dalla radice shavàt che vuoi dire “cessare”, “riposare”,”festeggiare” – che si tratti del lavoro di Dio, dell’uomo o degli animali (Gen 2, 1-3; Es 20, 8-11; Deut 5, 12-15). Ma alcuni la mettono in relazione con la radice sh-v, “rivolgere”, “far ritorno”, “invertire”, “sovvertire”; in questo caso non sarebbe sbagliato tradurre Shabbat con ‘rivoluzione’. E a buon diritto.
Non solo perché è un ricordo, e dunque un riscatto dell’inizio, non solo perché attesta la liberazione dalla schiavitù, ma perché è l’irrompere del futuro nel presente, di un tempo altro nel tempo che sarebbe altrimenti sempre uguale. L’utopia non è, nella forma di vita ebraica, una chimera che scivola nel remoto passato o nel lontano futuro, ma è un presente che entra ogni Shabbat. E può essere vissuto, festeggiato, testimoniato.
Schiavitù vuol dire che un giorno è uguale all’altro – in una catena ininterrotta; rivoluzione vuoi dire interruzione.
Il «vuoto» di Hegel
Hegel fu tra i filosofi che si fecero promotori dell’emancipazione degli ebrei. Ma questo non gli impedì di essere profondamente anti‑ebraico e di pronunciare giudizi molto gravi che riflettono la diffamazione volgare legittimandola filosoficamente.
Colpisce in particolare la sua sprezzante condanna dello Shabbat. Negli Scritti teologici giovanili, dove all’ebraismo vengono dedicate pagine dure e liquidatrici, antichi stereotipi si mescolano a nuove riprensioni e condanne. A proposito dello Shabbat Hegel osserva: questo «riposo dal lavoro» può essere gradito solo «a chi è schiavo», non «agli uomini liberi e vivi». Perché «tenersi un intero giorno in un vuoto completo, in un’oziosa unità di spirito, fare del tempo dedicato a Dio un periodo vuoto, e far ritornare così spesso questo vuoto» può capitare solo a un popolo in grado di sopportare il vuoto supremo, a un popolo che crede che la vita, pur provenendo da Dio, sia a Dio «estranea».
Era in effetti molto lontano Hegel dall’aver intuito la Presenza ineffabile del Dio di Israele, quel Vuoto separato ed estraneo da cui ogni settimana il popolo ebraico trae sovranamente la forza di ricominciare.
Il senso della festa: celebrare il tempo
Celebrare una festa non vuol dire semplicemente non lavorare. Molto più del lavoro, la festa accomuna. Festeggiare è la capacità, diffusa nel passato e divenuta rara, di stare insieme, di raccogliersi in una comunità, che è tale proprio grazie alla festa.
E durante il tempo della festa che è possibile fare un’esperienza altra del tempo. Nella quotidianità si è legati da un rapporto conflittuale al tempo che si ha, o si crede di avere, che si è calcolato male, che può essere riempito dall’affaccendarsi o restare vuoto nella noia. Al contrario, il tempo della festa, se la festa è ben celebrata, è un tempo pieno, che ferma il calcolo e lo fa arrestare, è anzi la celebrazione stessa del tempo. Celebrare il tempo, proprio quando sembra sfuggire, è un’esperienza straordinaria, eppure alla portata di tutti, da cui si esce sollevati dalla propria soggettività e si può guardare di nuovo alla vita con quella distanza perduta nell’incalzare del tempo.
In avvenire ricordati di ricordarti l’avvenire
Che cosa vuol dire essere ebrei? C’è una identità ebraica? La questione percorre tutta la riflessione degli ultimi decenni dove le posizioni convergono almeno su un punto: che è già molto problematico parlare di “identità”. Perché significherebbe poter indicare quelle caratteristiche precise che tutti dovrebbero riconoscere e accettare. C’è insomma un problema di definizione dell’ebraismo. Enumerare tratti e caratteristiche non serve. L’ebraismo sfugge a ogni presa concettuale. E questa la sua forza dirompente. Perciò bisognerebbe distinguere tra ebraismo ed ebraicità.
È Yosef Hayim Yerushalmi ad aver introdotto questa distinzione. L’ebraismo può essere «terminabile», come suggerisce il sottotitolo del suo libro Il Mosè di Freud. Ebraismo terminabile e interminabile. Indirettamente viene richiamata l’antica frase ebraica tam velo nishlàm, «finito, ma non compiuto». Sarà dunque l’avvenire a decidere il significato di “ebreo”, “ebraico”, “ebraismo”. Ma se l’ebraismo può essere terminabile, che cos’è l’interminabile a cui Yerushalmi allude? La domanda attraversa tutto il libro e riguarda l’ebraismo di Freud: «non era ebreo né per religione, né per sentimento nazionale, né per lingua; con tutto ciò si sentiva profondamente ebreo». Affiora così una ebraicità che «sarebbe interminabile anche quando l’ebraismo fosse terminato». Il che scioglierebbe l’enigma dell’identità ebraica che aveva assillato Freud non meno di altri intellettuali ebrei del Novecento.
Yerushalmi è pronto a cedere su tutto. Non è però disposto a cedere sulla «assenza di speranza». In tal senso quanto c’è di più «non-ebraico» sta nella chiusura dell’avvenire, nella disperazione. Il resto interminabile, che può infinitamente sopravvivere all’ebraismo terminabile, è l’ebraicità – Jewishness, judeité. E la «piccola porta» che Walter Benjamin lascia aperta alla fine delle Tesi di filosofia della storia, è la promessa di un segreto che, senza averlo scelto, e senza neppure alla fine conoscerlo, anche gli ultimi marrani hanno custodito.
Ma l’avvenire riaffermato con un «sì» incondizionato è la memoria dell’avvenire, il ricordo di quel che sarà, che è ancora a-venire, e si compendia nell’imperativo ebraico: ²zakhòr! ², ²ricorda! ². L’ebraicità starebbe allora nell’ingiunzione rivolta a ogni ebreo: «in avvenire ricordati di ricordarti l’avvenire».
Uscire dall’angustia
Mitzraim, l’Egitto, può essere letto anche come Meitzarim, cioè ²luoghi angusti². L’Egitto non rappresenta solo la schiavitù e l’oppressione fisica; indica anche l’angustia, métzer, l’angoscia, la depressione dell’anima che soffoca, che non riesce a respirare. Neshamàh, ²anima², ha due lettere, shin e mem, in comune con neshimàh, ‘respiro’. Perché l’anima non sa più ascoltare la voce dell’altro, prima ancora della propria voce interiore. Così rimane chiusa, prigioniera. Inquieta sulla riva, non osa attraversare le acque alla ricerca dello spazio aperto del deserto. Teme il futuro e rischia di morire asfissiata, ferma al passato. La liberazione dell’esodo non è solo quella del popolo, ma è anche quella personale di ciascuno. E se si finisce per restare sulla riva, spesso è a causa dell’angoscia dettata dal proprio sé, talvolta il più feroce carceriere.
Il coraggio del riposo
Che cos’è il riposo? Forse è una forma di pace con gli altri e con se stessi. Ma non solo. Certo ha anche a che fare con il silenzio. Una pausa di silenzio è una pausa di riposo. Ma sembra che anche una brevissima pausa sia ormai una meta difficile da raggiungere.
Il riposo è l’interruzione dell’attività, la pausa che non è un semplice vuoto (come la parola “vacanza” induce a credere), ma è un silenzio vigile e attento. E la libertà di non dover rispondere immediatamente, è l’indugiare nel silenzio creativo dell’ascolto, ad esempio leggendo un buon libro – senza altro scopo che non sia la lettura – oppure riandando con il ricordo a quanto ci è accaduto, negli ultimi mesi, o anni. Il riposo è il tempo in cui ci liberiamo dai nessi di mezzo e fine che ci vincolano quotidianamente. Perciò il riposo, anzitutto quello dello Shabbat, dovrebbe ri-crearci, farci rinascere, attraverso il ricordo del passato per il futuro che ci attende.
«Durante sei giorni lavorerai e farai ogni tua opera»
Culmina con un inno al lavoro la liturgia ebraica all’uscita dello Shabbat: «vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d’ogni bene» (Sal 128, 2). Secondo il Talmud «sarai felice» si riferisce a questa vita e «godrai d’ogni bene» a quella nel mondo a venire (Berakhot 8a).
Al giorno di riposo fanno seguito i sei giorni di lavoro che non sono la caduta nella materialità, ma scandiscono piuttosto il tempo della melakhàh, della creazione del lavoro, in cui è possibile elevarsi alla dignità della condizione umana diventando, secondo una suggestiva formula rabbinica, «soci di Dio nel lavoro della creazione». Sebbene non sia un atto religioso, il lavoro consente di mantenere il legame con Dio attraverso la creatività.
D’altronde, mentre gli dèi della Grecia non lavorano (e forse per questo non sono fulgidi esempi di morale), il Dio della Torà si presenta sin dai primi versetti come un artigiano impegnato a dare forma all’universo. L’alto concetto che l’ebraismo ha del lavoro risponde alla condanna della schiavitù e alla ricerca, anche etica, dell’indipendenza. Solo chi si guadagna la libertà può contribuire alla costituzione di una società libera.
Chi evita il lavoro è come se rifiutasse di attingere alla fonte della libertà, se fuggisse dalla condizione umana. Gli animali trovano ciò di cui hanno bisogno; gli esseri umani lo creano. Perciò i giocatori d’azzardo non possono prestare testimonianza, perché non prendono parte all’organizzazione del mondo. Lo dice Maimonide nel Mishnèh Torà (6, 8-11), dove si spinge anche a denunciare i pericoli che derivano dallo studio della Torà che non sia accompagnato dal lavoro. Meglio guadagnare un centesimo come sarto, come carpentiere o tessitore, che rinunciare all’indipendenza.
Anche il lavoro più umile ha una dignità che nessun rapporto di dipendenza potrebbe ripagare. «Scortica le carcasse al mercato – dice Ray – e non dire: “io sono un sacerdote, un grande saggio e far ciò non è degno di me”» (Berakhot 9a).
Yovèl. In ricordo di Gustav Landauer
Il diritto romano domina la vita dell’Occidente al punto da apparire ormai quasi naturale. Dopo la distruzione del Tempio e l’affermazione dell’Impero, il diritto ebraico si è mantenuto nella consapevolezza della sua differenza. Già nel primo secolo dell’era volgare Rabbi Eleazar ben Azarijà, commentando la Torà, in cui è detto: «queste sono le leggi che porrai davanti a loro» (Es 21, 1), aveva richiamato alla necessità che Israele non seguisse la legislazione romana (Mechilthà de Rabbi Ishmael, Mishpatim, Es 21).
La proprietà privata è uno dei punti in cui il diritto ebraico diverge da quello romano. L’appropriazione definitiva della terra equivale per Israele a una espropriazione di Dio. È detto infatti: «la terra dunque non verrà venduta definitivamente, perché Mia è la terra» (Lev 25, 23). Il che trova conferma nell’istituzione dello Yovèl, il ‘Giubileo’. Il ritmo del sette scandisce il tempo ebraico, a partire dallo Shabbat, e si potenzia, nel settimo anno, la shemitàh. A loro volta gli anni formano una serie di sette. Dopo sette serie, e sette shemitòth, veniva celebrato, prima della distruzione del Tempio, lo Yovèl, in cui le terre dovevano essere restituite, i debiti rimessi, gli schiavi liberati (Lev 25, 10-11).
