Come ogni anno in questa stagione il clima rovente si accompagna ad incendi che distruggono patrimoni agricoli e boschivi dappertutto. Utile una piccola immersione nelle nostre fonti per vedere cosa dicono in proposito. Nella legge rabbinica (Shulchàn ‘Arùkh, Choshen Mishpàt 418) il caso di chi provoca un incendio è considerato emblematico ed esemplare del danno provocato alla proprietà di altri, anche se involontariamente, per incuria.
Per non parlare, ovviamente e a maggior ragione, del danno volontario. La fonte è esplicita nel libro di Shemòt, al capitolo 22 versetto 5: “quando esce un fuoco e incontra rovi e ne vengono divorati dei covoni o delle spighe o il campo, chi ha provocato l’incendio dovrà pagare”. Quindi la sanzione è la rifusione del danno provocato, e paga il responsabile, che in una catena di corresponsabili (chi porta la legna, chi porta il fuoco, chi accende) è sempre l’ultimo. È interessante che proprio questo caso diventa l’occasione per discutere il tema della responsabilità del mandante e dell’inviato, con delle conclusioni che in qualche modo mettono in discussione il senso comune.
Se una persona incarica delle persone giuridicamente incapaci (come possono essere minorenni o minorati) dandogli in mano gli strumenti pronti per incendiare, è il mandante il responsabile e non gli esecutori; ma se gli esecutori sono adulti con capacità di ragionare la responsabilità è tutta degli esecutori, in applicazione del principio che en shalìach lidvàr ‘averà, non c’è delega per le trasgressioni, e chiunque abbia ricevuto l’incarico di commettere una trasgressione ha il dovere di opporsi e non scaricare la responsabilità sul mandante. Dal piano puramente giuridico a quello aggadico, la regola dell’incendio viene usata per una nota derashà consolatoria (TB BQ 60b): siccome è stato il Signore benedetto ad appiccare il fuoco su Gerusalemme, come detto in Ekhà 4:14, sarà Lui, l’incendiario, a pagare le spese per la ricostruzione…
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma