Una spiegazione alle vecchie e nuove tragedie in cui le vittime sono soprattutto i bambini
Il 10 del mese di Tevet si digiuna dall’alba fino all’uscita delle prime stelle della sera per commemorare un tragico evento accaduto circa 2500 anni fa: l’inizio dell’assedio di Gerusalemme per mano di Nabuccodonosor, re dei Babilonesi. Quell’assedio si concluse con la distruzione delle mura di Gerusalemme (il 17 del mese di Tamuz) e con l’incendio del Tempio il 9 del mese di Av, lo stesso giorno in cui il Tempio di Gerusalemme fu distrutto per una seconda volta dal generale Tito alla guida dell’esercito romano nel 70, dando così inizio alla dispersione degli ebrei nel mondo. Queste sono date nefaste per gli ebrei (e perciò si digiuna): esse sono date che ricordano anche altri eventi tragici e luttuosi per il popolo d’Israele, antichi o recenti. Il 17 di Tamuz è il giorno in cui gli ebrei commisero il gravissimo peccato d’idolatria, costruendosi un vitello d’oro e prestandogli culto ai piedi del monte Sinai dove avevano ricevuto poco prima i Dieci Comandamenti. Il 9 di Av fu il giorno in cui gli ebrei, appena liberati dalla schiavitù egiziana più di 3000 anni fa, si rifiutarono di entrare nella terra d’Israele che il Signore Iddio aveva donato loro e preferirono piuttosto rimanere nel deserto. Il 9 di Av fu anche il giorno in cui – più recentemente, nel 1492 – fu emesso dalla regina Isabella l’editto con cui si ordinava l’espulsione di tutti gli ebrei dal regno di Spagna.
Il 10 di Tevet è stato scelto dal Rabbinato d’Israele come giorno per ricordare anche – oltre all’assedio di Gerusalemme – tutti gli ebrei vittime del nazismo durante la Seconda guerra mondiale. Nell’impossibilità spesso di sapere in quale data esatta sia morto ciascuno dei milioni di ebrei assassinati dai nazisti nei campi di concentramento, nelle camere a gas, nei boschi, nelle città, è stata scelta una data per ricordarli tutti insieme, una data già collegata a un evento luttuoso. Ma associare l’uccisione degli ebrei per mano dei nazisti con un giorno del calendario liturgico ebraico, un giorno in cui si digiuna e si recitano speciali preghiere, pone immediata una domanda. È possibile un’interpretazione religiosa della Shoà , lo sterminio degli ebrei? Dove era Dio ad Auschwitz?
La domanda torna periodicamente sulla bocca – o nei pensieri – di chiunque rifletta su questi eventi. È stata riproposta recentemente in occasione del tragico crollo della scuola di S. Giuliano, nel Molise, in cui hanno perso la vita una trentina di persone, quasi tutti bambini. “Dov’era Dio in quella scuola”, si è chiesto Eugenio Scalfari sulle pagine di Repubblica . Dov’era Dio nei campi di sterminio nazisti, nei quali sono stati uccisi un milione e mezzo di bambini? Scalfari ha dato la sua risposta alla domanda. Altri ne hanno data una diversa.
È possibile tentare di dare una risposta ebraica a questa domanda? Dico intenzionalmente “tentare”, perché quello che osiamo proporre qui è solo un tentativo di risposta, ben consapevoli che nessuno può sapere qual è la risposta vera. Spesso si rifugge dalla domanda, e forse è più facile. Ma essa torna prepotentemente da sola: non ci è dato di sfuggirle. Una qualche risposta si dovrà pur tentare, fosse anche dire soltanto: “Non c’è risposta a questa domanda”. Il Talmud afferma che non è tanto importante dare le risposte, quanto formulare le domande. Porsi un problema, fare una domanda, sollevare un’obiezione è molto più stimolante – intellettualmente e religiosamente – che ricevere una risposta, con la sua pretesa di azzerare la discussione e di risolvere i problemi.
Ci sono stati tentativi di dare spiegazioni teologiche della Shoà , facendola rientrare in un qualche imperscrutabile disegno divino a noi incomprensibile. Ma sempre ci si scontra con l’enormità dello sterminio perpetrato, che nessun fine può giustificare, e non basta dire – come afferma il profeta Isaia (55:8) – che “i pensieri del Signore Iddio non sono i nostri pensieri e le Sue vie non sono le nostre vie”. Come è possibile che Dio abbia ammesso o permesso un tale sterminio?
Vorrei qui presentare un approccio totalmente diverso, quello di Hans Jonas, uno dei maggiori filosofi del XX secolo, scomparso pochi anni fa. Jonas si riallaccia alla propria tradizione ebraica, anche se in modo apparentemente controcorrente, e offre una risposta all’invocazione a un Dio muto rivolta da tutti coloro che persero la vita nei campi di sterminio, fra cui la madre stessa di Jonas, internata ad Auschwitz. Nell’opera “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, un libretto di poche pagine tanto breve quanto denso, Jonas scrive che dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile. Il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. Un miracolo divino che bloccasse l’infamia inaudita che alcuni uomini compievano su altri uomini, ad Auschwitz non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz, Dio restò muto. E – aggiunge Jonas – Dio non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo.
Questa concezione a prima vista contrasta con tutti i principi fondamentali dell’ebraismo e anche delle altre religioni monoteistiche. Ma in realtà, se si va a “riscoprire il potente flusso sotterraneo della Kabbalà”, come lo chiama Jonas, si trova l’idea dello tzimtzum , la contrazione, l’autolimitazione di Dio, una delle idee mistiche più sorprendenti e più ricche di implicazioni che siano mai state concepite nella storia della Kabbalà. Secondo questa teoria, Dio si contrasse in Sé stesso per lasciar sorgere il mondo, si ritirò per fare spazio a un’altra realtà. Per garantire la possibilità del mondo, Dio dovette rendere vacante nel Suo essere una zona. Creando il mondo al di fuori di Sé, creando l’uomo e concedendogli la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza.
Questa idea della Kabbalà, assai ardita anche agli occhi di coloro che la formularono, ha in realtà le sue radici in un detto dei Saggi del Talmud, secondo cui “tutto è nella mani di Dio fuorché il timor di Dio”. Nel momento in cui Dio concede all’uomo il libero arbitrio e la possibilità di scegliere tra il bene e il male, la responsabilità delle azioni dell’uomo ricade sull’uomo stesso.
La domanda allora, per concludere questo breve “balbettio”, come lo stesso Jonas lo chiama, non è più “Dov’era Dio ad Auschwitz?”, ma “Dov’era l’Uomo?”.
Che il digiuno che noi ebrei facciamo il 10 di Tevet e le preghiere che recitiamo, possano – se non farci conoscere le risposte vere – almeno aiutarci a formulare le domande giuste.
Gennaio 2003 – Pubblicato su Shalom