All’inizio deli Novecento Gustav Landauer rivendicò l’attualità del «mosaismo» nell’istituzione dello Yovèl. Filosofo, scrittore, critico letterario, Landauer fu protagonista della Repubblica anarchica dei Consigli della Baviera guidata interamente da ebrei. Iniziata la sera di Pesach, durò appena sette giorni, dal 7 al 13 aprile del 1919. Landauer, che aveva sempre rifiutato ogni violenza, fu arrestato dalle milizie bianche antisemite e brutalmente ucciso a Monaco il 2 maggio del 1919. La sua tomba venne profanata nel 1933; la pietra tombale, voluta dal suo amico Martin Buber, fu distrutta e i resti riesumati furono consegnati alla comunità ebraica. Oggi riposano nel nuovo cimitero ebraico di Monaco. Quel gesto compiuto dai nazisti voleva dire che Landauer e la Repubblica anarchica dei Consigli non facevano parte della storia tedesca, ma di quella ebraica.
Grazie anche a Buber, esecutore testamentario del suo lascito letterario, le teorie anarcocomunitarie di Landauer costituirono un punto di riferimento per i movimenti sionisti di matrice socialista come Ha-Poel Ha-Tza’ir (Il giovane lavoratore) e soprattutto per i kibbutzim in Israele.
Landauer ha coniugato in modo originale messianismo ebraico e utopia anarchica in una concezione della storia che non corre secondo una linea evolutiva, ma è fatta di curve e tornanti, rotture e interruzioni. L’affermazione del progresso è andata di pari passo con l’instaurazione dello stato centralizzato. Il pericolo avverte Landauer – sta nel prendere i rapporti autoritari tra gli uomini, che culminano nello stato moderno, come «morale da mettere sul piedistallo»; piuttosto è necessario far riemergere quei rapporti, mai soppressi, che consentono la realizzazione di forme di autogestione, di mutuo soccorso e di federazione. «La società è associazione di tante società; è una lega di leghe di leghe, una comunità di comunità di comunità». Non si tratta di tornare al passato, ma di andare oltre la modernità. Perché la comunità da edificare nell’avvenire non potrà nascondere il filo che la lega al passato. L’avvenire è avvenire del passato e nulla è assolutamente nuovo. La rivoluzione non si dà senza tradizione.
Concepita in una articolazione ebraica del tempo storico, la rivoluzione è per Landauer l’irruzione del nuovo in un istante improvviso, in uno Jetzt, un ²adesso² in cui passato e avvenire si congiungono acquistando nuova luce. E lo Jetzt della rivoluzione sarà ripreso con ben poche modifiche da Rosenzweig e da Benjamin, da Scholem e da Buber. La «rottura radicale» non è posticipata in un futuro lontano e indeterminato, ma si dà nell’ora presente. La liberazione comincia da subito: nei mezzi per raggiungere l’anarchia è già dato il fine. Come si può infatti pensare di perseguire un fine non violento con mezzi violenti? «La non-violenza non si ottiene con la violenza».
La rivoluzione è evento che irrompe, improvviso e imprevedibile, qui e ora. A ogni Shabbat, nel ricordo dell’uscita dall’Egitto (zecher leietzia’at Mitzrai’m), il popolo ebraico ri-vive la liberazione. Il Dio di Israele spinge alla rivolta, all’esodo. E questa rivoluzione, che ricorre ogni Shabbat, e viene potenziandosi secondo il ritmo del sette, fino all’anno dello Yovèl, in cui le terre saranno restituite, i debiti rimessi, gli schiavi liberati, non potrà essere se non una «rivoluzione permanente». Così Landauer interpreta l’istituzione dello Yovèl introdotta da Mosè nel celebre passo di Levitico 25, 9‑35. Per Israele la rivoluzione è concepita come costituzione, la costituzione come rivoluzione.
Rimettere i debiti
L’ebraismo insegna che non c’è nulla di più rivoluzionario che rimettere i debiti. E insegna che farlo è un dovere. Ma è il ritmo del sette che, scandendo il tempo ebraico, irrompe nei rapporti economici e stabilisce il momento della remissione.
In sé il debito non è riprovevole né condannabile. Al contrario: proibire il prestito significherebbe condannare i più poveri privandoli di ogni possibilità e sancendone l’esclusione definitiva. Nulla allevia la povertà come il piccolo prestito che, mentre permette un reinserimento, restituisce la responsabilità. Dal punto di vista biblico sono dunque auspicabili i microprestiti, come quelli escogitati dal “banchiere dei poveri”, il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, ed effettuati dalla Banca mondiale. Tuttavia il crinale è stretto. E se il sistema economico incoraggia l’accumularsi del debito, finisce per ammettere la schiavitù nei rapporti sociali. Che cos’è infatti l’indebitamento se non una forma di schiavitù?
Come nello Shabbat, nel settimo giorno, tutte le gerarchie, economiche e politiche, sono sospese, così nel settimo anno la sospensione dovrebbe cancellare il debito. «Al termine di ogni settennio [shemitàh] concederai la remissione. Questa è la regola della remissione: ogni creditore rimetterà ciò che verrà prestato al suo prossimo» (Deut 15, 1-2). E la Torà ammonisce: «guardati bene dall’avere nel tuo cuore qualcosa di perverso che ti induca a dire: si avvicina il settimo anno, l’anno della remissione! e tu divenga avaro verso il tuo fratello povero e non gli dia nulla, tanto che egli gridi contro di te al Signore, il che verrebbe considerato per te un peccato» (Deut 15, 9).
Ma la remissione dei debiti ispira soprattutto il cinquantesimo anno, l’anno dello Yovèl. L’appello ai prestatori diventa un obbligo inaggirabile, un dovere insieme etico e politico che, sul lungo periodo, si rivela anche la chiave della prosperità economica. «Ti benedirà il Signore tuo Dio in tutte le tue azioni e in tutto ciò che intraprenderai» (Deut 15, 10).
Nel corso degli anni le traversie personali, le disgrazie familiari, le calamità naturali, le vicende storiche, le guerre, le carestie, i rovesci finanziari, i cattivi raccolti hanno decretato la povertà di molti che, costretti a vendere la proprietà, vengono progressivamente esclusi anche dalla condivisione sociale e dalla libertà politica. I nuovi schiavi sono schiacciati dal peso del debito, dal fardello del passato che non permette di intravvedere il futuro. Che il debito sia stato contratto o, più spesso, ereditato, in ogni caso chi soccombe non sta perdendo una gara, ma la vita.
