Un gigante del pensiero ebraico che la furia nazista credette di poter cancellare. I suoi appunti furono trovati per caso sottoterra dove una volta sorgeva il ghetto e pubblicati in Israele dimostrando che l’eroismo non fu solo di chi imbracciò le armi
Chiara Condò
Nel 1923 rabbi Kalonymus Shapiro, all’età di trentaquattro anni, fondò a Varsavia la più grande casa di studio chassidica dell’epoca, la Yashiva Daas Moshe, proprio quando una forte secolarizzazione aveva modificato pesantemente il comportamento e le aspirazioni della gioventù ebraica. Si ritrovò così a lottare ardentemente per il ritorno a una vita spirituale più feconda; si dedicò completamente allo studio e ai suoi allievi, all’insegna di uno spirito di fratellanza e vivacità religiosa proprio della filosofia chassid. Chaterine Chalier, ebraista e filosofa, ci riporta in questo testo edito da Giuntina non solo la vita del rabbino del ghetto di Varsavia, come riporta il titolo, ma specialmente le sue meditazioni di fronte al momento in cui “Dio ha velato il Suo volto” al popolo d’Israele.
Il rabbi che la studiosa riporta nella lunga nota biografica fu un uomo che non rinunciò alle sue tradizioni anche e nonostante le forti limitazioni naziste: ogni cortile poteva diventare un luogo improvvisato di preghiera, e la Chalier riporta più di un episodio in cui Shapiro celebrò le festività ebraiche a costo della vita. Le sue omelie, celebrate in sinagoga prima e illegalmente poi, vennero trascritte e sotterrate fra le macerie di Varsavia, come successe a gran parte delle memorie che sono giunte fino a noi. Scrive Chaterine Chalier a riguardo: “Coloro che tennero un diario e tutti coloro che scrissero nel ghetto si preoccuparono di nascondere i loro scritti sotto terra, di nasconderli o di farli passare clandestinamente nella parte cristiana di Varsavia, perché i loro diari, le loro poesie e racconti fossero una testimonianza della lunga agonia del popolo dietro quelle mura. Erano dunque tesi oscuratamente ma tenacemente verso un avvenire che, presentivano, avrebbe avuto fretta di girare la pagina del disastro senza leggerla e senza volerla conoscere.”
Ma le cronache che abbiamo a disposizione sono puntuali e quasi iperrealistiche nelle loro descrizioni (tra le ultime pubblicazioni figurano proprio le memorie di Alina Margolis-Edelman): ogni protagonista di quegli anni viene descritto con dovizia, e potremmo risalire con facilità al personaggio trattato. Così non è invece negli scritti di Kalonymus Shapiro, per il quale le categorie mentali non sono profane, “ma unicamente religiose”. Per il rabbi non esistono buoni e cattivi, ma semplicemente coloro che odiano Israele e che operano contro di essa. E proprio le radici e le motivazioni di quell’odio senza freni furono la ricerca a cui dedicò gli ultimi anni della sua vita, prima di venire ucciso nel lager di Trawniki. Così la storia ha senso solo se storia dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, e il male subito viene interpretato sempre attraverso il filtro di questa unione. Rabbi non fu un consolatore, ma al contrario ravvivò gli spiriti sempre più provati dalla miseria, nella direzione di una ricerca quasi insostenibile: l’interpretazione di quanto stava accadendo senza cadere nella perdita della fede.
“Ma quando la persecuzione si accanisce sui corpi e sulle anime in maniera sempre più tirannica e in assoluta impunità, questo “Io” continua a consolare? E cosa può significare una tale consolazione, se esiste ancora, dal momento che si rassegna allo sterminio di massa? Non arriva forse il momento in cui essa sparisce completamente?”, continua ancora la Chalier, che con una penna estremamente intima e misurata interpreta il pensiero di Kalonymus Shapiro. Il rabbi sapeva di trovarsi di fronte a dei nemici che non volevano annientare solo l’uomo, ma la Torà stessa, in quanto “avvilire i corpi dei figli e delle figlie del Re, corpi abbigliati con la tunica delle mitzvot – come dice il chassidismo – e arrivare a trasformare i loro volti in puro terrore, le loro bocche nel grido del torturato e le loro mani in angoscia inconcepibile, è anche accanirsi a distruggere la fede (emunà) di quei figli e di quelle figlie.”
Attraverso un percorso di preghiera sempre più tormentato e difficile, piegato dalla brutalità che imperversava nel ghetto, Shapiro si trovò a fronte all’ipotesi più terribile di tutte: quella che Dio avesse nascosto il suo volto. Le omelie riportate nella versione tradotta dall’ebraico, Esh Qodesh e Derekh Melekh, riportano, nella loro ultima parte, proprio l’urgenza di trovare una risposta a questo dubbio, che Chaterine Chalier riassume splendidamente prima di concludere il suo excursus: “Dio non ci salva, constata rabbi Kaonymus Shapiro, la nostra sorte peggiora a ogni istante, ma ci sono ancora i versetti che Egli ci ha affidato, ci sono ancora dei volti che si rivolgono verso di noi chiedendo cosa quei versetti hanno da dirci. Dunque è necessario aggrapparsi fermamente a essi, come a un filo che ci collega all’invisibile, anche se dobbiamo morire.”
Chaterine Chalier, “Kalonymus Shapiro rabbino nel ghetto di Varsavia”, traduzione di Vanna Lucattini Vogelmann, 135 pp., €12, Giuntina, 2014.
Chaterne Chalier è professoressa di filosofia all’Université Paris Ouest Nanterre La Défense. Allieva e interprete del pensiero di Lévinas, ha pubblicato per Giuntina diverse opere, tutte meravigliosamente sospese tra narrazione, spiritualità e storia dell’ebraismo.
http://www.giuntina.it/ElencoRecensioni/Kalonymus_Shapiro_Rabbino_nel_ghetto_di_Varsavia_591/Kalonymus_Shapiro_Rabbino_nel_ghetto_di_Varsavia_879.html