Appunti per una lezione tenuta al Polo Universitario di Savigliano (15/10)
Il libro della Genesi, che abbiamo iniziato a leggere in Sinagoga la scorsa settimana, non contiene, al contrario degli altri libri del Pentateuco, molti brani legali. Vi sono piuttosto numerose narrazioni sulle vite dei patriarchi, che ci forniscono delle indicazioni sulle questioni fondamentali della vita. Un brano in particolare riguarda le preoccupazioni di colui che sta lasciare questo mondo, e l’atteggiamento dei vivi nei suoi confronti. Mi riferisco agli ultimi versi del cap. 48 della Genesi, quando Giacobbe, che si trovava in Egitto presso Giuseppe, prega il figlio di non seppellirlo in quella terra: Quando fu vicino per Israele il giorno della morte, chiamò il figlio Giuseppe e gli disse “se mi vuoi bene poni la mano sotto la mia coscia (in segno di giuramento): dammi una prova di bontà e di fedeltà (chesed we-emet); non seppellirmi in Egitto!
Giacobbe, formulando questa richiesta, si avvale di due concetti profondamente differenti fra di loro, Chesed ed Emet. Troviamo questo accostamento numerose altre volte nel testo biblico. Emet, la verità, corrisponde a quanto richiesto dal diritto, mentre il Chesed lo supera. L’uno si rifa alla sfera intellettuale, l’altra a quello dei sentimenti. Gli atti che compiamo nei confronti di un morente, o di una persona che è già spirata, sono differenti dagli atti di misericordia che compiamo verso gli altri esseri umani. Difatti quando compiamo questi gesti, non ci aspettiamo neanche lontanamente una ricompensa per quanto stiamo facendo. Questo principio fondamentale ispira molte delle regole ebraiche riguardanti l’assistenza ai malati terminali e il lutto. Nella storia ebraica in molte epoche e località sono sorte delle confraternite volte ad occuparsi di questi aspetti fondamentali, per assistere i defunti, affinché la loro sepoltura fosse decorosa, e dare sostegno ai familiari in un momento tanto difficile.
Desideravo vedere con voi oggi alcuni aspetti sul momento del trapasso.
1) La Toràh non distingue fra un’aspettativa di vita lunga ed una brevissima. La vita umana è un valore supremo, e non è possibile fare delle differenze fra una piccola ed una grande porzione. Per salvaguardarla si può derogare, tranne rarissime eccezioni, a tutti i precetti stabiliti dalla Toràh. La tradizione ebraica ha grandissima considerazione dell’anima umana. Chi assiste alla morte di una persona deve lacerarsi le vesti, esattamente come avviene quando si vede bruciare un rotolo della Toràh. Il Ramban paragona l’anima umana ai Nomi divini contenuti nel rotolo. Il corpo viene invece paragonato alla pergamena, e per questo si deve onorare il corpo del defunto anche dopo il trapasso, quando l’anima ha già abbandonato il corpo.
2) Visitare i malati è un obbligo religioso. Nel Talmud R. Aqivà afferma che chi non visita i malati, è come se fosse un omicida, ed è detto a nome di Rav Dimi che chi visita i malati fa in modo che vivano, mentre chi non li visita, fa in modo che muoiano. La visita ha lo scopo di sostenere il malato da tre punti di vista differente, fisico, spirituale e materiale, aiutandolo ad espletare i suoi bisogni e provvedere alle sue necessità, pregando per lui, e aiutandolo economicamente ove necessario.
3) Non bisogna comportarsi, quando il malato è in agonia, come se questo fosse già morto, ad esempio preparando la tomba e il funerale;
4) chi chiude gli occhi a un agonizzante è come se lo uccidesse. l’anima umana è paragonata alla fiamma di un lume (Semachot 1,4). Se la luce è fioca e tremante, qualsiasi contatto comporta lo spegnimento della fiammella. Rispetto ai trattamenti medici, chiaramente ogni caso va affrontato con gli esperti. In generale si può dire che qualsiasi atto che accelera e comporta la morte è vietato, ma se c’è un trattamento che può portare alla guarigione o accelerare la morte, è consentito avvalersene.
5) quando una persona è in punto di morte, è proibito allontanarsene e lasciarla sola; tuttavia non gli si deve stare eccessivamente vicino per non toglierli l’aria. Parimenti i parenti stretti devono cercare di trattenersi dal piangere e dall’urlare, perché ciò porta sofferenza all’agonizzante, e se non riescono è opportuno che escano dalla stanza, evitando comunque che l’agonizzante rimanga solo.
6) durante l’agonia inizia la lettura dei Salmi, che prosegue anche dopo la morte. Se un malato sta soffrendo molto secondo alcuni è consentito pregare il Signore che muoia (Ran, Nedarim 40a).
7) Gli ultimi istanti di vita di una persona possono modificare significativamente il senso della sua esistenza, e trasformare un malvagio in un giusto attraverso i sentimenti di pentimento. Per questo l’agonia è accompagnata dalla confessione dei peccati e dalla recitazione dello Shemà Israel, attraverso il quale si riconosce l’esistenza del Signore. La confessione delle colpe prevede una formula prestabilita, ed è introdotta da una formula che ha lo scopo di non fare preoccupare il morente per quanto sta facendo: molti hanno confessato i propri peccati e non sono morti, e molti che non hanno confessato le proprie colpe sono morti.
8) I figli devono essere vicini ai genitori e gli allievi devono essere vicini al maestro, anche perché in questi momenti spesso il morente lascia dichiarazioni di particolare importanza.
9) Una volta avvenuto il decesso la salma viene coperta completamente con un lenzuolo. Il corpo viene rispettato come quando è in vita. Si usa mettere la salma sul pavimento (questo gesto aveva lo scopo di fare cedere calore al corpo), chiuderle gli occhi (questa azione viene compiuta principalmente dai figli del defunto), stendere le braccia lungo il corpo. Il capo deve essere leggermente rialzato, se la bocca è aperta si chiude, e se non si riesce si lega la mandibola.
10) Prima del funerale il morto viene lavato e vestito con degli abiti particolari detti tachrichin, che ricordano i vestiti del Gran Sacerdote nel Tempio di Gerusalemme.