La remissione appare così la indispensabile redistribuzione della proprietà. Indispensabile perché ‑ è questa l’idea che attraversa la Torà ‑ dall’andamento dei rapporti economici all’interno del mercato non emerge naturalmente una giusta distribuzione. Tutt’altro. Gli anni sabbatici e il Giubileo sono allora il correttivo necessario. Chi è costretto a vendere la propria terra, il proprio lavoro, forse già la propria dignità, può essere reintrodotto nella comunità, ritrovare lo spazio della propria vita, recuperare la libertà. Emerge qui con chiarezza il nesso ebraico tra economia, politica, etica, religione.
Il ritmo del sette interrompe un tempo senza avvenire, toglie la dipendenza, spezza il circolo vizioso della povertà. Dopo quarantanove anni si ricomincia con lo Yovèl un nuovo capitolo, si ridistribuisce in parti eque quella proprietà che spetta originariamente a ciascuno e che, provenendo da una espropriazione originaria, spetta solo a Dio e non può essere affidata, se non per un arco di tempo limitato.
Rimettere i debiti non è un atto di buona volontà. E l’obbligo con cui si riconosce l’espropriazione di tutti davanti a Dio. Il creditore che non rimette il debito e non ridistribuisce si appropria di ciò che gli è stato dato solo in prestito. Non è accettabile trasformare il possesso temporaneo in appropriazione definitiva. La remissione dei debiti è allora, nello stesso tempo, comandamento per il singolo e legge di una costituzione rivoluzionaria. Che lo Yovèl non possa oggi ispirare l’apertura di uno nuovo capitolo della storia?
Interesse, torna‑conto e logica del profitto
L’economia capitalistica è stata quasi sempre giudicata in termini quantitativi. Nel passato recente, di fronte ai dati di una produzione in aumento, di un profitto in crescita, sembrava che anche le voci più critiche dovessero tacere. Alla luce di una crisi, che pare incalcolabile, si tende oggi a mettere in discussione il sistema, tornando però di nuovo a ragionare solo in termini economici.
Ma la grande questione è piuttosto un’altra, e cioè se sia possibile giudicare un sistema economico soltanto sulla base dell’economia, dimenticando la politica e soprattutto l’etica. Come se il criterio fosse quello della quantità, come se non contassero i rapporti interpersonali e perciò il benessere dell’anima, la felicità, l’amicizia, l’amore.
Eppure forse mai come ora emerge con chiarezza che il capitalismo ha danneggiato terribilmente la vita di ciascuno, ha deteriorato nel profondo le relazioni interpersonali. Tra gli esseri umani non è rimasto che puro interesse, mentre il valore dell’individuo si è ridotto a valore di mercato. La logica dei capitale ha favorito l’egoismo della buona coscienza, ha spinto ciascuno a credere di poter essere una monade autonoma, ha fatto della concorrenza, della rivalità, della competizione senza scrupoli i nuovi brutali valori.
Tutto ciò che eccede la logica del profitto, a cominciare dall’amicizia, da un investimento di tempo ed energie nella vita dell’altro, senza torna‑conto, sembra dileguarsi ineluttabilmente.
Economia ed etica
C’è qualcosa di più lontano dall’economia dell’etica? Il libero mercato, soprattutto da quando è mercato globale, si presenta come il dominio dell’antietica. Tutto sembra deregolamentato, liberalizzato, permesso, in nome della concorrenza e della produttività. Ed è inevitabile che l’assenza di regole non si arresti agli affari, ma si ripercuota sulle relazioni umane. Il dominio dell’avere incrina, sconvolge e raggira quello dell’essere e del dover essere. Mentre il capitalismo globale viene assunto come un evento naturale, appare quasi ovvio mettere da parte le questioni morali. Il che vuoi dire abdicare a ogni responsabilità. Ma il dover essere dell’imperativo etico non è negoziabile. Come conciliare, allora, economia ed etica? Si può parlare di responsabilità entro gli stretti margini del mercato?
Nell’ebraismo queste domande appaiono retoriche, perché non c’è luogo, né privato né pubblico, che si sottragga all’etica. Tanto meno quello dell’economia che, anzi, è il luogo stesso in cui l’etica deve prevalere. Il Dio di Giacobbe si occupa dell’ordine economico e politico, dà voce a chi è vittima di iniquità: «fa
giustizia agli oppressi, dà pane agli affamati, libera i prigionieri, apre gli occhi ai ciechi, raddrizza gli incurvati, ama i giusti, ha cura degli stranieri, sostiene l’orfano e la vedova, contorce la via dei malvagi» (Sal 146, 7-9). Mosè e i profeti non si sono preoccupati della propria salvezza e dell’immortalità dell’anima, ma del povero e della vedova, dell’orfano e dello straniero. Il rapporto con Dio non è nell’ebraismo un intimo legame spirituale; si realizza piuttosto in un’economia giusta e si manifesta nella responsabilità per l’altro.
Per i maestri del Talmud solo chi, nel commercio e nella finanza, studia e pratica le leggi etiche può aspirare alla santità. Quando lasceremo questa vita per entrare nel mondo a venire – dice Ravà, maestro del IV secolo – la prima domanda che ci verrà rivolta sarà: «ti sei comportato onestamente negli affari?» (bShabbat 119b). Due secoli prima, nella scuola di Rabbi Ishmael, veniva insegnato che chi avesse mostrato integrità negli affari economici avrebbe adempiuto già ai doveri della vita religiosa (Mekhiltà a Esodo 15, 26).
Proprio là dove la giustizia sembra più offuscata, nelle relazioni economiche, maggiore è il merito di chi la attua, e non persegue il guadagno a spese di un altro, non tratta i dipendenti con malvagità o indifferenza, non confonde il valore delle cose con il prezzo, non prende la vita per una corsa spietata alla ricchezza. Non c’è economia che non debba rispondere della giustizia sociale e della dignità umana.
