Conclusione
La «cosa stessa» di Gerusalemme nella lingua dei Greci
L’obiettivo del presente lavoro era quello di ripercorrere le «tracce» di una Presenza all’interno dell’opera levinasiana. Partendo dagli scritti filosofici, abbiamo cercato di mostrare quale fosse il senso della trascendenza teologica e la modalità particolare del suo «venire all’idea». La stessa operazione è stata effettuata per quanto riguarda le opere più strettamente «confessionali», relative all’ebraismo e alla letture talmudiche.
Giunti al termine della nostra riflessione, rimane da affrontare ancora la questione «ultima», che potremmo riassumere con la seguente domanda: quel Dio che viene all’idea nella traccia del volto, «trascendente fino all’assenza», che mi ordina, come terzo-illeità, la responsabilità per il prossimo non è forse lo stesso della Rivelazione biblica? In altre parole, è lecito tracciare un’analogia tra il «Dio filosofico» e quello «biblico», a partire dall’interpretazione offerta da Levinas nei suoi scritti?
Per tentare una risposta faremo riferimento ancora una volta allo scritto Il Nome di Dio secondo alcuni testi talmudici, esaminando in particolare l’ultimo paragrafo, volutamente ignorato nella nostra analisi precedente. Dopo aver suggerito che, per la tradizione ebraica, la trascendenza del nome di Dio, il Santo e separato, diviene propriamente etica – comandamento obbligante nei confronti del prossimo, nel paradosso di un «ritrarsi contemporaneo alla presenza»[1], Levinas si propone di mostrare come questa «possibilità di una trascendenza in grado di restare assoluta malgrado la relazione nella quale essa entra attraverso la rivelazione […] può esser pensata filosoficamente»[2], ossia possa esprimersi in un linguaggio universale a prescindere «dall’autorità della Scrittura e della sua esegesi»[3].
Il nostro filosofo richiama innanzitutto quel «postulato che domina la filosofia occidentale»[4], per il quale la relazione dell’anima con l’Assoluto è sempre pensata in termini di sapere, coscienza, discorso: com-prensione di un Dire in un Detto, oggettivazione e «immanentizzazione» della trascendenza. Propriamente – come rileva Levinas – «la tematizzazione è il fatto che l’anima è investita in maniera tale da non subire»[5]. Ciò che investe l’anima si «presenta», si dichiara e «non è concepibile nessun passato inconvertibile nel presente»[6]: l’essere ha un’origine (l’archè della filosofia greca) e la razionalità è precisamente la ricerca di questa fonte. Ciò nonostante – si chiede Levinas – «la tematizzazione è il solo evento dell’anima»[7]? L’unica modalità possibile dell’Assoluto è quella di entrare nel presente, ri-velarsi, farsi essere?
A ben vedere, «le modalità dell’Assoluto sono certo impensabili»[8]. Per questo motivo il nostro filosofo suggerisce che vi sia qualcosa di ancor più originario nell’anima, qualcosa che non si offra come semplice tema dinanzi alla libertà:
Questa astrazione del pre-originario che, sembra, noi qui abbiamo costruito ci è concretamente offerta nella responsabilità anteriore ad ogni impegno, dalla responsabilità che ci obbliga nei confronti degli altri, dalla mia responsabilità per gli atti, la felicità e l’infelicità dovute a libertà altre dalla mia. O, più semplicemente dalla fraternità umana. Una configurazione di nozioni puramente ontologiche si converte qui in relazioni etiche. Come nel Talmud: l’assoluzione dell’Assoluto, la cancellazione di Dio, equivalgono positivamente all’obbligo di realizzare la pace nel mondo[9].
«Come nel Talmud» – precisa Levinas -: una sottolineatura che testimonia l’avvenuta «traduzione in greco» di quei principi che appartengono alla saggezza ebraica.
Levinas prosegue poi nella riflessione facendo risuonare esplicitamente quelle nozioni filosofiche sulla trascendenza teologica che abbiamo visto all’opera nel capitolo secondo del presente lavoro. Questa anteriorità della responsabilità che mi precede anarchicamente, prima di ogni libertà, rappresenta infatti «l’autorità stessa dell’Assoluto, “troppo grande” per la misura o la finitezza della presenza, della manifestazione, dell’ordine e dell’essere»[10]. Di conseguenza, esso mi giunge come «terzo escluso», da un al di là dell’essere e del non-essere, terza persona. L’Assoluto è «illeità», «refrattario alla tematizzazione e all’origine»[11], comando che mi ordina il prossimo come volto:
L’illeità, in un modo estremamente preciso, si esclude dall’essere, ma lo ordina rispetto a una responsabilità, rispetto alla sua pura passività, a una pura «suscettibilità»: obbligo di rispondere precedente ogni interrogazione che richiamerebbe un impegno anteriore, oltrepassante ogni domanda, ogni problema e ogni rappresentazione, nel quale l’obbedienza precede l’ordine che si è infiltrato furtivamente nell’anima che obbedisce[12].
Non si tratta forse delle stesse caratteristiche del Dio biblico rivelato nelle Scritture, «conoscenza dell’inconoscibile»[13], la cui anacoresi non annulla la manifestazione ma piuttosto esprime l’obbligo dell’uomo nei confronti di tutti gli uomini? Per Levinas, l’unico luogo di incontro tra Dio e l’Uomo non è costituito dalla relazione con il prossimo?
Dio non si rivela nell’esperienza mistica e neppure in una operazione intellettuale, «ma nella concretezza della relazione etica tra il Medesimo e l’Altro»[14], come il filosofo si sforza di ricordare in ogni tappa del suo itinerario di pensiero. Uno dei tratti peculiari della riflessione levinasiana sarebbe proprio il tentativo di «ri-dire, attraverso il linguaggio universale ed ellenico della filosofia […] quella trascendenza assoluta di Dio che la Bibbia e il Talmud fissano in modo prefilosofico»[15]. Spingendosi oltre, potremmo addirittura ritenere che le opere filosofiche rappresentino una traduzione del commento midrashico ai testi del Talmud[16].
Quel Dio che resiste ad ogni presa concettuale e speculativa, strappato all’oggettività e all’essere – così come appare ad esempio nell’opera Di Dio che viene all’idea – è lo stesso Dio biblico che si nasconde a Mosè e non fa vedere il suo volto. Al contempo, Dio si fa presenza etica, e significa in quanto traccia nel volto dell’altro. Paradosso di una suprema assenza e di una suprema presenza, di una traccia lasciata ma anche cancellata «che non ci indica e “non ci dà” nulla del suo Mistero»[17].
Questo Dio inaccessibile sarebbe lo snodo decisivo dell’etica levinasiana, che si fonda quindi «su un Altro che esiste prima e di sopra dell’umano»[18]. Il rapporto io-altri come rapporto io-Egli-altri, dove Dio è quel «passato immemoriale», «terza persona» che ci comanda verso il bene della responsabilità, eleggendoci prima di ogni nostra scelta ma senza per questo scavalcare la libertà: un’idea che percorre le pagine di Altrimenti che essere, ma che rappresenta anche lo spirito autentico della Bibbia e del Talmud, interpretati in termini di annuncio morale. Le stesse categorie concettuali della «filosofia prima in quanto etica» – responsabilità, ostaggio , elezione, sostituzione, profetismo – non sono forse una traduzione «greca» di quei modelli di comportamento che troviamo nelle storie bibliche?
In questo «chiasmo» tra etica, antropologia ed ebraismo, dunque, il tema della trascendenza teologica, del «venire di Dio all’idea» rappresenterebbe veramente l’orizzonte della cosa stessa di Levinas, la porta di accesso principale per «compiere un esodo da Atene a Gerusalemme»[19].
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Il nostro mondo riposa su scritti, su testi. L’uomo possiede un mondo a causa degli scritti in cui si trova. A causa degli scritti, il mondo che è per noi è innanzitutto ciò in rapporto a cui noi siamo.
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Ogni senso è questione di luce. La filosofia: fare luce dell’oscurità senza cacciare oscurità e notte. L’oscura chiarità che cade dalle stelle. Una filosofia che cerca tale senso – parte dunque da un fatto – non fa la genesi – non spiega – non costruisce ciò che è. Annuncia quanto va compiendosi.
[1] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit, p.204
[2] Ivi, pp.208-209
[3] Ivi, p.209
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Ivi, p.210
[8] Ibid.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ivi, p.211
[12] Ibid.
[13] Ivi, p.206
[14] FRANCESCA NODARI, «Sull’ebraismo di Levinas: parlare in greco della ‘cosa stessa’ di Gerusalemme», in Il Margine, n°9, 2002, pag. 34
[15] Ivi, p.36
[16] «Anzi non possiamo addirittura interpretare le opere filosofiche di Levinas come una traduzione, in actu esercito, del commento midrashico ai testi del Talmud da lui consegnati, in actu signato, nelle varie serie delle letture talmudiche?» (Ivi, p.36)
[17] Ivi, p.35
[18] Ivi, p.36
[19] Ibid.