Capitolo 3 – La «rivelazione» di Dio negli scritti ebraici di Levinas
Dopo aver indagato le «tracce» di significazione della trascendenza teologica per via fenomenologica, il terzo capitolo del presente lavoro tenterà di sviluppare la riflessione sulla base di una delle esperienze pre-filosofiche per eccellenza che hanno caratterizzato la vita del filosofo francese, ovvero quella dell’ebraismo.
Il rapporto tra Levinas e l’identità ebraica, come abbiamo già evidenziato, emerge ad un primo sguardo dalla distinzione tra le opere propriamente «filosofiche» e quelle a stampo «confessionale», che raccolgono le celebri letture talmudiche e altri scritti dedicati specificamente all’ebraismo.
Nato e vissuto all’ombra del giudaismo lituano, che ha sperimentato la secolarizzazione al suo stesso interno e dunque si pone in sintonia col mondo, fin da piccolo Levinas «dispone di un precettore per la lingua ebraica e per la Bibbia»[1] – come ricorda Salomon Malka. Ma sarà soprattutto a partire dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale che il filosofo francese entrerà in contatto con il mondo dell’ermeneutica biblica e talmudica, animato dal compito di ricostruire l’ebraismo europeo, sotto la guida di illustri pensatori che lasceranno una traccia indelebile nella sua attività intellettuale (tra i quali spiccano Monsieur Chouchani e Franz Rosenzweig). Da discepolo diviene lui stesso maestro, partecipando ogni sabato, dopo la liturgia sabbatica, agli incontri di lettura e commento del Talmud per studenti e amici, all’interno della Scuola normale israelita orientale di cui è direttore: incontri che diverranno col tempo un appuntamento «obbligato» per la comunità ebraica parigina. Inoltre, dal 1960 e fino al 1991, Levinas si colloca tra le figure di riferimento nell’organizzazione dei Colloqui degli intellettuali ebrei di lingua francese, che lo vedono protagonista anche in veste di relatore.
Precisamente questo tratto ebraico del pensiero levinasiano sarà il punto di partenza per sviluppare la riflessione sul tema della trascendenza teologica: la Torah da un lato ed il Talmud dall’altra, letti attraverso l’occhio «attualizzante» del filosofo francese, con la convinzione che «la singolarità ebraica attende la sua filosofia»[2] poiché «il fatto di Israele, le sue Scritture e le loro interpretazioni […] costituiscono una figura nella quale si mostra un modo essenziale dell’umano e nella quale, prima di ogni teologia e di ogni mitologia, Dio viene all’idea»[3].
Nel ripercorrere le tappe di questo itinerario, la nostra analisi tenterà dunque di offrire una risposta a quel «fatto “metafisico” detto rivelazione»[4], che rappresenta «l’irruzione in questo mondo di una verità che viene dal di fuori»[5], commentando, con il supporto di altri testi, alcune affermazioni che Levinas ci consegna nello scritto La rivelazione nella tradizione ebraica, pubblicato per la prima volta nel 1977.
3.1. La struttura della Rivelazione
3.1.1. Torah e Talmud: Legge orale e Legge scritta
Ecco dunque una Torah orale, a fianco della Torah scritta, e fornita di un’autorità non inferiore. Questa autorità è rivendicata dal Talmud stesso, è ammessa dalla tradizione religiosa ed è riconosciuta dai filosofi del Medioevo, compreso Maimonide. Essa è per gli ebrei una Rivelazione che completa l’Antico Testamento. (L’aldilà del versetto, p.220)
L’ebraismo di Levinas è radicato a pieno titolo nel solco della tradizione rabbinica e farisaica. In questa prospettiva, la fonte primaria da cui scaturisce ogni riflessione è quella della Bibbia illuminata dal Talmud. Per comprendere più a fondo i termini della questione è necessario compiere un passo indietro e fornire alcune indicazioni relative a ciò che l’ebraismo tradizionale intende quando vuole riferirsi alla Scrittura[6]. Innanzitutto, il termine Torah, tradotto in italiano con la parola «legge», significa in senso ampio «insegnamento» e nella sua radice ebraica rimanda all’idea di «mirare un bersaglio», evocando anche i concetti di luce e fuoco. La Torah dunque è l’insegnamento per eccellenza, la Parola di Dio. Essa è una, ma viene rivelata sotto due forme: quella scritta (Torah scritta, Scrittura) e quella orale (Torah orale, Tradizione). Si tratta di una posizione ribadita, «implicitamente ed esplicitamente», proprio dalla stessa Tradizione orale, di cui troviamo un esempio nel trattato Avot (i Padri) della Mishnah[7].
In questo contesto si inserisce la pratica del midrash – alla lettera «ricerca, interpretazione» -, quel metodo esegetico che tenta di spiegare il testo biblico ricavandone insegnamenti di tipo normativo oppure omiletico[8]. La Scrittura infatti ha bisogno di essere ascoltata, attualizzata, interpretata: e tutto questo è possibile grazie all’apporto della Tradizione, la Torah orale. L’unità della Torah, per il pensiero rabbinico tradizionale, si realizza quindi soltanto nel faticoso lavoro di due «anime» opposte e complementari, lo scritto e l’orale.
Su questa linea, il Talmud – dalla radice ebraica lamad: «apprendere, insegnare» – designa lo studio o l’insegnamento della Torah, e dunque si riferisce all’insieme della Torah, la Scrittura più la Tradizione (interpretazione). Nello specifico, il Talmud richiama talvolta una delle due grandi raccolte che vanno sotto il nome di Talmud di Gerusalemme (redatto nel IV secolo dell’era volgare) e Talmud di Babilonia (risalente alla fine del V secolo). Ogni estratto talmudico segue solitamente uno schema ricorrente e risulta suddiviso in due sezioni differenti: la Mishnah, parte iniziale, e la Gemara, che a sua volta sviluppa o discute la Mishnah[9].
Comprendiamo bene come il tema della Torah e del Talmud acquisti una centralità particolare nella riflessione levinasiana. Sono numerosi infatti i testi che tentano di esplicitare il senso stesso di queste due fonti, in quanto salvaguardia e memoria dell’identità di Israele.
A questo proposito risultano particolarmente significative quelle pagine di Difficile liberté – nella parte intitolata «Polèmiques»[10] – in cui Levinas critica un certo uso della Bibbia promosso da autori quali Paul Claudel e Simone Weil. Pur riconoscendo la grandezza d’animo di questi pensatori, il filosofo non esita a denunciare una comprensione parziale, superficiale del testo biblico, riaffermando l’idea che «la lettura piena della Bibbia è possibile soltanto con il Talmud»[11]. Così si esprime Levinas in uno dei passaggi del testo:
Semplicemente crediamo che è proprio l’atmosfera del Talmud che comunica alla lettura della Bibbia quel preciso contatto che impedisce le approssimazioni dell’impressione[12].
La legge orale è eternamente contemporanea a quella scritta. […] L’una non mantiene né distrugge l’altra, ma la rende praticabile e leggibile. Il famoso studio della Torah consiste nel penetrare quotidianamente in questa dimensione e soggiornarvi […] Il più grande malinteso tra Simone Weil e la Bibbia non consiste nell’aver ignorato i testi del Talmud, ma nel non averne intuito la dimensione[13].
Per Levinas, l’opera del Talmud appartiene a pieno titolo alla storia dell’ebraismo moderno ed è ciò che permette di distinguere la lettura cristiana o scientifica degli storici da quella propriamente giudaica. Non si tratta semplicemente di «una procedura per ingabbiare la Bibbia in un qualche sistema filosofico»[14] ma di «oltrepassare la lettera del testo e anche il suo apparente dogmatismo»[15], per far risplendere un secondo strato di significati.
L’intera riflessione levinasiana si muove dunque all’interno di questa cornice di riferimento ed è radicata in un «farisaismo» che assume i tratti paradossali dell’ «amare la Torah più che Dio», parafrasando il titolo di uno scritto del pensatore francese[16]. In questo testo, pronunciato per la prima volta nel 1955 in una trasmissione radiofonica, Levinas riporta la storia di Yossel, figlio di Yossel Rakover di Tarnapol che parla a Dio, testimone dei terribili eccidi del Ghetto di Varsavia durante la resistenza. Nei suoi pensieri prendono forma le questioni ultime dell’esistenza umana: «cosa significa questa sofferenza di innocenti? Non testimonia forse un mondo senza Dio, una terra in cui solo l’uomo misura Bene e Male?»[17]. Dinanzi alle facili risposte dell’ateismo, Yossel prova la certezza di Dio «con una nuova forza, sotto un cielo nuovo»[18], poiché il senso specificamente ebraico della sofferenza rivela in realtà «un Dio che rinunciando ad ogni pietosa manifestazione, fa appello alla piena maturità dell’uomo totalmente responsabile»[19]. E questo è reso possibile dal fatto che la relazione tra Dio e l’uomo è «un rapporto tra spiriti, attraverso la mediazione di un insegnamento, attraverso la Torah»[20], fino al punto di poter affermare: «Lo amo [Dio, ndr], ma amo ancora di più la sua Torah […] E se anche fossi deluso da lui e come disincantato non smetterei comunque di osservare i precetti della Torah»[21]. Nella vicenda di Yossel, come osserva Chiappini, troviamo «alcune idee ricorrenti di Levinas: Dio è esigente, Egli offre all’uomo che entra nel mondo delle parole severe»[22]. L’ebraismo della tradizione è dunque quello di una difficile libertà e di un Dio «concreto non a motivo dell’incarnazione ma per mezzo della Legge»[23], «presente e realmente incontrato dietro la parola o la lettera della Torah»[24].
Il tema della centralità della Torah – intesa nella sua duplice accezione di tradizione scritta e orale – richiama immediatamente un’altra distinzione tipica della scuola rabbinica che riguarda gli insegnamenti delle Scritture: quella tra Aggadà e Halakhà. Il primo termine sta ad indicare la parte normativa della vita religiosa e civile, mentre il secondo tutto ciò che si presenta come commento omiletico in forma di parabole, racconti, apologhi e dunque la parte teologico-filosofica della tradizione.
Prima di addentrarci nel cuore della Rivelazione, analizzando il suo contenuto autentico, è necessario soffermarci su quello che rappresenta «il più alto atto della pratica delle prescrizioni, la prescrizione delle prescrizioni che le vale tutte»[25], ovvero lo studio della Legge (scritta o orale).
3.1.2 Interpretazione ed esegesi: il metodo della sollecitazione
È opportuno infine far osservare che lo studio dei comandamenti – lo studio della Torah, cioè la ripresa della dialettica rabbinica – equivale, per il suo valore religioso, all’osservazione dei comandamenti, come se in questo studio l’uomo si trovasse in contato mistico con la stessa volontà divina. (L’aldilà del versetto, p.225)
Interpretazione, ricerca, midrash: sono le parole chiave che assumono il valore di un vero e proprio atto liturgico per un ebreo moderno. Prima di addentrarci nel mare dell’ermeneutica levinasiana, è opportuno fornire qualche precisazione sull’orizzonte dell’esegesi rabbinica, prendendo spunto dalle considerazioni che troviamo nel già citato scritto di Avril e Lenhardt[26].
Tra le varie tipologie di lettura ebraica della Scrittura, accanto a quella liturgica e di commento, assume un ruolo di primo piano la pratica del midrash, «ricerca», «interpretazione». Si tratta a ben vedere di una modalità particolare per fare esperienza di Dio, «il quale si rende presente nella sua Parola ricercata, studiata, praticata e pregata»[27]. Nella Torah scritta si manifesta l’intensità di un paradosso unico, quello per cui Dio «si fa immanente nella sua Parola umana e comunica la trascendenza a questa Parola»[28]. Per questo motivo, se ogni dettaglio della Scrittura risulta significativo, allora il midrash ha una portata illimitata (l’unico limite è quello imposto in realtà dalla Tradizione)[29].
David Banon, discepolo di Levinas, offre ulteriori spunti sul senso dell’esegesi rabbinica in uno dei suoi scritti[30], sottolineando come l’atto di lettura autentico sia sempre e necessariamente un’ermeneutica e coinvolga ciascuno in modo personale nel rispetto della Tradizione:
Mettersi all’ascolto di questa parola, andarle incontro, non può essere concepito senza interrogazione. […] L’esegesi è dunque un compito a cui ognuno è invitato nella singolarità della sua persona, ma anche nella fedeltà alle lezioni della tradizione[31].
L’importanza di una corretta ermeneutica deriva inoltre dalla consapevolezza che essa rappresenta la modalità in cui prende forma una filosofia, un pensiero religioso di Israele – come specifica ancora Banon:
L’esegesi è sottesa da un pensiero. Attraverso l’interrogazione dei testi, essa secerne il proprio pensiero, si potrebbe dire il suo proprio «logos». Soltanto, esso non si offre immediatamente, ma converrà coglierlo, farlo levare, o più esattamente, esprimerlo[32].
Da qui possiamo cogliere una prima caratteristica fondamentale dell’interpretazione rabbinica: la parola del testo scritto «è complessa, fatta di molti strati e sfumature che suggeriscono altri significati»[33], non si tratta di riferimenti chiari ad una realtà univoca e codificata; nessun codice stabile e ordinato ma un sovrapporsi di strati nascosti nelle pieghe del testo. Tutto ciò significa dunque il rifiuto di una comprensione immediata, di un sapere «a portata di mano», ma piuttosto la pazienza della ricerca, l’accettazione di dover sempre essere disturbati e messi in discussione, senza il raggiungimento di un significato definitivo.
Il rabbino e filosofo francese Marc-Alain Ouaknin parla addirittura di un «Libro che è più del Libro», in riferimento alla questione della lettura/interpretazione:
Il “più” nel “meno” che si rivela nel Libro è la maniera più eminente che l’ebraismo ha per vivere la trascendenza. […] Il Libro è dunque il luogo di un paradosso – o di un incontro […] L’interpretazione non è altro che la creazione dell’eccedenza di significato che permette l’esplosione e la trascendenza. Il paradosso è il seguente: il Libro è Libro quando non è più Libro[34].
Il Libro presenta una struttura particolare proprio perché è in relazione con la trascendenza. L’operazione dell’interprete consiste nel far emergere i significati nascosti, propriamente nel «creare nuovi testi», nell’intraprendere una lettura creativa. L’esegesi è un compito quanto mai necessario perché nel Libro il «poter dire» supera il suo «voler dire»; il Libro contiene sempre un “di più” che deve venire alla luce. Tuttavia, lettura creativa non è affatto sinonimo di soggettivismo o arbitrarietà, come chiarisce la studiosa Catherine Chalier:
Affinché molteplicità dei significati e non-assurdità siano pensabili nello stesso tempo, ci vuole una tradizione […] Passare attraverso la tradizione, attraverso il Talmud, è disporre di un metodo di lettura che rende solidali di un popolo e permette di evitare l’assurdità di significati dispersi e privati. Non è prendere la propria coscienza come la misura del testo, ma confrontarla con quella di tutti coloro che hanno letto, ciò che non risparmia del lavoro interpretativo[35].
Levinas ripercorre le orme di questa lunga tradizione di pensiero ed elabora quella che è stata definita come «ermeneutica della sollecitazione», il cui compito è quello di «liberare, nel significato offerto con immediatezza dalla proposizione, gli altri significati che vi si trovano soltanto racchiusi»[36]. Se «l’aldilà del versetto» – per riprendere il titolo di una raccolta levinasiana – è l’ammissione che «la Parola di Dio può essere contenuta nelle parole di cui si servono tra loro gli esseri creati»[37], allora siamo di fronte ad una struttura «stra-ordinaria» della Scrittura, che impone un compito altrettanto straordinario al lettore, poiché «l’unicità di ogni ascolto porta con sé il segreto del testo» e «la molteplicità delle persone irriducibili è necessaria alle dimensioni del senso»[38]. Di più, l’uomo è allo stesso tempo «colui al quale viene detta la Parola, ma anche colui mediante il quale vi è Rivelazione»[39]. Il linguaggio ordinario porta con sé l’inflessione divina: la parola di Dio fa appello all’uomo.
Questo carattere trascendente è proprio ciò che rende possibile l’operazione fondamentale dell’interpretazione che tuttavia non esaurirà mai il testo, ma sempre lascerà un non-detto presente tra le lettere. Questo «movimento» fa sì che la lettura sia sempre inesauribile, infinita, aperta e mai chiusa: l’ultima parola, in breve, non può mai essere pronunciata.
Levinas, come abbiamo detto, parla di sollecitazione per indicare l’atteggiamento dell’interprete dinanzi al testo. Non si tratta di «pura ricerca etimologica o analisi lessicale»[40], ma rappresenta un «tentativo di animare il testo per mezzo di corrispondenze ed echi»[41], di « “dare gioco” […] perché il processo di interpretazione possa avvenire»[42].
Il nostro filosofo pone continuamente attenzione ai riferimenti biblici del Talmud che creano legami tra piani diversi, in una intersezione di orizzonti che mira a «far sorgere un senso inatteso al di là della “dubbia” etimologia che ne ha causato l’avvicinamento»[43]: procedimento di «sollecitazione della sollecitazione».
Una metafora particolarmente efficace per spiegare questo concetto astratto è quella del «fuoco che cova sempre sotto la cenere», ripresa da Levinas sulla scia di Rabbi Hayym di Volozhyn[44], come lui stesso precisa in calce ad un articolo intitolato «Sulla lettura ebraica delle Scritture»[45]. Il significato delle parole, i passaggi muti o enigmatici, vengono sprigionati soltanto dalla potenza del soffio, della sollecitazione, così come il fuoco che si trova sempre sotto la cenere. La parola non va mai abbandonata, dispersa, ma è necessario seguirla in ogni istante, «attraverso la sua disseminazione»[46], affinché possa condurci verso nuovi contesti e orizzonti. Altre immagini suggestive che ricorrono per chiarire il metodo della sollecitazione sono quelle dello «sfregare» e «triturare» il testo. Verbi che denotano la fatica, l’impegno, la profondità del lavoro dell’ermeneuta. In questa prospettiva, Banon evidenzia giustamente come «tutto dipenderà dunque dalla virtuosità dell’interprete: lo stesso pezzo darà luogo ad un’infinità di interpretazioni, secondo l’estensione della conoscenza e della padronanza della tradizione orale»[47].
Ma come procede in concreto Levinas nelle sue letture talmudiche? Proviamo a ripercorrere brevemente i passi che guidano il filosofo francese a partire dal già citato capitolo «Sulla lettura ebraica delle Scritture» che troviamo nella raccolta L’aldilà del versetto[48]. In questo testo Levinas si propone di commentare una delle ultime pagine ricavate dal Talmud babilonese Makkoth, che riguarda la questione delle sanzioni giuridiche, tra cui la flagellazione.
Nelle osservazioni preliminari emerge con chiarezza quale sia «il progetto più modesto»[49] della sua interpretazione: si tratta innanzitutto di dimostrare come, nella coscienza ebraica, il commento della Scrittura diventi strada verso la trascendenza; inoltre il nostro filosofo si propone di far constatare come l’operazione di lettura del testo talmudico (già di per sé un commento a versetti scritturistici) esiga a sua volta una interpretazione, una «esegesi dell’esegesi» in linea con «il pluralismo caratteristico del pensiero rabbinico che, paradossalmente, si vuole compatibile con l’unità della Rivelazione»[50]. Infine, risulta imprescindibile per Levinas «toccare i problemi dell’oggi»[51], in un autentico spirito di attualizzazione.
Prima di affrontare il testo, inoltre, Levinas non nasconde il pericolo di «urtare i cervelli moderni», o addirittura «ferire le nostre anime liberali»[52]: il lettore potrebbe provare un vero e proprio rigetto dinanzi a questo tipo di discussioni che sembrano il «resto» di un mondo ormai perduto. Per questo è necessario innanzitutto «ammettere pazientemente […] i dati del testo nell’universo che è loro proprio»[53]: una condizione necessaria affinché quelle lettere impresse «si liberino degli anacronismi e del colore locale»[54] e possano dar vita ad un «movimento» che apre alla significazione profonda. Per Levinas si tratta di una «modalità paradigmatica della riflessione talmudica»:
Le nozioni restano in comunicazione con gli esempi o ritornano su di essi, mentre avrebbero dovuto servirsene come trampolini per elevarsi nella generalizzazione, o rischiarano il pensiero che scruta aiutandosi con la luce segreta di mondi nascosti o isolati nei quali irrompe; e, contemporaneamente, questo mondo incastonato o perduto nei segni viene illuminato dal pensiero che gli proviene dal di fuori o dall’altro lato del canone, rivelandone le possibilità che attendevano l’esegesi, e che erano rimaste, in qualche modo, immobilizzate nelle lettere[55].
L’interpretazione sembra essere il frutto di un continuo «va e vieni» dalle lettere alle idee, da un orizzonte all’altro dell’intero testo, fino a produrre un bagliore di comprensione ed una luce di significato, dopo un faticoso lavoro di «sfregamento».
Dopo queste premesse, Levinas passa a sviluppare concretamente il suo commento della pagina talmudica, facendo emergere in prima persona quel metodo della sollecitazione che abbiamo descritto; un metodo in cui «la lettera è ancora più aperta per far conoscere verità fondamentali»[56]. Senza ripercorrere l’itinerario levinasiano avventurandoci nel mare del Talmud – per ulteriori approfondimenti si rimanda direttamente alla lettura del commento sviluppato dall’autore -, ciò che interessa evidenziare ai fini del nostro discorso è il punto di approdo cui il filosofo giunge a conclusione del suo approfondimento. Come osserva Chiappini, infatti, alla fine della discussione, «sembra di essere lontani dal tema di partenza (la lettura ebraica delle Scritture)»[57], e questo è reso possibile dal fatto che Levinas insegna a seguire la strada del testo per «scoprire orizzonti nuovi che poi bisogna tradurre in un linguaggio attuale»[58]; si tratta, ancora una volta, di far uscire quel “di più” nascosto nel “meno”. In questa prospettiva, si apre allora una nuova questione da esaminare, ossia quella che riguarda il senso dell’intera operazione messa in atto da Levinas: qual è, in breve, lo scopo che il nostro filosofo vuole raggiungere? E perché la scelta di questi testi?
Come fanno notare Chiappini e Banon, l’interesse di Levinas per le discussioni talmudiche ha origine nel fatto che in quei testi si nascondono «insegnamenti incredibili che si misurano col mondo e si rivelano a quanti sanno scoprire la presenza di un pensiero eterno che ha un’influenza sui problemi contemporanei, nonostante l’apparente anacronismo»[59].
La sollecitazione, «l’opera dello spirito che risveglia nella lettera nuove possibilità di suggestione» muove dalla consapevolezza che «nel concreto del Talmud (problemi di vita quotidiana, rapporti di giustizia, questioni rituali) “c’è pensiero”»[60].
Levinas non nasconde il suo desiderio di «tradurre in moderno la sapienza del Talmud, confrontarla con le cure del nostro tempo»[61]. Si tratta a ben vedere di un pensiero sostenuto da una continua esperienza, diverso da quello «greco», teorico e idealizzante, poiché è solo a partire dalla vita che «possiamo intendere il Talmud»[62], come insegnano i maestri rabbinici. L’interpretazione assume il compito di «mettere in luce ciò che è contenuto implicitamente o nascostamente nel Talmud per dirlo nella lingua di oggi»[63], nel linguaggio «greco» – o ancora – di «liberare il linguaggio religioso dalla sua ganga teologica per rilevare il significato profano che nasconde; situare (i testi talmudici) nella prospettiva della filosofia per sfociare sulle questioni permanenti della nostra civiltà»[64].
Prima di proseguire è opportuno soffermarci brevemente su quest’ultimo aspetto che concerne la «vocazione» del pensiero levinasiano, ovvero quello che è stato definito dallo stesso filosofo come «la grande tâche», il «grande compito di enunciare in greco i princìpi che la Grecia ignorava»[65].
3.1.3 La vocazione della filosofia ebraica
Malgrado ciò, resta pur vero che, per gli ebrei moderni – e questi sono la maggioranza – che non considerano il destino intellettuale dell’Occidente, con i suoi trionfi e le sue crisi, un abito preso in prestito, il problema della Rivelazione si pone con insistenza ed esige nuovi schemi. (L’aldilà del versetto, p.215)
«Che cos’è l’Europa? È la Bibbia e i Greci» – si affretta a scrivere Levinas in un breve articolo datato 1986[66]. Questa profonda consapevolezza rappresenta uno dei motori da cui prende il via l’opera intellettuale del filosofo francese e offre un orizzonte di comprensione globale su quelli che sono i due versanti della sua riflessione.
In particolare, la questione rimanda all’esistenza (o meno) di una «filosofia ebraica» e al suo peculiare contributo: che cosa dobbiamo intendere esattamente con questa espressione? Quale è la sua «inclinazione» specifica?
Levinas elabora una risposta a questa domanda evitando da un lato gli eccessi di quanti ritengono che essa sia «una sintesi di Gerusalemme e Atene e la sua vocazione consiste nell’armonizzare la visione del mondo greca e quella giudaica»[67]; dall’altro lato, viene rifiutata anche quella prospettiva che intende la filosofia giudaica come una «evidente o segreta importazione dei beni ateniesi a Gerusalemme», il cui obiettivo sarebbe quindi di «tradurre i principi greci in ebraico»[68]. Come rileva Banon, infatti, il nostro filosofo «non si abbandona ad una scelta radicale che escluderebbe l’uno o l’altro termine di questa diade ma piuttosto li conserva entrambi senza negarli, senza fonderli in un nuovo concetto»[69]: l’ebreo e il greco, Atene e Gerusalemme. La grande operazione levinasiana consiste nel mostrare la specificità della saggezza ebraica entrando in dialogo con la metafisica dell’Occidente: un tentativo che lui stesso enuncia esplicitamente in molte pagine degli scritti dedicati all’ebraismo così come nelle letture talmudiche.
A questo proposito appaiono particolarmente significative le dichiarazioni che il filosofo francese ha rilasciato nella sua intervista con Philippe Nemo:
Non ho mai avuto l’intenzione esplicita di «accordare» o «conciliare» le due tradizioni. Se si sono trovate in sintonia è forse perché il pensiero filosofico riposa sempre su esperienze prefilosofiche, e nel mio caso la lettura della Bibbia è rientrata tra queste esperienze fondanti[70].
La questione di una «armonizzazione» tra le due correnti di pensiero, il greco e l’ebraico, rappresenta, agli occhi di Levinas, una falsa modalità di impostare il problema e a ben vedere non sembra tener conto della specificità dei due termini. In breve, si tratta di comprendere quale sia la peculiarità del «Greco» rispetto all’ «Ebraico» e viceversa; che cosa intenda Levinas quando si riferisce al mondo occidentale, alla filosofia da un lato, e alla saggezza ebraica, alla Bibbia dall’altro.
Nel breve articolo intitolato «La Bibbia e i Greci»[71], il nostro filosofo chiarisce in modo inequivocabile le qualità che appartengono alle due «anime» della tradizione europea. Ciò che contraddistingue i Greci – sostiene Levinas – è il loro linguaggio e non la loro ontologia:
Chiamo greco, al di là del vocabolario e della grammatica e della saggezza che l’avevano istituito nell’Ellade, il modo in cui si esprime o si sforza di esprimere, in tutte le contrade della terra, l’universalità dell’Occidente, che supera i particolarismi locali del pittoresco o folkloristico o poetico o religioso. Linguaggio senza prevenzione, che morde il reale ma senza lasciarvi tracce, e capace, per dire la verità, di cancellare le tracce lasciate, di disdire, di ridire. Linguaggio già metalinguaggio, accurato e capace di preservare il detto, le strutture stesse della sua lingua che pretendono di essere categorie del senso[72].
Il linguaggio greco è obiettivo, onesto e rappresenta un passaggio necessario per quanti vogliono «situarsi nell’orizzonte dell’Universale»[73].
Nella lettura talmudica «La traduzione della Scrittura»[74], che riguarda una discussione rabbinica sulla Settanta (Megillah 8b-9b) troviamo alcune considerazioni interessanti relative al nostro tema in oggetto. Levinas prende in esame la legge stabilita da Rabbi Simeon ben Gamaliel, in base alla quale è concesso tradurre la Torah soltanto in greco.
Questa legge affonda le radici in un versetto biblico: «Che Dio faccia crescere Yafet [Yaft Yefet] e che dimori nelle tende di Sem!» (Genesi 9,27). Nella rilettura del midrash, questa frase spiegherebbe il carattere esclusivo del greco in virtù del quale la legge talmudica lo preferisce rispetto ad altre lingue. Tutto è basato sull’interpretazione del verbo “yaft”, che può significare al contempo “far crescere” o “parlare” o ancora “abbellire”. Per questo motivo i rabbini scrivono: «Che il bel parlare di Yafet dimori nelle tende di Sem». Nella tradizione biblica, Yafet era il padre di Iavan (la Ionia) e dunque della Grecia (cfr. Genesi 10,2).
La bellezza del linguaggio greco è ciò che consente di preferirlo ad altri idiomi: questa è la conclusione dei rabbini. Nel suo commento al testo, Levinas offre una particolare sfumatura del termine «bellezza» e sintetizza a suo modo i risultati della discussione talmudica:
Ho proceduto da solo, ovviamente, nell’attribuzione al parlare greco dell’ordine, della chiarezza, del metodo, dell’attenzione verso la progressione dal più semplice al più complesso, dell’intelligibilità, e soprattutto della non prevenzione del linguaggio europeo; […].
Dico ancora, e in altri termini – ed è qui che, per me, risiede la bellezza della Grecia che deve abitare le tende di Sem-: lingua della decifrazione. Essa demistifica. Demitizza. Spoetizza anche. Il greco è la prosa, la prosa del commento, dell’esegesi, dell’ermeneutica. Interpretazione ermeneutica che, spesso, utilizza metafore, ma anche lingua che «demetaforizza» le metafore, che le concettualizza, anche a prezzo di ricominciare daccapo[75].
La filosofia, in altri termini, è ciò che contribuisce alla chiarificazione dei principi contenuti nella Bibbia e ad una loro «demitologizzazione» e «demistificazione». Si tratta di mantenere la saggezza di Sem ma fornire una chiara forma concettuale attraverso Yafet: in questo consiste il difficile compito di «traduzione» dall’ebraico al greco, la «missione» propria di una filosofia ebraica.
In questa prospettiva, comprendiamo sotto una nuova luce l’impegno di Levinas che traspare dalle letture talmudiche e dagli scritti ebraici. Il suo obiettivo è quello di «far parlare» le antiche fonti dell’ebraismo, di renderle interessanti per l’oggi. Non è semplicemente un’opera apologetica o di mera attualizzazione, ma un progetto animato dalla convinzione che «l’ “Ebraico” richiede il “Greco”, il ragionamento filosofico»[76] e che «la migliore lettura dell’ “Ebraico” sia quella in “Greco”, in un linguaggio universale»[77].
Ciò che emerge dalla Bibbia, dal Talmud e dai testi della tradizione rabbinica – fonti autentiche d’Israele -, è una questione che dev’essere dibattuta in modalità filosofiche: la sensibilità «ebraica» richiede necessariamente l’organizzazione e la discussione «greca», deve diventare capace di formularsi in un linguaggio moderno, di introdurre nella filosofia concetti improntati alla «teologia» ma intesi secondo categorie metafisiche.
Levinas infatti ritiene che l’eredità ebraica non sia qualcosa di intraducibile e idiomatico, ma che dalla sua singolarità sia sempre possibile accedere all’universalità. La particolarità dell’ebraismo, la sua «elezione», non significa esclusivismo ma è «una «singolarità che porta i frutti dell’universalismo»[78]:
L’universalismo ebraico si è sempre manifestato attraverso il particolarismo[79].
All’alba di un mondo nuovo il giudaismo è cosciente di svolgere, nella sua durata, una funzione nell’economia generale dell’Essere, che nessuno potrà sostituire[80].
Levinas rivendica una ruolo di primo piano nel dibattito culturale della sua epoca, poiché «il giudaismo è venuto per l’intera umanità» e «l’idea di un popolo eletto non deve esser presa per orgoglio»[81]. Così si esprime ancora il nostro filosofo nel saggio «Assimilazione e nuova cultura», datato 1980, con parole che hanno il sapore di un «manifesto programmatico»:
Ma chi, nel giudaismo assimilato e fra le nazioni, dubita ancora che una singolarità sia pensabile al di là dell’universalità? Che essa sia suscettibile di contenere gli irrinunciabili valori dell’Occidente, ma anche di condurre più lontano? Pensiero e singolarità dei quali il giudaismo, come fatto, come storia e come Passione, costituisce l’apertura e la figura stessa, giunte a manifestarsi molto prima che la distinzione tra il particolare e l’universale si facesse giorno nella speculazione dei logici. Ma – e anche questo è un punto importante – mai, dalla nostra emancipazione in poi, noi abbiamo formulato in linguaggio occidentale il senso di questo aldilà. Malgrado o a causa della nostra assimilazione. Noi abbiamo tentato fino ad ora solo una apologetica che si limitava – e la cosa non era difficile – ad adattare le verità della Torah ai modelli dell’Occidente. La Torah esige di più[82].
Quella del filosofo francese, in realtà, non è una «voce nel deserto» che rimane inascoltata, ma raccoglie l’eredità e la sfida di quel vasto progetto di rilancio del pensiero ebraico intrapreso da illustri maestri ed intellettuali nel corso del XX secolo, i quali hanno tentato di «installare il giudaismo rabbinico come «socio a tutti gli effetti – interlocutore privilegiato? – del banchetto dell’Occidente»[83].
3.2 I maestri della Rivelazione
Questo contributo dei lettori, degli ascoltatori e degli allievi all’opera aperta della Rivelazione è così essenziale ad essa che io ho potuto leggere recentemente in un libro notevolissimo di un dottore rabbinico della fine del XVIII secolo, che la minima domanda posta da un allievo debuttante al suo maestro di scuola costituisce un’articolazione ineluttabile della rivelazione intesa sul Sinai. (L’aldilà del versetto, p.219)
In questo paragrafo ci occuperemo di ripercorrere l’influenza ed il ruolo decisivo che le più autorevoli «figure dell’ebraismo», sia pure in un’ottica di superamento, hanno giocato nella costruzione del pensiero di Levinas. Figure che, «all’inizio del secolo, hanno fatto sentire il suono nuovo di un ebraismo che ha attraversato l’assimilazione da parte a parte restando se stesso»[84]. In particolare faremo riferimento a Franz Rosenzweig e Martin Buber da una parte, ma anche a Rabbi Hayyim di Volozhyn e all’enigmatico Monsieur Chouchani.
3.2.1 Buber e Rosenzweig: per un ebraismo rinnovato
Nella conferenza intitolata Martin Buber e l’ebraismo contemporaneo[85], Levinas ripercorre la vicenda biografica e filosofica dell’autore di Io e Tu (1923), mettendo in evidenza luci e ombre del suo contributo.
Martin Mardocheo Buber, (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), formatosi alla scuola di due grandi tradizioni, quella ebraica – il padre era un dirigente della comunità ebraica di Lemberg – e quella dell’Illuminismo tedesco, attraverso gli studi si filosofia e storia dell’arte – rappresenta a ben vedere uno dei primi pensatori moderni che hanno tentato di «dire l’ebraismo con le parole del suo tempo»[86].
Agli occhi di Levinas, infatti, Buber è innanzitutto colui che ha mostrato «al mondo occidentale che l’ebraismo esiste come attualità di vita e di pensiero»[87]. Di fronte all’assimilazione o «sgiudaizzazione» di molti intellettuali ebrei, egli è stato uno dei pochi ad affrontare «l’ebraismo post-cristiano come una cultura viva, dotata di una mirabile maturità»[88], installandolo come interlocutore dell’Occidente. Si tratta a ben vedere di un segno indelebile che ha rimesso al centro l’antica sapienza ebraica rendendola capace di dialogare con le lingue moderne.