Tzedakàh
Sin dall’inizio il patto di Israele, che riconosceva l’uguaglianza di tutti davanti a Dio, non poteva ammettere disparità o soprusi. L’impegno era quello di salvaguardare rapporti economici giusti che consentissero a ciascuno un’esistenza degna. Così non stupisce che una parola chiave dell’ebraismo sia tzedakàh.
Sembra che nelle lingue indoeuropee non ci siano corrispondenti. Nei libri profetici è ancora difficile distinguere tra tzédek, la forma maschile del sostantivo, che significa ciò che è giusto, ciò che è conforme ai precetti (Deut 25, 15; 33, 19), ii diritto ristabilito da Dio (Is 58, 2), e la forma femminile tzedakàh. Quest’ultima finirà per imporsi con un’accezione che indica sia la fedeltà di Dio a se stesso, alla sua promessa (Sal 22, 32), sia la fedeltà a Dio che si realizza nel rispetto del diritto (1Re 10, 9). Tzedakàh è allora quella ‘rettitudine’ che consiste nel riequilibrare l’ordine del mondo e può dirsi perciò anche ‘giustizia’.
Nella Torà la giustizia è l’insegna di Abramo, il suo segnavia. Ed è insieme la missione del popolo a cui darà vita. Se il popolo si costituirà, sarà solo seguendo la via della giustizia. «Il Signore disse: “posso Io tenere celato ad Abramo ciò che sto per fare? Mentre egli dovrà divenire un popolo grande e potente ed essere il tipo di benedizione per tutte le genti della terra? Poiché Io lo prediligo affinché raccomandi ai suoi figlie alla sua famiglia avvenire di osservare le vie del Signore operando diritto e giustizia [mishpàt, tzedakà] sì che Io, Signore, compia nei suoi riguardi quello che ho detto”» (Gen 18, 17-19).
Anche altrove le parole mishpàt e tzedakàh appaiono l’una accanto all’altra. Qual è la differenza? Mishpàt è la giustizia nel senso di ‘diritto’. E la «sala del giudizio» (1Re 7, 7) e indica dunque il dominio in cui la legge deve essere amministrata per punire i colpevoli e assolvere gli innocenti. A farlo è lo shofèt, il “giudice”. Il rigore della giustizia punitiva è mitigato dalla benignità caritatevole della tzedakàh, della giustizia distributiva che, riequilibrando l’ordine, è anche equità. A realizzarla è lo tzadìk, il ‘giusto’. Un paragone aiuta a comprendere il rapporto tra mishpàt e tzedakàh. Come si legge nei salmi: «diritto e giustizia sono la base del Tuo trono, bontà [hésed] e verità [emèth] Ti precedono» (Sal 89, 15). Se il diritto è connesso con la verità, la giustizia è legata invece al hésed, a quella benignità con cui si scrutano le sfumature che il rigore cristallino oscura, a quella indulgenza con cui si guardano più da vicino le disgrazie del misero da cui l’intransigenza tiene lontano.
Diritto e giustizia, mishpàt e tzedakàh, si integrano e si completano. Una società libera non può essere costruita solo sul mishpàt, sulla norma di legge. Per il popolo ebraico l’esodo dall’Egitto era stato solo una prima tappa verso la liberazione. La seconda, forse più difficile, era rappresentata dal mantenimento del b’rit, del ²patto², da cui nessuno avrebbe potuto essere escluso e che richiedeva dunque una responsabilità per assicurare la giusta condivisione. Se non c’è tzedakàh, non ci può essere diritto, né libertà. Nella sua lunga storia, attraverso le comunità degli esseni fino a kibbutzim, il popolo ebraico non ha dimenticato il principio etico e politico della giustizia sociale.
La tzedakàh è più ampia del mishpàt, e perciò ne è la base. Prima ancora della pena, previene il reato, cercando di eliminare l’ingiustizia che precede ogni giudizio e ogni verdetto e sta nella sproporzione, nello squilibro, nella condivisione iniqua. Altrimenti il diritto stesso sarebbe ingiusto.
Amore e giustizia
È diffusa l’idea che l’ebraismo si fondi sulla giustizia piuttosto che sulla misericordia e sul perdono. Esito discutibile di una teologia della sostituzione che assegna l’amore al superamento cristiano della Legge e attribuisce a Israele la vendetta? Una teologia che pensa che la Legge sia solo giogo? Occorre guardarsi dai facili schemi: l’ebreo seguirebbe la giustizia, il cristiano la carità.
Nel linguaggio talmudico l’appellativo rivolto a Dio è Rach’mana, il Misericordioso. Non devono sfuggire i Nomi differenti dell’Unico che rinviano ai Suoi interventi. L’ermeneutica ebraica ha riconosciuto due racconti della creazione nei primi versetti della Torà. Elo-hìm, che si può tradurre con Giudice, comincia creando un mondo solo sulla giustizia. Ma subito dopo la presenza del Tetragramma testimonia l’intervento della misericordia. Scrive il commentatore Rashi, riprendendo il midrash: «all’inizio Dio volle creare il mondo ponendolo sotto la legge della giustizia. Poi vide che non avrebbe potuto sussistere; perciò premise la legge della misericordia e la congiunse alla legge della giustizia» (a Gen 1, 1). Sin dall’inizio amore e giustizia si intrecciano in un rapporto non privo di tensioni.
Veahavtà lere’echà camòcha, «amerai il prossimo tuo come te stesso» dice la Torà (Lev 19, 18). Un principio comprensibile a tutti e ripreso da molti. Non si tratta, però, di un appello generico alla bontà. La traduzione più corretta è: «amerai per il tuo prossimo ciò che ami per te». Non viene ordinato un sentimento, bensì un agire. Parafrasando si potrebbe dire: agirai per gli altri come agiresti per te. Sta qui il significato dell’amore comandato, di un comando, un obbligo apparentemente paradossale. L’ebraico di quel versetto rinvia, dunque, al nodo intricato della responsabilità.
Non si deve forse diffidare della parola “amore”, pronunciata spesso con troppa leggerezza? Al punto da renderla vaga, quasi vacua? «Non mi piace molto la parola amore che viene usata e abusata» ‑ scrive Lévinas. E propone una parola più consona e giusta per chiamare quell’essere per l’altro di cui l’io, che risponde «eccomi», ha bisogno per costituirsi. E la «responsabilità per il prossimo» ‑ modo «austero» per dire l’amore senza eros, senza concupiscenza, quel farsi carico dell’altro, del primo venuto. Nell’assumere su di sé l’altro non c’è reciprocità, non c’è nulla in cambio. Ne sarebbe altrimenti compromessa la gratuità dell’assunzione, la carità incondizionata.
Ma se ci si fermasse all’amore per il prossimo, si rischierebbe di limitarsi a un rapporto a due, intimo, esclusivo. Nel «tra noi» dell’amore il terzo è escluso. Questo legame non è allora l’inizio, bensì è la negazione della società. «L’amore – dice Lévinas – è l’io soddisfatto dal tu, l’io che coglie in altri la giustificazione del suo essere». La presenza del prossimo ne esaurisce il contenuto. Il legame dell’amore può reiterarsi edificando una universalità solo nel tempo e per infedeltà successive. Amore del prossimo è allora amore secondo il caso della prossimità. Privilegia l’uno piuttosto che l’altro. Il terzo resta sempre escluso e la società negata. Che la crisi della religione nel mondo contemporaneo non dipenda anche da un encomio dell’amore a danno della giustizia? Perché un terzo assiste ferito al dialogo d’amore. E rispetto al terzo, alla sua esclusione, l’amore ha torto.
Il difetto di universalità dell’amore – che si pretende invece universale – non può essere corretto dall’amore stesso. Non è quantitativo, non chiede solo più carità, più pietà, più generosità. Il difetto è inscritto nel legame dell’amore. Può porvi riparo solo la giustizia.
L’amore, che chiede ante litteram l’abolizione della legge, non ne è il superamento, ma è una generosità per l’altro, che non risponde per il terzo. Rivolto alla incomparabile unicità del prossimo, l’amore, nella sua insita cecità, nella sua inevitabile arbitrarietà, non scorge ancora l’altro dal prossimo. Eppure nel mondo non c’è solo un primo venuto. C’è sempre ancora un altro. L’irruzione dell’ulteriore altro richiede il confronto di due unici, la comparazione degli incomparabili. L’ingresso del terzo, che squarcia l’intimità, rende problematica la prossimità, segna l’ora della giustizia. Il legame a due si apre alla società. E la giustizia non ristabilisce l’ordine di una reciprocità tra l’io e il suo prossimo; piuttosto porta verso i terzi rimasti aldi fuori. Invocata dall’amore per il prossimo, che il terzo ha strappato alla prossimità dell’altro, la giustizia oltrepassa l’amore.
La “giustizia dell’amore”, una formula spesso evocata, è in sé una contraddizione. Una giustizia dettata dall’amore non potrebbe non essere ingiusta. Sarebbe, anzi, non solo ingiusta, ma anche pericolosa. Non è questa la misericordia che può essere attribuita a Dio. E all’amore che l’uomo deve a Dio può corrispondere solo l’idea di una giustizia divina più alta della misericordia.
La giustizia richiesta sulla terra corregge l’odio, ma stempera anche la forza concentrata dell’amore. Interrompe l’immediatezza del legame tra l’io e il prossimo per dischiudere il rapporto al terzo. L’interruzione della giustizia è la fondazione della comunità. E dove la giustizia è tolta, la comunità si incrina. Bendata, per non indirizzare lo sguardo solo da un parte, per non ricadere in un arbitrio cieco, la giustizia potrebbe a
sua volta essere distruttiva, se non risalisse alla misericordia che ne mitiga il rigore.
Amore e giustizia si reclamano a vicenda; l’uno fa sorgere l’altra in una tensione che per l’ebraismo non può essere eliminata. La coincidenza tra amore e giustizia segnerebbe il tempo della pace messianica. E solo la tentazione di un messianismo anticipato – dove l’amore pretende di superare la giustizia, di abolire la legge – corre già verso l’assoluto di una assoluzione che finisce per essere connivenza con il male.
Per l’ebreo la legge non è mai giogo. Semmai è la legalità che forma la sua vita nella condivisione con gli altri. Forse in due versetti dei salmi si condensa la lode della Regalità di Dio e dei Suoi precetti tessuta da un popolo sovrano: «sono straniero su questa terra, non tenermi nascosti i tuoi comandi, la mia anima in ogni tempo si strugge nel desiderio dei tuoi giudizi» (Sal 119, 19-20).
La dignità del dare
Tradurre tzedakàh con ‘carità’ sarebbe ridurne la portata e alla fin fine fraintenderne il significato. L’atto di carità si indirizza verso la persona prescelta alla quale elargire con generosità un dono a cui non avrebbe diritto. Il povero è indicato dal cuore. Al contrario, l’atto di tzedakàh è obbligatorio; sancisce l’assunzione di una legge eteronoma. Non si risolve in una volta, ma è il segnavia della vita ebraica. C’è obbligo di dare tzedakàh anche al mendicante molesto e offensivo, di fronte al quale, per un istante almeno, l’ebreo potrebbe chiedersi perché mai premiare con un dono quel comportamento. Ma la tzedakàh non è un dono. Piuttosto è il diritto del povero che il gesto di giustizia sancisce e ratifica. Malgrado i propri sentimenti, l’ebreo è tenuto a riconoscere quel diritto, è obbligato a un atto di riparazione che Dio stesso gli ingiunge. Mentre dà il denaro al povero, restituisce il dovuto a Dio (cfr. Avot 3, 7). Si comprende perché la giustizia riparatrice porti la pace e avvicini la redenzione.
