Il metodo di studio talmudico, detto pilpul, segue un modello che ritroviamo, almeno parzialmente, nella stessa scienza moderna.
Amos Luzzatto
Ero stato tentato di intitolare questa nota “Il Talmud, questo sconosciuto”. Ho desistito perché avrei dovuto aggiungere “sconosciuto da chi?” e questo avrebbe comportato strane sorprese, anche per me stesso.
Interrogato su una spiegazione sintetica del corpo della dottrina “orale” ebraica (Torà she-be-‘al pè), ho osato recentemente rispondere affermando che la Mishnà è un codice fondato o validato dalla Torà scritta, che copre tutti i settori della vita delle collettività ebraiche nelle condizioni dei due secoli prima e i due secoli dopo l’inizio dell’Era volgare (“li-sfiratàm”): per il culto, per il codice civile e per quello penale. La Gemarà è una sintesi di dibattiti fra i Maestri, volti a chiarire le applicazioni di questo codice a situazioni dubbie, a volte addirittura con enunciati apparentemente contradditori.
Si pongono immediatamente due domande: con quale tecnica si sono svolti questi dibattiti e come devono essere studiati?
Per quanto concerne la prima domanda, temo che partire elencando le regole logiche che sono state seguite dai Maestri sia piuttosto fuorviante: basterebbe considerare il fatto che lo stesso numero di queste regole (le middot), a partire da quelle di Hillel, che erano sette, non è stato stabilito unanimemente ed ha teso a crescere con il passare delle generazioni di Maestri. Parrebbe semmai che il dibattito cominciasse con una o più domande, con le quali si formulava un “problema”: la sugyà; a questo i Maestri rispondevano offrendo una soluzione, o una ipotesi di soluzione; ciascuno di loro poi sosteneva la sua tesi con una varietà di citazioni da brani biblici, con analogie, con svariate considerazioni logiche. Infine, se il problema discusso riguardava norme di comportamento, si poteva anche passare al voto. E’ noto che abbastanza spesso la soluzione si rivelava impossibile, cosa che veniva enunciata con il termine “Tequ”, sia che questo fosse un acronimo che rinviava la risposta ai tempi messianici, sia che fosse un’espressione verbale aramaica che si potrebbe tradurre con “il problema resta in piedi”.
Per la seconda domanda, le possibili risposte su come studiare la Gemerà sono molteplici. Si può procedere con la tradizionale acquisizione di un foglio di Gemarà (daf Gemarà) mediante uno studio di gruppo del testo; cui si aggiunge almeno il commento di Rashi e dei Tosafisti; si può tradurre il testo dall’aramaico a una lingua più accessibile; si può ricorrere ad analisi filologiche e comparative. Molte volte però, allontanandosi dallo studio tradizionale, che cerca di ripercorrere la strada seguita nella costruzione stessa del testo in esame, se ne perdono alcuni significati. Forse resta ancora la strada maestra quella di affrontare direttamente il testo, di imparare a nuotare in quello che è stato chiamato “il grande mare del Talmud” immergendovisi direttamente.
Sarà bene tuttavia segnalare la traduzione dall’aramaico in ebraico, con note di guida alla lettura e con i principali commenti, opera monumentale di Rav Adin Steinsalz.
Qual’è il valore del Talmud per noi ebrei?
Il grande poeta nazionale Chaim Nachman Bialik ha pubblicato nel 1995 un lungo poema intitolato Ha-matmid, che potrebbe tradursi “il dedito allo studio”, nel quale si descrive un giovane che passa giornate e nottate davanti al testo talmudico, rinunciando ai piaceri dei suoi coetanei e immergendosi nello studio, dondolandosi e cantilenando “oy oy, diceva Ravà, oy, diceva Abayè”, menzionando ripetutamente i nomi dei due grandi Maestri babilonesi. Con questo poema Bialik esaltava la nostra epica, che non era una Iliade, un Orlando Furioso, non era una memoria d’armi ed eroismi, ma piuttosto un umile ma ininterrotto ritornare sulla formazione e sull’approfondimento di quei costumi di vita e di comportamenti che hanno rappresentato il cemento che ha mantenuto saldo fra cento insidie l’edificio della gente ebraica, della Kneset Israel per usare una espressione originale.
Lo studio del Talmud ha acquisito una cattiva fama in Occidente e soprattutto in tempi moderni, per essere stato considerato un esasperato esercizio di argomentazioni esageratamente dettagliate, e cavillose. Questo metodo di studio, detto il pilpul, che si potrebbe tradurre con “acuto e pungente come il pepe” è stato probabilmente introdotto nelle Yeshivot polacche nel XVI secolo dal famoso rabbino Schachna ed è stato molto diffuso, al punto da essere identificato tout court con lo studio e il metodo talmudico. Questo ha generato una certa prevenzione se non addirittura una ostilità nei confronti della letteratura talmudica soprattutto nelle nuove generazioni.
E tuttavia è lecito porsi la domanda se non vi sia qualcosa, nel dibattito talmudico, che segue un modello che ritroviamo, almeno parzialmente, nella stessa scienza moderna. Come nella scienza troviamo una sequela “osservazione – spiegazione – formulazione di una teoria – sue conseguenze – nuova osservazione che parrebbe contraddire la teoria”, così nel dibattito talmudico riscontriamo: “citazione del testo biblico – sua analisi – formulazione di una norma di comportamento – nuova situazione che parrebbe contraddire la norma”. Certo, l’oggetto dell’indagine è diverso (in un caso la Torà, nell’altro caso la Natura e le sue manifestazioni), ma il modello del ragionamento è molto simile. E, per dirla tutta, anche le acrobazie dei fisici di non molte generazioni fa per mantenere la validità della teoria dell’etere si assomigliano molto al pilpul al quale abbiamo accennato. E se vogliamo rovesciare una teoria che non regge (“l’etere non esiste proprio”) possiamo dirlo con la formula dell’aramaico talmudico “hipkha mistabra” (è corretto il contrario).
A questo punto possiamo cominciare il nostro studio.
Per gentile concessione Shalom