Levinas si addentra poi nello specifico della riflessione buberiana individuando anche i punti di disaccordo. Scopriamo così che, se da un lato il nostro filosofo accetta sostanzialmente la sua interpretazione del chassidismo[89], difendendolo da critiche e pregiudizi[90], dall’altro prende in parte le distanze dal suo metodo esegetico della Scrittura, che «resta all’interno del liberalismo religioso e non vuole ignorare la critica biblica»[91]. Pur riconoscendo il merito di aver posto nuovamente l’accento sullo «spessore ebraico» di questi testi, Levinas rimprovera a Buber di trascurare completamente l’apporto talmudico nell’interpretazione della Bibbia[92], quando in realtà è soltanto l’unione dell’esperienza personale e della tradizione che consentono di esprimerne il senso pieno. In questo modo, Buber sembra rimanere «fedele al Trattato teologico-politico di Spinoza che non attribuiva nessuna importanza all’esegesi rabbinica»[93] nonostante l’insistenza sul carattere morale dell’insegnamento biblico (un aspetto quest’ultimo che Levinas valuta positivamente).
A fianco di Buber troviamo l’altro grande maestro del pensiero ebraico moderno: Franz Rosenzweig. Levinas non nasconde la sua ammirazione per questo pensatore e si occupa di ripercorrere la sua «biografia spirituale» in tre occasioni: una conferenza del 1959 al secondo Colloquio degli intellettuali di lingua francese («Tra due mondi». La via di Franz Rosenzweig)[94], un saggio contenuto nei Cahiers de la nuit surveillèe dedicato a Rosenzweig («Franz Rosenzweig: un pensiero ebraico moderno)[95] ed infine la prefazione allo studio sull’opera di Rosenzweig realizzato da Stéphan Mosès[96].
Nato a Kassel nel 1886, in una famiglia assimilata della borghesia tedesca, Rosenzweig vive inizialmente al di fuori dell’ebraismo, e, dopo l’approdo agli studi filosofici – con la pubblicazione di uno scritto su Hegel -, si volge addirittura verso il cristianesimo, sull’orlo della conversione. Ma – scrive Levinas – «non compie questo passo, dopo una notte drammatica»; addirittura scrive ad un amico – che attendeva la buona notizia: «Non è possibile, non è più necessario»[97]. Questo tratto esistenziale del pensatore ebreo acquista per Levinas un valore del tutto particolare: indietreggiare davanti all’estremo gesto dell’assimilazione è la testimonianza di una «potenza della spiritualità ebraica che, a detta dei cristiani sopravviveva a se stessa svuotata della sua sostanza»[98].
In Rosenzweig assistiamo ad «un brivido particolare del Ritorno», capace di incarnare la situazione dell’intellighenzia ebraica dell’Occidente. La sua opera e la sua stessa vita – interrotta a 43 anni dopo una terribile malattia – hanno dato uno slancio decisivo per interpretare l’ebraismo non già come un reperto archeologico del passato ma come «evento essenziale dell’essere», «categoria dell’essere»[99]. Il libro principale di Rosenzweig, La Stella della Redenzione[100], pubblicato nel 1921 ma elaborato a partire dal 1917 («scritto su cartoline postali indirizzate a casa»[101] – commenta Levinas), incarna propriamente «l’opera di una vita» nel senso che l’autore «lo ha vissuto come un momento essenziale della sua relazione con la vita»[102].
Il filosofo francese ne offre una splendida sintesi nei suoi scritti, tracciando un quadro complessivo di quelle intuizioni fondamentali. Per Levinas, il punto di partenza da cui matura la riflessione di Rosenzweig è precisamente la ricerca di un altro ordine che si opponga alla «filosofia della totalità»: un ordine che prende il nome di «religione» ma non sta ad indicare una forma culturale o un’istituzione speciale, bensì un piano ontologico originario e originale al pari di quello della filosofia. Contro il prototipo della verità filosofica che ingloba la verità dei fenomeni in un Tutto indistinto, Rosenzweig tenta un ritorno all’esperienza, «ovvero all’irriducibile»[103]. Il termine «esperienza» fa qui riferimento all’insieme di eventi, valori, idee in mezzo ai quali si svolge l’esistenza umana. Rosenzweig individua poi tre grandi realtà irriducibili che vengono a costituirsi in questa esperienza pura: Uomo, Dio e Mondo.
Ognuna di essere si concepisce per sé e non ha alcun legame con le altre. Il primo «passaggio» da compiere, dunque, per ritornare all’esperienza eternamente vera, è questa «separazione degli esseri».
Ma già si preannuncia un secondo «passaggio» fondamentale, poiché in realtà, nella nostra esperienza concreta, Dio, Uomo e Mondo non risultano mai separati ma in relazione. Questo legame non ha niente a che vedere con lo sguardo onnicomprensivo del filosofo ma «è realizzato dagli stessi esseri che si uniscono»[104]: è la vita e il tempo. Si tratta di un «rapporto instaurato dalla vita», al di là di ogni «sintesi astratta»[105]. In particolare, il legame che unisce Dio e Mondo prende il nome di «creazione», quello tra Dio e Uomo è «rivelazione», ed infine, tra Uomo e Mondo il rapporto è «redenzione».
Per Rosenzweig, queste categorie diventano ontologiche, ovvero sono in grado di spiegare e di esprimere il funzionamento della realtà.
Nel prosieguo della sua esposizione, Levinas mette in luce la particolarità del rapporto Uomo- Dio:
Dio ama l’uomo come ipseità: tutto ciò che si trova nella sua relazione con l’uomo è amore […] la Rivelazione è amore[106].
Movimento di Dio verso l’uomo e verso la singolarità – cioè l’ipseità – umana, essa è subito riconosciuta come amore: l’amore dischiude questa singolarità[107].
A questo amore da parte di Dio corrisponde ipso facto una risposta da parte umana, e dunque un «comandamento d’amare». Si preannuncia qui una indicazione importante sul significato ed il valore della Legge ebraica. Se per l’ebraismo, infatti, la rivelazione è inseparabile dal comandamento, allora la Mitzwah – regola che tiene in ansia l’Ebreo – non è semplicemente un formalismo, un giogo insopportabile, ma «attesta il rinnovamento degli istanti dell’amore di Dio per l’uomo»[108], la «vivente presenza dell’amore divino»[109].
In questa interpretazione del pensiero di Rosenzweig, Levinas manifesta la sua personale visione del giudaismo che troviamo all’opera in tutti gli scritti «ebraici» e che approfondiremo meglio nel prossimo capitolo.
Alla realtà della Rivelazione è collegata quella della Redenzione, che realizza il rapporto Uomo-Mondo. Scrive Levinas in proposito:
La Rivelazione suscita la Redenzione. La Rivelazione di Dio all’uomo – l’amore di Dio per l’uomo – suscita la risposta dell’uomo. La risposta dell’uomo all’amore di Dio è l’amore del prossimo. La Rivelazione inizia dunque l’opera della Redenzione che è, tuttavia, opera dell’uomo[110].
La Rivelazione, che è amore, sta in attesa della risposta dell’uomo. […] la risposta all’amore che Dio offre all’uomo è l’amore dell’uomo per il suo prossimo. Amare il prossimo significa andare verso l’Eternità, redimere il Mondo o preparare il Regno di Dio[111].
Dinanzi a questi due tratti specificamente ebraici («l’amore si manifesta come comandamento»; «l’uomo è il mediatore della redenzione, indispensabile intermediario del movimento che parte da Dio»[112]), l’opera di Redenzione, per compiersi autenticamente, ha bisogno di una esistenza collettiva. Rosenzweig compie il secondo movimento fondamentale che consiste dunque nel passaggio alla Comunità, focalizzando la sua attenzione innanzitutto sull’esperienza ebraica e poi su quella cristiana, con la ferma convinzione che esse «sorgono nella storia non come avvenimenti contingenti, ma come ingresso dell’Eternità nel Tempo»[113]. Come è possibile tutto questo? Il cristiano, da un lato, «riveste la sua essenza cristiana al di sopra di quella naturale»[114], la sua eternità «è una Via, un Cammino, una Missione»[115]. Nel caso dell’ebreo, invece, egli «possiede l’eternità nella sua stessa natura»[116] e si scopre da sempre estraneo alla Storia, «separato con una separazione senza frontiere» e tuttavia vivendo «con tutti e con il contatto di tutti»[117]: particolarismo dell’universale.
Per Levinas, interprete di Rosenzweig, dunque, la religione come «essenza dell’essere» deve manifestarsi nel giudaismo e nel cristianesimo, e necessariamente in entrambe. La parziale verità dell’uno presuppone la parziale verità dell’altro, senza che nessuna rinunci alla propria integrità e assolutezza, ma in un dialogo fecondo che non deve cancellare la separazione: ciascuno deve rimanere fedele alla propria verità che, tuttavia, è necessario verificare nella vita, rispondendo all’amore di Dio (Rivelazione).
Il ritratto di Rosenzweig offerto da Levinas è quello di un «autentico ebreo, ma preoccupato di capire i problemi del mondo occidentale nel quale si trovava», un ebreo fedele ma attento a comprendere il «linguaggio “greco”»[118].
Attraverso Rosenzweig, il nostro filosofo trova il modello per rispondere affermativamente alla domanda: «il giudaismo è ancora vivo?»[119], mettendo a tacere quanti negano la sua pretesa antichità. L’eternità di Israele – questa è l’idea difesa strenuamente da Rosenzweig – si colloca al di là della storia, e anzi rifiuta questa storia come misura di tutte le cose. L’eternità del popolo ebraico «afferma il diritto posseduto da ogni coscienza di giudicare un mondo pronto in ogni istante al giudizio»[120] e comprende in sé «tutte le persone che rifiutano il verdetto puramente autoritario della Storia»[121].
I due scritti di Levinas su Rosenzweig che abbiamo preso in esame[122] restituiscono sicuramente un’interpretazione suggestiva del pensiero ebraico nel contesto della cultura occidentale, evidenziando una forte influenza del maestro nei confronti del discepolo.
Come ricorda Chiappini, infatti, questi due autori sono accomunati da una preoccupazione fondamentale, ovvero «quella di esprimere la verità dell’ebraismo senza rompere i legami con un pensiero diverso, quello dell’occidente in cui vivono»[123]. E probabilmente non sarà un caso se alla concezione di redenzione propria di Rosenzweig (l’obbedienza alla Legge e il servizio al prossimo) corrisponda sia l’intera etica di Levinas, incentrata sull’ «altro», sia il suo pensiero ebraico e le sue letture del Talmud, come avremo modo di specificare in seguito. Rimane tuttavia una differenza notevole tra i due pensatori nonostante le due opere siano molto affini «nella loro ispirazione, nella loro serenità, nella loro comune preoccupazione di dare l’espressione più alta dell’ebraismo»[124]. Una differenza che nasce dalle diverse esperienze di vita: Rosenzweig non ha conosciuto la «prova ultima», quella della Shoah, che indubbiamente tocca il cuore della riflessione levinasiana.
3.2.2 Monsiuer Chouchani e Rabbi di Volozhyn: la tradizione rabbinica
«Incontrare lui era come entrare in contatto con un genio nel senso assoluto della parola; era un uomo che poteva tenere insieme un numero molto vasto di idee senza essere soggetto alla costrizione di condurle a un esito conclusivo. […] L’incontro con lui, dopo quello con Heidegger e con Husserl, ha rappresentato il grande avvenimento della mia vita»[125]. Difficilmente Levinas avrebbe potuto utilizzare parole più alte per esprimere la sua gratitudine nei confronti di Chouchani, maestro «geniale» e circondato tutt’oggi da un’aura di mistero. All’indomani della seconda guerra mondiale, un amico di sempre, il professor Nelson – ebreo alsaziano e amante di letteratura ebraica – presenta a Levinas la figura di un uomo «dall’aspetto trasandato che gironzolava nella Parigi dell’epoca senza che nessuno sapesse esattamente donde venisse»[126]. Un incontro fatale, affascinante, che lascia un segno indelebile nell’esperienza del filosofo francese, al punto che a distanza di trent’anni da quell’avvenimento ne parlerà ancora in questi termini:
Al mio ritorno della prigionia in un campo di prigionieri francesi in Germania, ho incontrato un gigante della cultura tradizionale ebraica. Egli non viveva il rapporto al testo come un semplice rapporto di pietà o di edificazione, ma come orizzonte di rigore intellettuale […] Tutto ciò che io oggi pubblico sul Talmud, lo debbo a lui[127].
L’irruzione di Chouchani coincide per Levinas con l’irruzione del Talmud nel suo orizzonte di pensiero. Ma chi era questo strano personaggio esigente, «dall’aspetto di un mendicante»[128]? Tutto ciò che sappiamo sulla figura di Chouchani è dovuto in gran parte all’opera di Salomon Malka, allievo di Emmanuel Levinas, giornalista e scrittore, che ha raccolto le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto, ripercorrendo luoghi e memorie del suo itinerario biografico ed intellettuale[129].
Nato probabilmente alla fine del XIX secolo in Lituania (lo si deduce dall’accento yiddish), fin da piccolo viene iniziato alla Bibbia, al Talmud e alla Cabala, formandosi all’interno delle Yeshivot di Israele (ndr, istituti rabbinici). Viene segnalato il suo passaggio a Beirut, nell’università americana, ma anche in Marocco, Algeria e in Germania, a Berlino, intorno agli anni venti del Novecento. Poi si sposta a Strasburgo, «venuto chissà da dove, privo di risorse, privo di carta d’identità»[130], dove per la prima volta entra in contatto con l’ambiente francese e raduna attorno a sé un gruppo di intellettuali. Ovunque vada, si guadagna da vivere offrendo lezioni di Talmud a quanti lo desiderano. Durante la guerra, il suo modo di vivere non sembra essere particolarmente stravolto: la sua specialità rimane quella di «farsi passare per qualcun altro»[131]. Si racconta addirittura che una volta sia scampato alla prigionia fingendosi musulmano e mostrando una tale conoscenza del Corano da meravigliare perfino il capo religioso convocato per metterlo alla prova[132]. Alla fine del conflitto, Chouchani è ancora peregrino: Taverny, Amblois, e soprattutto Parigi, dove avviene l’incontro con Emmanuel Levinas ed Elie Wiesel[133], due discepoli d’eccezione.
Dopo un ultimo viaggio in Israele ed un breve soggiorno in Francia, si trasferisce definitivamente in America del Sud, a Montevideo, dove muore per infarto nel 1968, sulla soglia dei cinquant’anni. Il maestro è tutt’oggi sepolto nel cimitero ebraico di La Paz. Sulla lapide è incisa la seguente iscrizione: «Il rabbino e saggio Chouchani, sia benedetto il suo ricordo, la sua nascita e la sua vita sono avvolti dal mistero, morto il giorno del santo chabbat, 26 tevet 5726», accompagnata da alcuni versetti del Salmo 136.
Levinas, lo abbiamo detto, incontra Chouchani alla fine della guerra grazie al professor Nelson. E fin da subito rimane ammaliato dalla sua personalità, da questo «essere eccezionale, straordinario in tutti i sensi e anche nel senso letterale del termine»[134], uomo dai mille nomi e dai mille volti, «vagabondo mistico»[135]: gli offre ospitalità nel suo appartamento ogni qualvolta ne ha bisogno. Levinas ricorda le lunghe notti in cui il maestro dialogava senza mai smettere, la sua vita segreta senza un indirizzo ed anche qualche eccesso di rabbia; ma anche il suo amore profondo per Israele, il suo disprezzo per i ricchi, le istituzioni e i «grandi» di questo mondo. Ma soprattutto ricorda il suo insegnamento, dopo aver visto all’opera la sua sapienza per quattro lunghi anni, studiando assieme a lui il Talmud:
Lui mi ha insegnato il modo in cui cercare, “perforare” i testi, tutto ciò che si può ricavare da una parte di versetto[136].
Un maestro del prestigio di Chouchani […] ci ha mostrato di che sia capace, qui, il vero metodo. Per noi, egli ha reso per sempre impossibile un accesso dogmatico, puramente fideistico, o anche teologico, al Talmud[137].
Uomo dalla memoria fotografica, capace di recitare interi testi del Talmud dopo aver ascoltato soltanto l’incipit[138]; da una parola era in grado di estrapolare tutti i concetti del giudaismo, tutte le idee della storia ebraica[139], poteva discutere ore ed ore sulla stessa frase senza mai ripetersi[140]. Conosceva bene non soltanto il Talmud ma tutto ciò che era stato scritto in seguito, persino i testi critici; inoltre, aveva una straordinaria capacità di muoversi all’interno del «midrash».
Sono ancora le parole dello stesso Levinas, nel rispondere ad una domanda sul Talmud, a farci comprendere il debito «spirituale» nei confronti del maestro:
Io non so neppure se ciò che so è già una scoperta, ma è lui che mi ha mostrato come bisogna leggerlo. Accanto al suo genio, alle sue conoscenze, alla sua potenza dialettica, tutto impallidisce. Io non avevo imparato molto a leggere la Halakha che, come lei sa, è essenziale al Talmud. Avevo cominciato a leggere un po’ l’Haggada. Ma Chouchani diceva: «Bisogna leggere la Halakha come lei legge la Haggada». Il che non significa che bisogna considerarla un tessuto di simboli e di allegorie. Bisogna leggerla anche con l’immaginazione. Chouchani era molto duro, esigente verso di me come verso tutti. Maestro inflessibile! Ma quando aveva un sorriso di incoraggiamento, significava molto. […] Egli pensava che non bisogna costruire né speculare nell’astratto, ma nell’immaginazione. Bisogna pensare a dei mondi che sono evocati da ogni immagine del testo, allora il testo si mette a parlare[141].
Non vi è dubbio che l’influenza di Chouchani sia stata decisiva per elaborare quel «metodo della sollecitazione» di cui abbiamo parlato in precedenza.
A questo proposito, è doveroso ricordare en passant la figura di Rashi, rabbino francese di Troyes del secolo XI, vero «maestro dei fedeli anche più semplici»[142]. Levinas si pronuncia in modo perentorio su questo personaggio, con una affermazione che non lascia spazio alle interpretazioni:
L’ebraismo è la Bibbia e il Talmud francesizzato, cioè letti attraverso i commenti di Rashi. L’ebraismo è la Bibbia e il Talmud letti attraverso Rashi; non è una battuta di spirito, ma un enunciato rigorosamente esatto[143].
Questa ammirazione deriva dal fatto che Rashi si pone «al limite di due epoche e con lui inizia il tempo del commento attento alla lettera»[144]. Ma una lettera aperta, che apre varchi verso mondi in apparenza estranei, che spalanca orizzonti inediti e impensati: esattamente la stessa che abbiamo visto all’opera nelle lezioni del filosofo francese.
L’ultima grande figura di rilievo nell’itinerario «ebraico» di Levinas è quella di Rabbi Hayyim di Volozhyn (1759-1821). Vissuto in Lituania, discepolo del celebre Rabbi Elijjahu, gaon di Vilna (170-1797), talmudista di grande valore nonché fondatore di una scuola di rabbini, egli era soprattutto «preoccupato di una rigorosa fedeltà al Talmud»[145], secondo una tendenza tipica dell’ebraismo lituano, che prediligeva una cultura della sobrietà, «contro una certa ubriacatura dello spirito a livello popolare»[146], avanzata invece dalla corrente del chassidismo.
L’opera di Rabbi Hayyim, L’anima della vita. Nefesh Hahayyim[147], è ispirata alla Cabala, e paradossalmente, rappresenta «un grande testo mistico che ha nel suo cuore un solo tema, l’amore della Torah»[148]. Essa si compone di quattro “portici” e la riflessone viene portata avanti con il modo tipico di ragionare del pensiero rabbinico. Pur non mostrando preoccupazioni per il pensiero filosofico della società non ebraica, le sue pagine mirano a fornire «una vera “somma” antropologica, filosofica e teologica, con riflessioni molto ardite sul Mistero Ultimo»[149]. Levinas ha scritto una prefazione alla traduzione francese dell’opera[150] e ha dedicato al Rabbi anche un intero saggio che ripercorre alcuni temi della sua speculazione[151]. Senza ripercorrere in dettaglio analogie e differenze tra i due pensatori[152], ciò che vorremmo mettere in evidenza è il fatto che questa figura incarna emblematicamente l’ebraismo lituano in cui Levinas è vissuto fin dall’infanzia. Un ebraismo «che diffida dell’immediatezza, dell’entusiasmo», che si tiene a distanza «dal possesso, dal fideismo e dalla pietà in quanto tale»; un ebraismo che si definisce piuttosto come «disciplina intellettuale», in cui lo studio è considerato «la più alta forma di culto che si possa rendere a Dio»[153], poiché il rapporto con i testi e le fonti d’Israele è vissuto in un orizzonte di estremo rigore.
Levinas rivendica come segno distintivo di questo ebreo dell’Est proprio «la fedeltà alla Torah come cultura», pur «nel seno di una vita di stile occidentale»[154]. Non è un caso che parlando dell’opera di Rabbi Hayyim, il nostro filosofo la ritenga una rara opera della letteratura rabbinica, una «meditazione sull’essenza o il destino dell’ebraismo»[155]:
Nonostante un vocabolario religioso con riferimenti e coordinate esclusivamente ebraiche, che si aprono su numerose prospettive interessanti la vita e la coscienza ebraica, l’ebraismo vi è disegnato come un’antropologia filosofica e una teologia, di significato universale, esprimibili in una lingua senza prevenzioni e senza i particolarismi dell’intraducibile[156].
In questa osservazione sull’opera del maestro, Levinas in realtà sembra voler descrivere «quella che di fatto sembra la sua preoccupazione negli scritti di carattere ebraico»[157]: la saggezza d’Israele deve saper parlare nella lingua universale della Grecia.
L’ultima parte del presente lavoro sarà dedicata allora a scoprire quale sia quella parola di Dio capace di diventare parola per tutti gli uomini, quali siano «le cose prime» che la Bibbia, e con essa tutta la tradizione ebraica, è in grado di offrire all’uomo; tenteremo, cioè, di approfondire ed esaminare il contenuto vero e proprio della Rivelazione.
3.3 Il contenuto della Rivelazione
L’etica è il modello a misura della trascendenza e la Bibbia è Rivelazione in quanto kerygma etico. (L’aldilà del versetto, p.233)
Accostarsi al contenuto della rivelazione, secondo Levinas, significa innanzitutto rifiutare qualsiasi «dogmatica che ha resistito ai filosofi ebrei del Medio Evo» e provare a mettere in luce quella particolare relazione che si stabilisce «tra Colui del quale la Bibbia porta il messaggio, da una parte, e il lettore, dall’altra»[158].
Anche per questo motivo, la nostra analisi prenderà le mosse da una conferenza tenuta dal nostro filosofo nel 1969 al Colloquio organizzato dal Centro internazionale di studi umanistici e dell’Istituto di studi filosofici di Roma, e intitolata Il Nome di Dio secondo alcuni testi talmudici[159]. Si tratta di uno scritto che, a nostro avviso, ben sintetizza le prospettive di pensiero relative al tema che abbiamo cercato di delineare in questo capitolo. Al contempo, ci è sembrato opportuno appoggiarci direttamente al testo per mostrare in medias res quel modo di procedere tipicamente levinasiano: la «traduzione in greco» della saggezza ebraica.
Nell’introduzione al tema vero e proprio, Levinas si preoccupa di definire i limiti e le potenzialità del suo approccio metodologico, sottolineando da un lato la sua inadeguatezza di fronte alla grande tradizione rabbinica, e mettendo in evidenza la specificità di questa raccolta di commenti: il Talmud non è una mera «curiosità etnografica o archeologica»[160], ma racchiude al suo interno un pensiero, un’autentica «opzione filosofica»[161] che è necessario scovare e dedurre: fin dalle prime righe si dichiara, dunque, la volontà di far emergere l’universale dal particolare, quell’opera di «enunciazione» in greco dei principi che la Grecia ignorava.
Levinas entra poi nel merito della questione, ricordando innanzitutto l’importanza dell’oralità legata ai nomi di Dio: essi vengono rivelati e conosciuti a partire dalla Scrittura e questo necessita di una tradizione orale viva per imparare a leggerli.
Tuttavia – si affretta a sostenere il nostro filosofo – «non è la relazione con questi Nomi a costituire, di per sé, l’intimità più grande con Dio»[162]. La comprensione, la conoscenza dell’essenza non sono sufficienti per penetrare il Suo mistero. Indubbiamente, il primo contatto con il Dio rivelato passa attraverso la relazione con la Scrittura: faticoso lavoro di lettura, di studio, di trascrizione e trasmissione. Ma la rivelazione tocca un altro aspetto della realtà umana, al di là di quello intelligibile e razionale: «l’intimità è di un altro ordine»[163] – precisa ancora Levinas. La riflessione rabbinica su Dio infatti ha a che fare con qualcosa di estremamente pratico, poiché riguarda prima di tutto l’agire e la responsabilità umana:
E questo è il modo caratteristico d’atteggiarsi del giudaismo. Alla rettitudine dell’orientamento che va verso il Nome si sovrappone una tutt’altra relazione con Colui che è nominato: l’obbedienza ai suoi comandamenti. La relazione con Dio attraverso l’atto rituale comandato domina ogni altra relazione[164].
Si tratta di un ribaltamento ontologico che sembra contraddire tutta l’esperienza filosofica occidentale: la rivelazione non risponde ad una sete di conoscenza, ad un bisogno intellettuale ma «è data per l’obbedienza, la sola strada per una vicinanza a Dio»[165], evitando qualsiasi identificazione. Avremo modo di tornare più avanti su questo punto che rappresenta la vera «novità» del pensatore francese.
Dopo l’introduzione, Levinas prosegue con il commento ad un testo del trattato Shebouth (35ab) che fa riferimento diretto ai nomi di Dio, a partire da una direttiva pratica: quando copiamo questi nomi non dobbiamo mai cancellarli per alcun motivo. A seguire, vengono elencati nove nomi propri, tradotti abitualmente con il termine «Dio» (tra i quali figurano El o Eloha) e altri che invece abbiamo il diritto di cancellare poiché sono «nomi costituiti da attributi sostantificati»[166] (es. il Grande, il Paziente…). Infine, il testo pone la questione se tutti i nomi di Dio che troviamo nella Scrittura sottostiano a questa regola e quali siano eventuali eccezioni. A questo proposito, Levinas fa notare come dietro al problema pratico della cancellazione si nasconda in realtà una riflessione sulla «dignità dei diversi nomi e in fin dei conti il senso stesso della relazione a Dio»[167].
E qui si preannuncia una prima importante sottolineatura: per il Talmud tutte le parole ebraiche tradotte con «Dio», oppure «Deus» o ancora «Theos» hanno valore di nome proprio, come se, «nella logica del monoteismo», questo termine non possa mai diventare un nome comune. «La parola Dio mancherebbe alla lingua ebraica»[168] – commenta Levinas, facendo notare (con una citazione di Maimonide) che da un lato è la stessa parola «Nome» ad indicare la divinità e, dall’altro, che, quando noi diciamo «Dio», il Talmud e la tradizione ebraica pronunciano sempre la formula: «il Santo-sia-benedetto»[169].
Si presenta qui il tema della santità di Dio (già evocato nell’introduzione[170]) che Levinas specifica come segue:
La santità evoca nel pensiero rabbinico, prima di tutto, la separazione (come la nostra parola «assoluto»). Il termine nomina dunque – e questo è notevolissimo – un modo d’essere o un al di là dell’essere piuttosto che una quiddità[171].
Contro la pretesa di concettualizzazione e com-prensione che caratterizza il pensiero occidentale, Levinas rivendica una nozione di Dio indefinibile, irrappresentabile, che sfugge alle categorie dell’essere. Di Dio abbiamo soltanto una rivelazione sotto forma di «modi d’essere», attraverso ciò che compie. Una concezione che ritroviamo nell’idea ebraica di Chekhina, parola che indica «il soggiorno di Dio nel mondo, o più precisamente, in mezzo a Israele»[172]; ma anche l’uso di altri termini – «Padrone del mondo» oppure «nostro Padre dei cieli» – non esprime mai l’essenza ma piuttosto una relazione, una modalità di entrare in contatto.
Tuttavia, Levinas fa notare che esiste anche una rivelazione per mezzo del Nome: «essa ci porta più lontano, forse al di là dell’essere»[173]. Il testo talmudico infatti ci insegna un «gradualismo» dei nomi: quelli che non possiamo e quelli che possiamo cancellare. Precisamente questi ultimi attribuiscono un significato al Nome e in qualche modo lo tematizzano. E allora si verifica che questi nomi, che vorrebbero «dire» e «afferrare» il mistero di Dio, in realtà se ne allontanano, poiché esso è «irrappresentabile e santo, cioè assoluto, al di là di ogni tematizzazione e di ogni essenza»[174].
Levinas è molto chiaro: Dio è al di là di tutto e di tutti, oltre la totalità che ingloba gli enti, e non è pensabile una relazione in termini di fusione con l’Assoluto. Parlare di rivelazione significa piuttosto far riferimento ad un modus essendi che «conserva la trascendenza di quel che si manifesta» e dunque «eccede la capacità di una intuizione e anche di un concetto»[175].
Ciò nonostante, rimane irrisolta una questione: il divieto di cancellare le lettere del Nome non sta ad indicare che esse, in qualche modo, contengono Dio, il non-contenibile?
Il filosofo francese si sofferma allora a riflettere sull’importanza dello Scritto e del Libro che rappresentano la traccia di un aldilà, di qualcosa che precede la stessa tradizione che li ha composti:
L’umanità monoteista, malgrado la sua pretesa filosofica di porsi all’origine del suo io e del non-io riconosce nello Scritto la traccia di un passato anteriore ad ogni passato memorabile e storico[176].
Si fa strada qui un’ambiguità, un enigma dello Scritto, da cui emerge significativamente un nuovo punto di vista sulla rivelazione:
Essa si delinea così come una modalità della trascendenza. Le lettere quadrate sono una dimora precaria donde si ritrae già il Nome rivelato; lettere cancellabili alla mercè dell’uomo che traccia o che ricopia. […] Ma questa epifania incerta, ai limiti dell’evanescenza, è precisamente la sola che l’uomo può trattenere. Per questo egli è il momento essenziale di questa trascendenza e della sua manifestazione. Per questo, mediante questa rivelazione incancellabile, egli è interpellato con una rettitudine senza pari[177].
Levinas «scioglie» così l’enigma evidenziandone la natura antropologica: è a causa di e per l’uomo che esso si rende necessario. Tutto si gioca all’interno di un fragile equilibrio tra dire, manifestare e allo stesso tempo nascondere, coprire (anche per questo «all’obbligo di non cancellare si aggiunge, nel giudaismo, l’obbligo di “non pronunciare invano”»[178]).
Ma il testo talmudico offre un ulteriore «gradualismo» all’interno dei nomi da non cancellare, accordando un privilegio al Tetragramma, il «Nome “esplicito”» che reca in sé la strana condizione di non dover mai essere pronunciato»[179]. Per questo Adonai è il nome del Tetragramma, paradosso di un nome che ha un nome, «si mostra e si dissimula»[180]; e al contempo, modalità stra-ordinaria di manifestazione del senso che è sempre «anacoresi» e «santità», separazione.
L’analisi di Levinas prosegue sempre più in profondità, suscitando nuove domande che riguardano in particolare la questione dei contenuti del Nome:
Questo enigma o ambiguità della presenza e del ritrarsi, modalità, in qualche modo, formale, non riceve alcun significato, alcun contenuto? Questa anacoresi di Dio nella sua manifestazione […] è solo teologia negativa? Che cosa è in positivo?[181]
Per offrire una risposta, il nostro filosofo si appoggia ancora al testo talmudico e precisamente a quella parte finale in cui ci si chiede se i Nomi che figurano nei diversi libri della Bibbia siano tutti santi. L’analisi di alcuni episodi in cui effettivamente i «Nomi sono santi» mostra che «il Dio rivelato nei suoi nomi riceve un senso a partire da situazioni umane, di miseria e di felicità, nelle quali è invocato»[182]: la rivelazione acquista dunque un significato a partire da un orizzonte antropologico. La «prossimità più prossima» a Dio è inscritta nella responsabilità dell’uomo per l’altro uomo – questo il grande insegnamento della tradizione rabbinica ed ebraica. Il ritrarsi di Dio che si limita a dire i suoi ordini non annulla la manifestazione, non implica la «non-conoscenza», ma piuttosto apre «all’obbligo dell’uomo nei confronti di tuti gli altri uomini»[183]:
Secondo la parola del profeta (Geremia XXII,10), fissare il diritto del povero e dello sventurato, «ecco, certamente, quel che si dice conoscermi, dice l’Eterno». Conoscenza dell’inconoscibile, la trascendenza si fa etica[184].
A questo proposito, Levinas si sofferma sul termine Sebaoth, un Nome che secondo alcuni non avrebbe il carattere di santità. Obiezione che viene respinta dal nostro filosofo, poiché questo nome (il cui significato è quello di «moltitudini») fa riferimento ad Israele e dunque attraverso di esso l’Assoluto si fa conoscere in rapporto all’uomo, ed in particolare a tutta l’umanità. Queste le parole di Levinas:
Il riferimento a Israele è essenziale al Nome. La sua Santità è la santità che esso suggerisce, «al di là di ogni oggettivazione e di ogni tematizzazione», stanno precisamente a significare la costituzione di una società umana in stato di obbligazione. La nozione di Israele nel Talmud […] deve essere separata da ogni particolarismo, eccettuato quello dell’elezione. Ma l’elezione significa un surplus di doveri[185].
Il filosofo continua poi la sua riflessione, «sollecitando» e aprendo nuove prospettive di pensiero. Stavolta l’attenzione si concentra su un caso particolare in cui il Nome viene tracciato proprio con l’obiettivo di essere cancellato (cfr. trattato Sotà 53a e Sukkah 53b). L’episodio richiama un rito antichissimo da praticare nei confronti di una donna accusata di adulterio, descritto nel libro dei Numeri[186]. Ciò che è interessante notare è il fatto che il testo talmudico ricava da questa pratica un’idea sorprendente: la cancellazione del Nome è la riconciliazione degli umani. Il Nome infatti può essere eliminato al fine di ristabilire il legame tra marito e moglie, e questo a maggior ragione quando si tratta di «ottenere la pace nell’Universo»[187], come insegna la parabola del re Davide, riportata nel trattato Sukkah 53b[188]. La trascendenza del Nome di Dio, dunque, diviene cancellazione sfuggendo ogni tentativo di tematizzazione; ma questa cancellazione, questo ritirarsi non è altro che un appello alla responsabilità nei confronti del prossimo.
Lo stesso sfondo concettuale appartiene ad un ultimo apologo del trattato Shebuot 35b, in cui si sostiene che tutte le forme del Nome divino pronunciate da Abramo nella Bibbia sarebbero sante, ad eccezione di quella che troviamo in Genesi 18,3: «Adonai (Signore), se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare davanti al tuo servitore»[189]. Il nome Adonai in questo caso sarebbe riferito ad uno dei tre angeli che, in forma umana, fanno visita ad Abramo. I rabbini alimentano la discussione ribattendo con un nuovo apologo[190], e arrivando a sostenere che anche quel nome è santo poiché l’ospitalità offerta ai viandanti è più importante della presenza divina: «rivelazione che si trasforma in etica»[191], paradosso di una trascendenza teologica che, nel suo apparente isolamento, mi comanda nei confronti dell’altro uomo, autentico «senso del monoteismo abramitico»[192].
La soggettività umana si riscopre allora originariamente obbligata prima di ogni impegno, di ogni decisione assunta e passata al vaglio della ragione. Per questo motivo – conclude Levinas, riprendendo ancora un testo del trattato Kiddushin 71a – coloro che possono veramente accedere al nome di Dio si distinguono per «umiltà, discrezione, perdono delle offese»[193]; attribuzioni che non hanno soltanto il sapore di una virtù ma che « “rovesciano” la nozione ontologica della soggettività per collocarla nella rinuncia, nella cancellazione e in una passività totale»[194].
Dopo aver ripercorso le orme di Levinas, analizzando e commentando da vicino le sue parole, possiamo offrire una sintesi dei risultati raggiunti per quanto concerne il tema di nostra competenza. Se davvero Dio si è detto nella Torah – allora «questo fatto apre subito l’orizzonte etico»[195], poiché la rivelazione è anzitutto un obbligo, un comandamento, una legge, che per l’ebreo si esprime nelle mitzvot. Contro ogni pretesa di concettualizzazione, Dio rimane nascosto, irrappresentabile, estraneo alle logiche di possesso e com-prensione, ma viene propriamente all’idea nella concretezza della responsabilità, invitandomi all’accoglienza. Inoltre, pur essendo donata ad Israele, in virtù di una elezione, la Torah-rivelazione riguarda l’intera umanità e scavalca i confini del particolarismo privilegiato.
Esattamente questi sono i contenuti fondamentali di quel «pensiero d’Israele» che il nostro filosofo si preoccupa di far risaltare e di «tradurre in greco» all’interno degli scritti ebraici e delle letture talmudiche.
Scorrendo tra le pagine di questi testi, scopriamo allora che il senso della Rivelazione consiste nella «possibilità di una responsabilità per l’alterità dell’altro uomo»[196], radicata su quei comandamenti biblici che rappresentano un ribaltamento ontologico del conatus essendi: «Non ucciderai» e «Amerai il tuo prossimo». In queste due prescrizioni «significa il volto dell’altro»[197] ed è racchiusa emblematicamente tutta la Torah. E la parola «Dio», lungi dall’essere un’idea astratta, viene pensata concretamente in questo ordine originario, «“luogo” in cui l’Infinito discende dalle sue “altezze celesti”»[198].
A questo proposito, non deve sorprenderci che lo stesso Levinas parli di una vera e propria «kenosi di Dio», poiché in questo concetto intravede una modalità ontologica che può avere «un pieno significato nella sensibilità giudaica»[199].
In un articolo intitolato «Ebraismo e Kenosi», lontano da qualsiasi idea di incarnazione divina che finirebbe per negare la trascendenza e la separatezza (santità), Levinas mette in luce come «i termini che evocano la Maestà e l’Altezza di Dio sono spesso seguiti o preceduti da quelli che descrivono un Dio che si piega sulla miseria umana o che abita tale miseria»[200].
In particolare, rievocando un’antica parabola del Talmud sull’umiltà di Dio, il nostro filosofo giunge alla conclusione che la kenosi sia una modalità di rivelazione, e anzi la sola che l’uomo possa veramente accogliere. Si tratterebbe di una kenosi talmente radicale che Dio accetta persino «la contestazione della sua santità in un mondo incapace di mantenersi alla luce della sua Rivelazione»[201]. Levinas osserva inoltre come la Scrittura stessa non sarebbe altro che il luogo in cui «Dio è iscritto»:
Tutto è coeterno nella Scrittura e nei commenti. Ma anche rinnovamento e sviluppo continuo del senso letterale nelle diverse dimensioni del senso e nelle incessanti scoperte. Rinnovamento e sviluppo interiori, sorti sicuramente dalla stessa vita religiosa che viene vissuta a contatto con i testi, viventi anch’essi nella loro stasi: a contatto con un «Dio scritto». Vita religiosa che porta ed è portata da questi testi, d’accordo in questo con l’antica parabola dei Saggi di Israele che racconta di come i leviti che portavano nel deserto l’Arca santa fossero anche da questa condotti – parabola che rappresenta probabilmente la vera figura dell’ispirazione[202].
L’ultima frase del brano è particolarmente significativa poiché richiama il tema dello studio e dell’applicazione rigorosa alle Scritture: l’impegno per la Torah non può essere un passatempo, ma assume la forma di un autentico atto liturgico. La mia lettura, «qui ed ora», incarnata in un preciso momento della storia, contribuisce a mantenere quella rivelazione continua che si compie nella singolarità di ciascuno.
Da qui l’importanza dell’interpretazione, dello «studio valido come associazione, come alleanza, come socialità con Dio, con la sua volontà che non è certo incarnata, ma è iscritta nella Torah»[203]. L’appello all’esegesi, al Talmud e «all’Infinito rinnovarsi della Parola di Dio nel commento»[204] si pone come un orizzonte imprescindibile per l’ebreo moderno.
Levinas trae fino in fondo le conseguenze della sua impostazione, offrendo anche una ri-lettura specifica del modo di intendere il rapporto uomo-Dio e la stessa nozione di religione.
Opponendosi ad una visione numinosa e sacrale del monoteismo ebraico, che «trasporta l’uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri»[205], Levinas, come abbiamo visto, preferisce piuttosto la linea di una «demitizzazione». Per questo ribadisce con forza che «conoscere Dio significa sapere cosa bisogna fare»[206], poiché la relazione religiosa è primariamente una relazione etica:
L’etica non è il corollario della visione di Dio: è questa stessa visione. L’etica è un’ottica. Tutto ciò che so di Dio e tutto ciò che posso intendere dalla Sua parola e dire a Lui con ragionevolezza deve trovare un’espressione etica[207].
Il rapporto con il divino attraversa il rapporto con gli uomini e coincide con la giustizia sociale: ecco tutto lo spirito della Bibbia ebraica[208].
L’ordine etico non è una preparazione ma l’accesso alla divinità[209].
Oltre ad operare questa «desacralizzazione del Sacro» – come la chiama Levinas – , il legame tra etica e religione permette all’ebraismo di annunciare una diversa intelligenza della Parola, quella racchiusa nella formula biblica di Esodo 24,7 – naasse ve-nishma –: «noi faremo e ascolteremo» (tutte le parole del libro dell’Alleanza). Il filosofo francese torna a più riprese su questa espressione paradossale in cui si manifesta la priorità dell’etica sulla gnosis: davanti a tutto c’è la Torah, donata e accettata prima di conoscerla. Scandalo per la logica moderna, capovolgimento di un ordine che da sempre mette in campo un’analisi preliminare rifiutando la fede cieca.
Che cosa indica veramente questa massima? Levinas offre una possibile risposta in una delle sue letture talmudiche che riprende un testo del trattato Shabbath (88a-b)[210]. Criticando quella che viene chiamata la «tentazione della tentazione», ossia la tendenza a «subordinare qualsiasi atto al sapere che se ne può avere»[211], Levinas rivendica un diverso ordine in cui l’opposizione tra impegno e disimpegno, tra teoria e prassi non è più determinante: l’avvenimento della donazione della Torah, dove l’accettazione precede la libertà. Quest’ ordine invertito – agli occhi di Levinas – si rende possibile per il fatto che «il vero che si offre in questo modo è appunto il bene, che non lascia a chi l’accoglie il tempo di riflettere e di esplorare»[212] e attesta così una «responsabilità irrecusabile, al di là degli impegni presi»[213]. Accettare la Torah prima di esaminarla è la testimonianza di un patto col bene, antecedente all’alternativa del bene e del male, un modo di «attualizzare senza incominciare dal possibile»[214]. Per questo motivo, la relazione diretta col vero, così come l’abbiamo definita, può essere unicamente relazione con una persona, con l’altro: «la Torah è donata nella Luce d’un viso»[215].
Ancora una volta, Levinas conclude affermando il principio cardine della sua riflessione sulla trascendenza teologica: «la conoscenza integrale o Rivelazione è comportamento etico».
Un ultimo aspetto che vorremmo evidenziare riguarda il rapporto tra Israele e le nazioni, tra il particolarismo che caratterizza il popolo e l’universalismo. Come tenere insieme il concetto di elezione, di «popolo scelto da Dio» con l’universalità richiesta dal messaggio, che coincide con il tentativo di «traduzione in greco» che abbiamo richiamato più volte?
Quello di Israele è ancora una volta il paradosso di una «singolarità universalista», di un «essere con le nazioni» che è anche «essere-per-le-nazioni»[216]. L’elezione non assume il carattere di privilegio ma piuttosto significa surplus di doveri e responsabilità. Israele è categoria morale, propriamente quella di un «umanesimo del servo sofferente»[217] che invita ad una nuova antropologia e si apre ad una prospettiva storica dell’umanità. In Israele risuona quella parola profetica, parola per gli uomini di un Dio che si «rivela» ordinando la responsabilità per il prossimo.
[1] SALOMON MALKA, Leggere Levinas (a cura di Emilio Baccarini), Queriniana, Brescia, 1986, p.55
[2] EMMANUEL LEVINAS, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici (a cura di Giuseppe Lissa), Guida, Napoli, 1990, p.290
[3] Ivi, p.54
[4] AZZOLINO CHIAPPINI, Emmanuel Levinas lettore del Talmud, La Giuntina, Firenze, 1999, p.164
[5] Ibid.
[6] Le considerazioni che seguono sono tratte dal testo di A.C.AVRIL – P.LENHARDT, La lettura ebraica della Scrittura, (a cura di Alberto Mello), Edizioni Qiqajon, Magnano (VC), 1984
[7] Per il significato dei termini Avot e Mishnah si rimanda alle note del testo sopra citato.
[8] Per questa distinzione cfr. infra
[9] La Mishnah, conclusa alla fine del II secolo, rappresenta il codice fondamentale della letteratura rabbinica ed è formata da sei ordini per 63 trattati. La Gemara è invece il commento che segue la Mishnah in tutte le sue divisioni.
[10] Cfr. Ivi, pp. 127-196
[11] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.56
[12] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.156
[13] Ivi, pp.175-176
[14] Ivi, p.147
[15] Ibid.
[16] Cfr. Amare la Torah più di Dio, in Difficile libertà, cit., pp.179-183
[17] Ivi, p.180
[18] Ibid.
[19] Ivi, p.181
[20] Ibid.
[21] Ivi, p.182
[22] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.109
[23] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.182
[24] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.60
[25] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.225
[26] Cfr. A.C.AVRIL – P.LENHARDT, La lettura ebraica della Scrittura, cit., pp.23-75
[27] Ivi, pp.45-46
[28] Ivi, p.48
[29] Cfr. Ivi, p.52
[30] DAVID BANON., «Exégèse biblique et philosophie», in J. GREISCH e J. ROLLAND (a cura di), Emmanuel Lévinas. L’éthique comme philosophie première. Actes du colloque de Cerisy-la-Salle, 23 agosto – 2 settembre 1986, Cerf, Paris, 1993, p.209-227
[31] Ivi, p.209
[32] Ivi, p.210
[33] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.65
[34] MARC-ALAIN OUAKNIN, Le Livre brûlè. Philosophie du Talmud, Points, Paris, 1993, p.226
[35] CATHERINE CHALIER, Judaïsme et Altérité, Lagrasse, 1982, pp.207-208
[36] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.59
[37] Ibid.
[38] Ivi, p.218
[39] Ivi, p.229
[40] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.76
[41] DAVID BANON, «Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud», in J. ROLLAND (a cura di), Les Cahiers de «La nuit surveillée». Emmanuel Lévinas, Lagrasse, Verdier, 1984, p.107
[42] Ivi, p.108
[43] Ivi, p.109
[44] Per l’importanza di questa figura e l’influenza nel pensiero levinassiano vedi infra
[45] «Secondo un detto dei Pirké Aboth del Trattato dei principi del Talmud di Babilonia, la parole dei “dottori rabbinici”, la parola che enuncia o commenta la Torah, si può paragonare alla brace ardente. Un notevole talmudista […] Rabbi Chaim di Volozine, interpretava all’incirca così questa affermazione: la brace si anima sotto l’effetto del soffio, l’ardore della fiamma che così si mette a vivere dipende dalla lunghezza del soffio di colui che interpreta» (E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.189, nota 7)
[46] D.BANON, Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud, cit., p.109
[47] Ivi, p.110
[48] Cfr. E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., pp.179-196
[49] Ivi, p.179. Atteggiamento tipico di Levinas, all’inizio di ogni sua discussione talmudica, è proprio l’ammissione di inadeguatezza di fronte al testo, che non è affatto manifestazione di falsa modestia ma un riconoscimento della parzialità delle proprie posizioni, nel momento in cui il libro è «eccedente», il «non-detto» è sempre possibile.
[50] Ivi, pp.179-180
[51] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.85
[52] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.181
[53] Ibid.
[54] Ibid.
[55] Ivi, pp.181-182
[56] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.89
[57] Ivi, p.92
[58] Ibid.
[59]D.BANON, Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud, cit., p.104
[60] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.78
[61] E.LEVINAS, Quattro letture talmudiche (a cura di Alberto Moscato), Il Melangolo, Genova, 2000, p.35
[62] Ivi, p.33
[63]A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., pp.78-79
[64] D.BANON, Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud, cit., p.111
[65] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.290
[66] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, «La Bibbia e i Greci», in Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici (a cura di Silvano Facioni), Jaca Book, Milano, 2000, p.153
[67] WARREN ZEV HARVEY, Levinas on the vocation of Jewish philosophy, in I.KAJON, E.BACCARINI, F.BREZZI, J.HANSEL (a cura di), Emmanuel Levinas, Prophetic Inspiration and Philosophy, Firenze, Giuntina, 2008, p.79
[68] Ibid.
[69] D.BANON, Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud, cit., p.100
[70] E.LEVINAS, Etica e infinito, cit., p.51
[71] E.LEVINAS, «La Bibbia e i Greci», cit., pp.153-156
[72] Ivi, p.155
[73] Ivi, p.154
[74] Cfr. Ivi, pp.39-62
[75] Ivi, pp.61-62
[76] EPHRAIM MEIR, Athens and Jerusalem in Levinas’s Difficult Freedom, in I.KAJON, E.BACCARINI, F.BREZZI, J.HANSEL (a cura di), Emmanuel Levinas, Prophetic Inspiration and Philosophy, cit., p.88
[77] Ibid.
[78] Ivi, p.93
[79] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.205
[80] Ivi, p.206
[81] Ivi, p.221
[82] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.288
[83] D.BANON, Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud, cit., p.104
[84] S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.65
[85] Cfr. E.LEVINAS, Fuori dal Soggetto (a cura di Francesco Paolo Ciglia), Marietti, Genova, 1992, pp.11-24
[86] S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.66
[87] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.11
[88] Ivi, p.12
[89] Lo stesso Levinas fornisce una breve descrizione di questa corrente: «Movimento religioso che si era sviluppato nel XVII secolo. […] Questo movimento, nel cui ambito il sentimento gioca un ruolo considerevole, è considerato per la sua opposizione all’intellettualismo aristocratico del rabbinismo» (Ibid.)
[90] Cfr. in particolare Ivi, pp.14-15
[91] Ivi, p.15-16
[92] Levinas fa senz’altro riferimento all’opera di traduzione della Bibbia ebraica in tedesco, intrapresa da Buber dopo l’incontro con Rosenzweig a partire dal 1921.
[93] Ivi, p.19
[94] Cfr. E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., pp.227-249
[95] Cfr. E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., pp.51-68
[96] Cfr, STÉPHANE MOSÈS, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig, Paris, 1988, pp.7-16
[97] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.54
[98] Ivi, p.55
[99] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.229
[100] Cfr. FRANZ ROSENZWEIG, La Stella della Redenzione (a cura di G.Bonola), Marietti, Casale Monferrrato, 1985
[101] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.229
[102] Ivi, p.231
[103] Ivi, p.235
[104] Ivi, p.236
[105] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.59
[106] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.237
[107] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.60
[108] Ibid.
[109] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.238
[110] Ivi, pp.238-239
[111] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.60
[112] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., pp.61-62
[113] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.240
[114] Ibid.
[115] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.64
[116] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.240
[117] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.63
[118] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.32
[119] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.245
[120] Ivi, p.249
[121] E.LEVINAS, Fuori dal soggetto, cit., p.67
[122] Abbiamo tralasciato l’analisi del terzo scritto – la prefazione all’opera di Stéphan Mosès – perché non riguarda specificamente l’ebraismo e comunque non fornisce ulteriori spunti di riflessione.
[123] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.37
[124] S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.76
[125] RENATO PARASCANDOLO – SERGIO BENVENUTO, Emmanuel Levinas: «Il volto dell’altro», in https://antemp.com/2011/06/10/emmanuel-levinas-il-volto-dellaltro-intervista-di-renato-parascandolo-sergio-benvenuto/
[126] S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.57
[127] Intervista apparsa su Le Monde (2 novembre 1980), in S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.58
[128] Ibid.
[129] Cfr. SALOMON MALKA, Monsieur Chouchani. L’énigme d’un maître du XXe siècle, J.C.Lattes, Paris, 1994
[130] Ivi, p.77
[131] Ibid.
[132] Ivi, pp.77-78
[133] Allievo di Chouchani, Wiesel ne offre un ritratto nel suo scritto «L’ebreo errante», all’interno del romanzo Il canto dei morti: «Parlava molto e bene. Conosceva una trentina di lingue fra antiche e moderne, compreso lo hindi e l’ungherese. Il suo francese era puro, il suo inglese perfetto e il suo yiddish si armonizzava con l’accento dell’interlocutore. Ebreo errante, si sentiva a casa propria in tutte le culture. Sempre sporco, irsuto, aveva l’aria di un barbone divenuto pagliaccio, o di un pagliaccio che giocava a fare il barbone. Portava un cappello minuscolo, sempre lo stesso, su una testa immensa, rotonda, gonfia; i suoi occhiali, dalle lenti spesse e polverose, gli annebbiavano lo sguardo. […] Per tre anni a Parigi io fui suo allievo. Accanto a lui imparai molte cose sui pericoli del linguaggio e della ragione, sui furori del saggio e del folle, sul misterioso progredire di un pensiero attraverso i secoli, ma niente sul segreto che lo insidiava e lo proteggeva da un’umanità malata» (S.MALKA, Leggere Levinas, cit., pp.57-58)
[134] S.MALKA, Monsiuer Chouchani, cit., p.111
[135] Ivi, p.45
[136] Ivi, p.112
[137] EMMANUEL LEVINAS, Quattro letture talmudiche, cit., p.34
[138] S.MALKA, Monsiuer Chouchani, cit., p.25
[139] Ivi, p.27
[140] Ivi, p.26
[141] S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.117-118
[142] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.72
[143] EMMANUEL LEVINAS, «La lettre ouverte», in Cahier de l’Herne. Emmanuel Lévinas, Paris, 1991, p.366
[144] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.72
[145] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., .117
[146] S.MALKA, Leggere Levinas, cit., p.114
[147] RABBI HAYYIM DI VOLOZHYN, L’anima della vita (a cura di Alberto Mello), Qiqajon, Bose, 2016
[148] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.117
[149] Ivi, p.120, nota 46
[150] Cfr. RABBI HAYYIM DI VOLOZHYN, L’âme de la vie. Nefesh hahayyim, Verdier, Lagrasse, 1986 (préface d’Emmanuel Levinas, VII-X)
[151] Cfr. E.LEVINAS, «A immagine di Dio» secondo Rabbì Chaim Voloziner, in L’aldilà del versetto, cit., pp.237-255
[152] Per un approfondimento su questo tema rimandiamo a: CATHERINE CHALIER., «L’âme de la vie. Lévinas, lecteur de R.Haïm de Volozin», in Cahier de l’Herne. Emmanuel Lévinas, Paris, 1991, p.387-398
[153] D.BANON, Une herméneutique de la sollicitation. Levinas, lecteur du Talmud, cit., pp.104-105
[154] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.239
[155] RABBI HAYYIM DI VOLOZHYN, L’âme de la vie. Nefesh hahayyim, cit., VII
[156] Ibid.
[157] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.118
[158] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.226
[159] Cfr. E.LEVINAS, «Il Nome di Dio secondo alcuni testi talmudici», in L’aldilà del versetto, cit., pp.197-211
[160] Ivi, p.198
[161] Ibid.
[162] Ibid.
[163] Ibid.
[164] Ivi, p.199
[165] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.201
[166] E.LEVINAS, L’aldilà del versetto, cit., p.201
[167] Ibid.
[168] Ibid.
[169] Ibid.
[170] «Questi nomi [di Dio] si pronunciano in occasione della lettura ad alta voce della Bibbia, nelle preghiere, quando viene prestato giuramento e in diverse circostanze della vita rituale ebraica. Essi sono dichiarati santi» (Ivi, p.198)
[171] Ibid.
[172] Ivi, pp.201-202
[173] Ivi, p.202
[174] Ibid.
[175] Ibid.
[176] Ivi, p.203
[177] Ibid.
[178] Ibid.
[179] Ivi, p.204
[180] Ibid.
[181] Ivi, p.205
[182] Ibid.
[183] Ivi, p.206
[184] Ibid.
[185] Ibid.
[186] Scrive Levinas: «La donna sospettata, senza prove, di adulterio dal marito deve, secondo Numeri V, esser condotta dal marito geloso presso il pontefice del Tempio e sottomettersi a una prova […] A un certo punto, secondo il rito descritto nella Bibbia, il pontefice scongiurerà la donna: “Se un uomo ha avuto commercio con te, l’Eterno (scritto come Tetragramma) faccia di te soggetto d’imprecazione. (…) E la donna risponderà: “Amen, amen”. Il pontefice scriverà queste parole (tra le quali figura il Tetragramma) su un fogliettino. Le cancellerà nelle acque amare. In questa cancellazione verrà cancellato anche il Tetragramma scritto in vista di questa cancellazione» (Ivi, pp.206-207)
[187] Ivi, p.206
[188] «Il re Davide scava la terra per scoprire, nel punto in cui un giorno suo figlio erigerà il Tempio, la sorgente delle acque vive necessarie alle libazioni future dell’altare. Zampillano acque, impetuose, che minacciano di inondare l’universo. Come arrestare il cataclisma? Davide riceve allora un consiglio: “Al fine di ottenere la riconciliazione tra marito e moglie, la Torah ha insegnato che il mio nome, scritto in santità, venga cancellato nell’acqua. A maggior ragione questo deve esser fatto per ottenere la pace nell’Universo”» (Ivi, p.207)
[189] Ibid.
[190] «Per uscire dalla difficoltà, un apologo. Dio sarebbe apparso ad Abramo contemporaneamente ai tre passanti. È a lui che Abramo avrebbe detto: “Non passare, Adonai, davanti al tuo servitore”. Egli gli avrebbe detto: “Aspetta che riceva prima i tre viaggiatori”, perché i viandanti, oppressi dal calore e dalla sete, passano davanti all’Eterno nostro Dio» (Ivi, pp.207-208)
[191] Ivi, p.208
[192] Ibid.
[193] Ibid.
[194] Ibid.
[195] A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio, cit., p.210
[196] E.LEVINAS, Nell’ora delle nazioni, cit., p.153
[197] Ivi, p.127
[198] Ibid.
[199] E.LEVINAS, «Ebraismo e Kenosi», in Nell’ora delle nazioni, cit., pp.131-132
[200] Ivi, p.132
[201] Ivi, p.135
[202] Ivi, p.138
[203] Ivi, p.137
[204] Ivi, p.128
[205] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.31
[206] Ivi, p.34
[207] Ibid.
[208] Ivi, p.37
[209] Ivi, p.130
[210] Cfr. E.LEVINAS, Quattro letture talmudiche, cit., pp.67-97
[211] Ivi, p.74
[212] Ivi, p.91
[213] Ibid.
[214] Ivi, p.87
[215] Ivi, p.93
[216] E.LEVINAS, Nell’ora delle nazioni, cit., p.166
[217] E.LEVINAS, Difficile libertà, cit., p.213