La tzedakàh ebraica tenta di ricomporre la giustizia. A ben guardare la carità, sebbene sia un gesto che s’inscrive nella grammatica del dare, ed ecceda l’economia dello scambio, non muta i rapporti esistenti, né li mette in dubbio. E una elargizione offerta al povero che ne allevia lì per lì le sofferenze, ma lo lascia alla fine nella sua povertà. Il gesto della carità non ha nulla di rivoluzionario; non interrompe il circolo vizioso della privazione. Al contrario lo ratifica. Il povero che riceve l’offerta non esce dalla sua condizione; vi viene anzi, per certi versi, relegato. La carità rinsalda gli steccati sociali, consolida le barriere economiche. Il ricco resta ricco, il povero resta povero. Quel gesto, pur nella sua trasversalità, ribadisce i ruoli, riafferma le classi. E non è detto – come purtroppo è provato da parte degli aiuti occidentali al terzo mondo che dietro la carità non ci sia il calcolo del profitto e la riappropriazione con plusvalore.
L’offerta fa sentire bene chi la compie, ma può umiliare chi la riceve. Perché ne sottolinea la dipendenza e ne ferisce, dunque, la dignità. Su questo si sono soffermati i maestri della tradizione ebraica. Nel capitolo del Mishnèh Torà intitolato “Doni ai poveri” (10, 7), Maimonide, spiegando la legislazione della tzedakàh, delinea una sorta di gerarchia degli atti che costituiscono il dare. II culmine, l’atto più elevato, è quello che obbedisce all’ingiunzione della Torà: «e se un tuo fratello impoverirà e le sue forze vacilleranno presso dite, tu dovrai sostenerlo, sia anche un forestiero
o un avventizio, sicché possa vivere presso dite» (Lev 25, 35). Il dono di cui si parla qui non è estemporaneo, non è l’esito di una benevolenza singolare, della simpatia di un istante. Piuttosto scaturisce dall’osservanza di una legge condivisa, che vale nel tempo e persegue una giustizia soppesata e ponderata. E più che un dono; è già tzedakàh, perché aiuta il povero – dice Maimonide – «a fare a meno dell’aiuto altrui». Non lo umilia e, anzi, gli rende l’indipendenza, gli restituisce la dignità.
La tzedakàh non si limita a ridistribuire temporaneamente la ricchezza; è un gesto che spezza il circolo della privazione, che ricorda al ricco la sua espropriazione originaria, che tenta, con il movimento di un esodo, di far uscire il povero dall’angustia della sua povertà elevandolo a socio della proprietà comune. L’atto supremo di tzedakàh, di una carità che si coniuga con la giustizia sociale, è offrire un posto di lavoro.
La condivisione della proprietà deve dunque andare di pari passo con la condivisione della dignità. Non basta essere uguali davanti a Dio; tutti devono avere parte al kavòd ha-briòth, all’onore del dare. Un punto decisivo della legge ebraica è che, chi riceve tzedakàh, è obbligato a farne. I poveri vengono cioè aiutati a loro volta ad aiutare.
Non si tratta allora di un cavillo? Di un cammino tortuoso e inutile? Che senso avrebbe dare denaro al mio vicino affinché ne dia a un terzo? Eppure sta qui quella dignità umana del dare che a nessuno può essere negata e che si traduce nella comune responsabilità per un terzo. Dare la possibilità di dare significa rendere responsabili.
Ladri di sogni
Nell’ingiunzione «non ruberai» si è spinti a pensare immediatamente all’atto di chi infrange la proprietà e prende la roba altrui. Ma ci sono anche altre forme di furto, non punite, e non meno gravi. Lo dice la Torà; lo ripete più volte. «Non defraudare il salariato povero e misero, sia tuo fratello o forestiero che abita nel tuo paese, nella tua città» (Deut 24, 14). Chi lavora a salario non può essere dominato con durezza, né umiliato con mansioni inutili. E immediato deve essere il compenso della sua fatica. «Nel giorno stesso gli darai il suo salario, prima che tramonti il sole, perché è povero, e verso quel salario solleva il fiato» (Deut 24, 15). Rubare vuol dire trattenere la paga, non dare il dovuto a chi ha svolto l’opera, non darlo per tempo. E in Levitico si ribadisce: «non opprimere il tuo prossimo e non rapire; non trattenere presso di te per tutta la notte, fino al mattino, il compenso per il lavoro» (Lev 19, 13).
Ma qui c’è una colpa ulteriore. Per la Torà il salariato, nel suo rapporto di dipendenza, è paragonabile alla vedova e all’orfano che non possono essere maltrattati. Chi non lo ricompensa, nella giornata, chi lo asservisce, è ladro due volte. Ladro del suo lavoro, della sua fatica, ma ladro anche del suo fiato. Lo opprime, perché gli toglie il respiro, e con il respiro la forza di guardare al domani, di avere un progetto, una speranza, un sogno. Lo umilia, lo colpisce nella dignità, lo calpesta nel cuore. E l’umiliazione chiede giustizia non solo per chi è affamato, ma anche per chi non può avere parte ai sogni.
Povertà
Nel mondo ebraico, dove l’ascesi e la negazione di sé hanno ben poco spazio, la povertà non è ordinata da Dio. Non si tenta dunque di anestetizzare il dolore della fame e del bisogno con un concetto elevato della povertà. Nella tradizione rabbinica, non meno che in quella profetica, la povertà è considerata alla stregua della morte. Per il Talmud nulla è più difficile da sopportare: «colui che è oppresso dalla povertà è come chi è colpito da tutti i problemi del mondo e da tutte le maledizioni» (bNedarim 7b). Sul piatto della bilancia la povertà pesa più di ogni altra cosa.
Non solo si dovrebbe gioire di ogni bene concesso. Come dice Ray, «nel mondo a venire saremo giudicati per ogni piacere legittimo che ci siamo negati in questa vita» (yKiddushin 4, 12). La scelta della povertà è dunque condannabile. Per altro verso, proprio perché non trova giustificazione, la povertà reclama giustizia. In nessun modo può essere accettata, così come non può esserlo la ricchezza. Si finirebbe in entrambi i casi per fare, di quel che è solo una condizione provvisoria, un’eredità tramandata di generazione in generazione. La povertà sancirebbe l’esclusione sociale di chi ne è colpito; la ricchezza renderebbe dimentichi nel successo, irresponsabili nell’appagamento. La divisione, all’interno della comunità, diventerebbe uno iato, una frattura incolmabile.
Dato che è una benedizione, la ricchezza comporta obblighi ulteriori e soprattutto richiede la capacità di usarla per il bene comune. Non stupisce che, già nell’antico Israele, passato a una economia di commercio, grande rilievo era stato dato alla tzedakàh; perciò erano state introdotte tasse pubbliche e forme di sostentamento per i poveri. Da allora essere chiamati a distribuire i fondi della tzedakàh è stato ed è uno dei più alti riconoscimenti che si possano ricevere. Assumere questo incarico vuoi dire attuare le parole della Torà: «dovrai aprirgli la tua mano [al povero] e prestargli quanto ha bisogno, ciò che gli mancherà» (Deut 15, 8).
Per i rabbini la mano che si apre concede sia prestiti sia doni. Ma chi è povero? Il Talmud interpreta il versetto della Torà ricavandone due tipi di povertà: «quanto ha bisogno vuoi dire che ti viene ordinato di mantenerlo, non di renderlo ricco. Ciò che gli mancherà significa anche un cavallo da cavalcare e un servo che gli corra davanti. Si dice che Hillel l’anziano acquistò per un povero di buona famiglia un cavallo da cavalcare e un servo che corresse davanti a lui. In un’occasione, non avendo trovato un servo che corresse davanti a lui, corse lui stesso per tre miglia» (bKetubot 67b).
C’è una povertà al di sotto di un livello di sussistenza che, secondo la halakhàh, dovrebbe comprendere cibo, alloggio, arredi indispensabili ed eventualmente le spese per un matrimonio. Si tratta di un bisogno di carattere materiale che riguarda tutti. Non si tralascia però una povertà ulteriore, più difficilmente definibile, non solo perché varia da caso a caso, ma anche perché ha una dimensione psicologica. E l’assenza di ciò che si aveva prima e che viene invece a mancare. Questa povertà provoca soprattutto l’umiliazione. Di qui l’esempio paradossale di Hillel, pronto a correre davanti a un povero di buona famiglia, pur di non vederlo umiliato, pronto ad assumersi la parte del servo, pur di proteggerne la dignità.
Per i rabbini la povertà priva dell’indipendenza ed esclude dal legame sociale. Incrina dunque il rispetto di sé e toglie la dignità. Come potrebbe esserci allora libertà? Se tutti sono uguali davanti a Dio, nessuno può essere asservito Ma l’asservimento non è solo materiale; si asservisce anche quando si umilia, quando si sottrae la dignità che per i rabbini è un fondamentale diritto umano.
Molte norme furono introdotte per tutelare questo diritto. I lavoratori avrebbero dovuto esser trattati con rispetto. I costi dei riti avrebbero dovuto essere alla portata di tutti, affinché nessuno fosse pubblicamente escluso. I più ricchi avrebbero dovuto essere sepolti con semplicità per non umiliare i poveri. L’idea che guida queste norme halakhiche non è un’uguaglianza astratta, bensì un’equa dignità a cui tutti devono avere parte e che, impedendo le fratture e le divisioni, rinsalda il legame della solidarietà.
Nessuno è proprietario. Sul prestito
Dietro l’obbligo della tzedakàh c’è l’idea che tutto sia proprietà di Dio, creatore del mondo (Sal 24, 1). Nessuno è proprietario. Questa idea sorregge il diritto ebraico e lo distingue da quello romano. Se si ammette la proprietà assoluta, ciascuno può disporre dei beni in suo possesso seguendo la propria volontà. In tal caso si produce un divario tra giustizia e carità, tra ciò che si è obbligati a rendere agli altri e ciò che si offre per generosità o benevolenza. Questo divario si insinua nel cristianesimo forse attraverso il diritto romano. Ma è invece impensabile per il diritto ebraico, dove si può parlare di una espropriazione originaria di tutti che trova nella tzedakah il più alto riconoscimento.
Ciò che abbiamo ci è stato dato. Non ci appartiene. Lo riceviamo in prestito; ne siamo i guardiani, gli affidatari. Soldi e argento, case e beni – soprattutto la terra. Stranieri residenti, rinviati alla provvisorietà, siamo legati alle condizioni del prestito che Dio, unico
proprietario, ci ha concesso. Tra queste c’è l’obbligo di condividere quel che abbiamo con chi ha bisogno. Anche un tribunale potrebbe emettere una tale ingiunzione. Al povero spetta la sua parte, non come dono né come offerta, così come alla comunità spettano le tasse e i contributi.
La giustizia riparatrice della tzedakàh, inammissibile nel diritto romano, dove potrebbe rasentare il furto, mettendo in dubbio il principio della proprietà privata, è invece imprescindibile nel contesto del diritto ebraico. L’obbligo di dare una parte di ciò che si ha il venti per cento ‑ è motivato dal fatto che non si tratta di possesso assoluto, bensì di prestito. La spartizione dei beni può diventare col tempo iniqua. Non c’è una equità intrinseca al mercato. Chi lavora duramente viene premiato. Ma non sempre. E chi si affatica, potrebbe anche sperimentare l’inutilità dei propri sforzi. Eredità, vincite, rovesci e persino abilità possono agire provocando uno squilibrio a cui la tzedakàh fa da contrappeso. Come se il gesto della giustizia fosse fatto per mano di Dio.
Restituire parte di ciò che si ha in tzedakàh significa, d’altra parte, riconoscere che quel che apparentemente è un possesso, in effetti è un prestito di cui si deve rispondere al Creditore. Il prestito diviene una condizione esistenziale che comporta responsabilità per il bene comune, per l’altro, per sé. Come suggerisce Abrabanel (a Deut 15, 7-8), ognuno è intermediario, perché gestisce i fondi di Dio. Fino al successivo Yovèl. La storia torna a interrompersi.
In collaborazione con Cdec – Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea