Capitolo 2 – La «ricerca» di Dio nel pensiero di Levinas
Il tema della trascendenza teologica – e dunque la «questione-Dio» – riveste un ruolo fondamentale all’interno della riflessione levinasiana. Si tratta di un interesse che affonda le radici nell’appartenenza alla tradizione ebraica, ritenuta fonte di significati pre-filosofici, ma che coinvolge la stessa filosofia, chiamata a prendere coscienza di questa «origine» e a svilupparla con il proprio linguaggio. Del resto, Levinas ha una concezione ben precisa dei rapporti che intercorrono tra Bibbia e lògos e non si sottrae al compito di percorrere incessantemente quelle strade che conducono da «Gerusalemme» ad «Atene»[1].
A partire da questo quadro di riferimento, siamo comunque autorizzati a tracciare una linea di confine all’interno della produzione letteraria di Levinas e distinguere il «pensatore» dal «talmudista», il filosofo dal commentatore di testi rabbinici[2], consapevoli che le due sfere si sovrappongono e si influenzano reciprocamente (questo sarà anche uno dei nodi che tenteremo di mostrare nel corso della trattazione).
In questo capitolo, abbandonando la pretesa di esaustività, ci occuperemo innanzitutto di ripercorrere le «tracce» divine per via fenomenologica e scoprire in che modo «Dio viene all’idea» – per riprendere il titolo di un’opera di Levinas -, lasciando da parte le letture talmudiche e gli scritti sull’ebraismo cui il filosofo francese si è dedicato a partire dagli anni del dopo guerra.
2.1 Dai Carnets alla «traccia» di Dio
Fin dalle prime pubblicazioni autonome, Levinas tenta di inquadrare il «problema-Dio» all’interno di una cornice ben precisa: l’obiettivo principale del filosofo francese è quello di pensare la trascendenza teologica al di fuori delle categorie ontologiche che appartengono alla tradizione occidentale. La pensabilità di Dio è dunque legata a quel programma di superamento dell’ontologia classica che abbiamo cercato di delineare nel precedente capitolo.
Questa esigenza viene introdotta già a partire dal paragrafo conclusivo del saggio De l’evasion, pubblicato nel 1935:
Lo slancio verso il Creatore esprimeva un’uscita al di fuori dell’essere. Ma la filosofia applicava a Dio la categoria dell’essere, oppure lo indicava come Creatore; […] Il problema di Dio è rimasto il problema della sua esistenza[3].
Levinas, in sostanza, critica l’antica impostazione della problematica teologico-metafisica che «imprigiona» Dio nelle categorie dell’essere, pur considerandolo l’Essente supremo che fonda e mantiene gli altri essenti (un concetto ben espresso dall’idea di creazione).
Si tratterà di trovare una via alternativa a quella dell’onto-teologia tradizionale, un percorso nuovo che permetta di continuare a «dire Dio» senza la contaminazione dell’essere.
La recente pubblicazione di alcuni scritti inediti[4] che risalgono ad un arco temporale compreso tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Sessanta (prima dell’uscita di Totalità e Infinito) getta una nuova luce a conferma della nostra tesi e ci consegna le «bozze» di un lavoro che sarà sviluppato ampiamente nella riflessione successiva.
Gli appunti e le frasi contenute in questi testi, che spesso assumono la forma di veri e propri frammenti lapidari, restituiscono i primi tentativi di pensare Dio entro un orizzonte altro.
Levinas, fedele all’ insegnamento della tradizione biblico-ebraica, è consapevole innanzitutto che di Dio non possiamo mai «impadronirci» e che il divino mantiene un alone di mistero e di ineffabilità nei confronti della realtà. A questo proposito, così si esprime il filosofo francese in alcuni frammenti – spesso «enigmatici» – redatti durante gli anni della prigionia:
Eros -<xxxxxx>. Voluttà, socialità, Dio – specie del mistero. Varietà della temporalizzazione[5].
La teoria di Dio può svilupparsi solo attraverso Is. e il Messia. Elezione, ignoto dell’avvenire – il Mistero. Dio una certa temporalizzazione del tempo, un essere che non è soggettivo.
– Nell’esigenza della speranza per il presente c’è già Dio[6].
Eìdolon – il visibile – è l’essenziale dell’idolatria – Deus absconditus – mistero – il solo tratto del giudeo-cristianesimo che lo distingue da tutti i monoteismi puramente numerici[7].
Posizione ribadita anche in un appunto successivo, dove Levinas analizza l’idea di creazione ex nihilo, evidenziando la particolarità di questa nozione che non implica una «struttura dentro-fuori. Dio non è l’anima del mondo; il mondo non è il cogitatum di Dio»[8].
La relazione Dio-mondo – sembra sottolineare Levinas – non può darsi nei termini del rapporto intenzionale cogito–cogitatum, sul modello di quella correlazione necessaria che intercorre ad esempio tra l’atto del vedere e il dato che viene visto: il «darsi» di Dio si colloca su di un altro piano.
A questo proposito, particolarmente interessanti risultano alcune note filosofiche posteriori sul concetto di metafora, in cui Lèvinas accenna al tema dell’Assoluto intravedendo una possibile via d’uscita. Si tratta di appunti sparsi, intuizioni che non troveranno necessariamente una completa sistematizzazione in Totalità e Infinito ma che rivelano una traccia di ricerche filosofiche contemporanee alla stesura dell’opera[9]. Di seguito riportiamo una serie di citazioni che chiariscono la posizione del filosofo francese:
La meraviglia delle meraviglie della metafora, è la possibilità di uscire dall’esperienza, di pensare più lontano dei dati del nostro mondo. Cos’è uscire dall’esperienza? È pensare Dio. Nonostante l’impossibilità della riflessione totale. La pretesa di essere al di sopra dell’esperienza, la messa tra virgolette di ogni esperienza –è pensare Dio. Il sospetto dell’al di là, è già al di là[10].
Senza metafora non si può intendere la voce di Dio […] Dio è la metafora stessa del linguaggio –il fatto di un pensiero che si alza al di sopra di sé medesimo […] La metafora è un al di là, la trascendenza[11].
Termini metaforici per eccellenza – il cui contenuto stesso è metafora: Dio, Assoluto, al di là dell’Essere, aldilà[12].
La metafora delle metafore – Dio[13].
Il pensiero di Dio è un pensiero al di fuori dell’esperienza, esattamente come quello metaforico. Attraverso questo accostamento terminologico, Levinas insiste ancora una volta sull’inconsistenza del «metodo» tradizionale che per secoli ha tentato di raggiungere la trascendenza: Dio è al di là dell’essere, fuori, lontano dalla nostra pretesa di «com-prensione», poiché «lo spirituale si definisce per mezzo dell’altezza piuttosto che per mezzo dell’esistenza»[14], e anzi «il problema consiste nel determinare il piano di questa relazione con Dio che non è una prova dell’esistenza di Dio»[15]. Non ci sorprenderà allora che il pensatore francese si esprima in questi termini:
Dio non è un essere perfettamente essere, nemmeno un essente che esiste altrimenti che l’essere. Dire che è pensato, è dire che è altrimenti che l’essere e non soltanto che è altrimenti[16].
Si tratta di parole sicuramente «familiari» per i lettori di Levinas e che richiamano direttamente il titolo di una delle opere più celebri, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. Non a caso, nella nota preliminare di questo scritto, uno degli obiettivi basilari indicati da Levinas è precisamente «intendere un Dio non contaminato dall’essere»[17]: sarà questa, come vedremo, una possibile via alla trascendenza teologica.
Tuttavia, all’interno degli scritti inediti siamo in grado di rintracciare ancora alcune piste di riflessione per il nostro tema. Levinas, infatti, sembra voler conferire una «concretezza fenomenologica» alla questione del divino: se da un lato Dio è «irraggiungibile», «irrivelato»[18], «metafora per eccellenza»[19]– per riprendere ancora le parole del nostro filosofo -, dall’altro è possibile scorgere un «indizio» della sua presenza misteriosa.
«Traccia», «trascendenza d’Altri», «volto»: sono questi alcuni termini-chiave che saranno sviluppati a partire da Totalità e Infinito e che indicano fin d’ora una seconda via alla trascendenza teologica. Lasciamo che sia ancora una volta Lèvinas a parlare, riportando alcuni appunti dei suoi Quaderni:
Gli oggetti ricevono significati per il fatto di porsi nella trascendenza d’Altri: orientamento verso Dio[20].
Ma Dio è l’Irrivelato – affinché la rinuncia alla ricompensa non sia compromessa. Il senso esige, nello stesso tempo, l’azione garantita nel suo compimento e sottratta ad ogni ricompensa – ad ogni contemporaneità – e di conseguenza un Dio irrivelato o rivelato nell’irriconoscenza: volto d’Altri. Quanto a Dio, traccia, passato, eternità[21].
E ancora:
Dio non si definisce dunque attraverso l’essere ma attraverso qlcs. di più della Personalità – più della Sovranità dell’Io: Colui che può far apparire la miseria del soggetto <xxxxxx> come colui che dona[22].
Quanto possiede un significato per sé è il volto. Porta l’investitura del Creatore. Il volto è la creatura per eccellenza[23].
Si tratta di espressioni lapidarie e spesso lacunose, da interpretare complessivamente alla luce degli scritti successivi, ma che già indicano una direzione di pensiero ben precisa. Citando ancora una volta Levinas potremmo dire che «essere con Dio» significa innanzitutto «elevarsi», «salire»[24], fuori da ogni categoria ontologica, poiché «la teologia è per eccellenza l’opposto dell’ontologia»[25].
In questa prima parte del presente capitolo abbiamo cercato di mostrare come la riflessione precedente a Totalità e Infinito contenga in nuce, in particolare sotto forma di appunti e frammenti, quelle indicazioni che saranno sviluppate successivamente per affrontare la «questione Dio». Nel prosieguo del nostro lavoro ci soffermeremo, dunque, sui due principali modi di significazione della trascendenza teologica in termini filosofici: la «traccia» presente nel volto d’Altri e la soggettività responsabile dell’uomo.
2.2 Una «traccia» di Dio nel volto dell’Altro
Nel capitolo precedente, alla fine della sezione dedicata all’analisi di Totalità e Infinito, avevamo brevemente accennato al tema della «curvatura dello spazio intersoggettivo» come luogo della «presenza stessa di Dio»[26]. Levinas, infatti, collocava la relazione etico-metafisica tra il Medesimo e l’Altro non all’interno di uno spazio omogeneo, ma sullo sfondo di una spazialità asimmetrica, che dall’Io si rivolgeva all’«Altezza» e alla «Maestosità» di Altri. Se davvero l’essere è esteriorità radicale, assoluta, allora la sua verità non può darsi in termini di immagine o di idea, ma mi raggiunge dall’alto di una distanza che «deforma la visione»[27]. Il volto nudo dell’Altro, in sostanza, mi chiama e mi interpella istituendomi come soggetto responsabile ma senza reciprocità: la sua «espressione» ed il suo comando a non uccidere giungono da un livello più alto di me. Levinas parlava in proposito di « “curvatura” dello spazio intersoggettivo in cui si effettua l’esteriorità come superiorità»[28] e indicava questo campo come l’espressione della «relazione tra esseri umani»[29]: l’uomo in quanto Altri è «separato – o santo – volto»[30] e la sua verità (ovvero l’appello che mi lancia) è una «sporgenza» sull’essere.
A conclusione del ragionamento, il filosofo francese suggeriva poi di intendere questo spazio asimmetrico come «l’intenzione divina di ogni verità»[31], nonché presenza di Dio.
Riprendendo le parole di Ferretti, siamo autorizzati a pensare che «questa metafora dello spazio curvo, solidale con le caratteristiche di Infinito e di Maestà del volto, non tende certo ad identificare l’Altezza infinita del volto d’Altri come l’Altezza stessa di Dio, ma ne offre come una traccia»[32].
Pur nella forma di una semplice allusione, Levinas sembra intendere che nella trascendenza etica del volto sia possibile individuare una «traccia» della trascendenza teologica. Ad ogni modo, è lo sviluppo complessivo della riflessione che delinea con chiarezza il motivo fondamentale di queste affermazioni: ogni discorso su Dio deve passare necessariamente dall’analisi delle relazioni etiche interpersonali. Levinas lo sottolinea più volte proprio all’inizio dell’opera:
La dimensione del divino si apre a partire dal volto umano. Una relazione con il Trascendente – libera però da qualsiasi influenza del Trascendente – è una relazione sociale[33].
È necessario un atto di giustizia – la rettitudine del faccia a faccia – perché si produca il varco che porta a Dio – e la «visione» coincide qui con questo atto di giustizia[34].
E ancora, nelle righe successive:
Non può esserci nessuna «conoscenza» di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini. Altri è proprio il luogo della verità metafisica, indispensabile al mio rapporto con Dio. […] Altri non è l’incarnazione di Dio, ma appunto attraverso il suo volto, nel quale è disincarnato, la manifestazione della maestosità nella quale Dio si rivela[35].
Se in Totalità e Infinito si trattava di una semplice segnalazione, negli anni successivi il tema della «traccia» trova una trattazione più articolata, in particolare all’interno di due saggi contenuti nella raccolta Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, intitolati rispettivamente La traccia dell’altro (1963) ed Enigma e fenomeno (1965)[36].
Il volto dell’Altro che si presenta nella sua miseria e nudità, nella sua supplica esigente e che «scuote» la mia coscienza, consentendo all’Io di riscoprirsi come infinitamente responsabile di fronte ad Altri – questo volto – sostiene Levinas – proviene «da una sfera assolutamente estranea»[37], «da un assoluto che, del resto, è il nome stesso dell’estraneità innata»[38]. Si tratta di un al di là che «è proprio al di là del “mondo”, e cioè al di là di ogni disvelamento»[39]: paradosso di una relazione con un’Assente che non indica e non rivela, ma che tuttavia significa nel volto. L’astrattezza del volto – sottolinea ancora Levinas – è «visitazione e venuta», ma non è il risultato di un processo logico[40] ; «la sua meraviglia deriva dall’altrove da cui proviene e in cui subito si ritira»[41], in un processo estraneo a qualsiasi rimando simbolico. Quale tipo di relazione, dunque, è qui in gioco? Levinas individua una terza via possibile oltre la rivelazione e la dissimulazione nel rapporto che va dal volto all’Assente:
L’al di là da cui viene il volto significa in quanto traccia. Il volto si trova nella traccia dell’Assente assolutamente tale[42].
La particolarità della traccia risiede nel fatto che in essa «il significato e la significazione non sono in rapporto di correlazione, ma la loro relazione è invece la non-rettitudine stessa»[43].
Di contro a qualsiasi «statuto del rivelato e del dissimulato», per il quale la trascendenza si annulla ed entra nell’ordine dell’immanenza, nella significazione della traccia siamo immersi in un «passato irreversibile» e «immemoriale»[44].
Pur svolgendo il ruolo di segno, la traccia si distingue per una caratteristica peculiare: «essa significa al di fuori di ogni intenzione di far segno e al di fuori di ogni progetto di cui sarebbe la mira»[45]. Quel particolare modo di essere in quanto lasciare traccia ha il significato di «passare, partire, assolversi»[46]. La specificità della traccia è proprio la capacità di non rivelare né nascondere nulla, di diventare «presenza di ciò che, propriamente parlando, non è mai stato qui, di ciò che è sempre passato»[47]. La traccia, in definitiva, «sfugge a quel gioco bipolare tra l’immanenza e la trascendenza dell’essere»[48], in cui il Medesimo assorbe l’Altro, e rimanda ad un «al di là dell’Essere»:
L’al di là dell’Essere è una terza persona che non viene definito dal Se stesso e dall’ipseità. […] Il pronome Egli esprime proprio la sua inesprimibile irreversibilità, che è tale perché sfugge ad ogni rivelazione e a ogni dissimulazione, e, in questo senso, è assolutamente non inglobabile o assoluto, trascendenza in un passato as-soluto[49].
Levinas, coniando un neologismo, indica con il termine «illeità» (illeitè) questo passato irreversibile, questa «terza direzione di radicale non rettitudine»[50] non riconducibile né alla prima persona, né al tu, che indicano invece una relazione di reciprocità.
Il volto, dunque, «visitazione e trascendenza», si inserisce nella traccia dell’illeità, che si colloca al di fuori della distinzione tra essere ed ente, in una dimensione di divinità e superiorità.
Nella parte conclusiva del saggio, Levinas fa riferimento proprio al tema della trascendenza del volto come «traccia» della trascendenza teologica, cercando di evidenziare nuovamente la portata etica della sua riflessione, in riferimento al passo biblico di Esodo 33:
Il Dio che è passato non è il modello di cui il volto sarebbe l’immagine. Essere a immagine di Dio non significa essere l’icona di Dio, ma trovarsi nella sua traccia. Il Dio rivelato della nostra spiritualità giudaico-cristiana conserva tutto l’infinito della sua assenza nell’ordine personale stesso. […] Andare verso di Lui non significa seguire questa traccia che non è un segno, ma andare verso gli Altri che si trovano nella traccia[51].
Ancora una volta il filosofo francese ribadisce che qualsiasi ricerca di Dio non può prescindere dal piano etico. Contro ogni pretesa ontologico-teoretica che «prende di mira» il divino per «assorbirlo», l’uomo può avvicinarsi a Dio solo rispondendo alla chiamata del volto d’Altri, inserito nella traccia della sua trascendenza assoluta.
Questo modo particolare di significare la trascendenza viene sviluppato anche attraverso la nozione di enigma, contrapposta a quella di fenomeno. Nel breve saggio pubblicato nel giugno 1965, Levinas rinnova la sua critica alla filosofia come «comprensione dell’essere, o ontologia, o fenomenologia» che si caratterizza per il suo radicamento nel «presente»: «l’essere e il discorso hanno lo stesso tempo»[52] – afferma il filosofo francese – e qualsiasi discorso non ancorato al presente sarebbe insensato, poiché «al di là della ragione». Eppure, nella nozione del «Bene al di là dell’essere» o di «Dio» – concetti che esprimono la trascendenza – il pensiero umano ha intravisto un elemento in cui «la distinzione tra la presenza e l’assenza non era così netta come l’idea dell’essere […] raccolto e annodato attorno al presente avrebbe richiesto»[53]. Questa «invisibilità di Dio» appartiene ad un altro piano che rifugge la correlazione tra soggetto e oggetto, «l’ordine indistruttibile dell’essere», la «simultaneità non sfasabile»[54], la totalità che tutto ingloba.
In particolare, la trascendenza significata dal volto d’Altri – così come pensata da Levinas – è ciò che opera un vero e proprio «sconvolgimento irriducibile»[55], che «sconvolge l’ordine senza turbarlo seriamente»[56]: movimento che «s’insinua, si ritira ancora prima di entrare»[57] e rimane solamente per chi vuole seguirlo. Una modalità del tutto nuova di «manifestarsi senza manifestarsi», «in cui l’Altro cerca il mio riconoscimento pur conservando la sua incognita», poiché spetta soltanto a me «trattenere o respingere questo Dio privo d’audacia»[58]: Levinas chiama questo procedimento «enigma», in opposizione all’apparire del «fenomeno».
L’enigma «è la trascendenza stessa, la prossimità dell’Altro in quanto tale»[59] e la sua significatività – come lo era quella della traccia – risulta estranea al gioco della conoscenza e delle alternative ontologiche soggetto-oggetto, Io-Tu; «l’enigma ci raggiunge dall’Illeità»[60], da un Egli alla terza persona ed è il modo dell’As-soluto, che impone una versione del tempo diversa da quella della contemporaneità dell’essere, «passato irrecuperabile».
In questa prospettiva, comprendiamo che il volto è ciò che appare in quanto tale, come prossimità che «disturba» l’ordine, poiché proviene «enigmaticamente dall’Infinito e dal suo passato immemoriale»[61]: il volto rimanda – ancora una volta – ad un al di là dell’Essere.
La nozione di enigma, dunque, ci parla di una «originaria anteriorità di Dio in un mondo che non può ospitarlo», di quell’ «Uno al di là dell’essere che ogni filosofia avrebbe voluto dire».[62]
Un ultimo aspetto da sottolineare riguarda infine la configurazione non-violenta della trascendenza teologica, così come emerge nei modi di significare della traccia e dell’enigma. Come osserva Ferretti, Levinas prende le distanze da una concezione “sacrale” della trascendenza divina, che implica violenza nei confronti dell’uomo, e delinea invece un modo di verità che si qualifica come “verità perseguitata”, sulla scia del pensiero di Kierkegaard[63]. Queste le parole di Levinas in proposito:
Il Dio che ha parlato non ha detto nulla, è passato in incognito, nella luce del fenomeno tutto lo smentisce, lo rifiuta, lo rimuove, lo perseguita. Il Dio kierkegaardiano che si rivela solo per essere perseguitato e misconosciuto […] è un modo della verità che, in questo caso, non è determinata dal fenomeno. […] Il Dio ai margini, “verità perseguitata”, non è solamente una “consolazione” religiosa, ma il disegno originario della “trascendenza”[64].
A partire dalle analisi condotte finora possiamo tracciare alcune conclusioni relative al tema del nostro interesse, ovvero i modi di significazione della trascendenza teologica. Innanzitutto, Levinas si colloca al di fuori di qualsiasi «oggettivazione» della categoria «Dio» e critica fortemente quei tentativi di definire la trascendenza in termini teoretico-ontologici: la “conoscenza” di Dio passa innanzitutto dal piano etico. Una posizione ribadita già durante la discussione seguita alla conferenza «Trascendenza e altezza» del 1962[65], quando Levinas sostiene che si può parlare di Dio soltanto a partire dalle relazioni umane e non mediante una «concettualizzazione» astratta[66].
Non è un caso, allora, che il filosofo francese chiami in causa la relazione etico-metafisica: l’Altro che si manifesta nel suo volto nudo non è una semplice imago Dei ma “traccia” che si inscrive nella trascendenza assoluta, e Dio lo si raggiunge precisamente rispondendo all’appello di Altri.
Tuttavia, questa chiamata alla responsabilità può essere rifiutata, scartata, rimandata. Per questo motivo la trascendenza teologica non si impone come verità “rivelata” ma piuttosto “perseguitata”: la possibilità di accoglierla dipende in ultima istanza soltanto da noi.
Proprio il tema della soggettività responsabile sarà l’elemento centrale della riflessione levinasiana successiva per aprire una seconda via alla trascendenza divina.
2.3 Gloria dell’Infinito e a-Dio
Nel primo capitolo del presente lavoro avevamo cercato di delineare il progetto levinasiano della soggettività responsabile così come indicato nelle pagine di Altrimenti che essere[67]. Le conclusioni cui eravamo giunti trovano una loro sintesi nelle seguenti affermazioni del filosofo francese: «Questo libro ha esposto la significazione della soggettività nella quotidianità stra-ordinaria della mia responsabilità per gli altri uomini […] la mia passività, la passività in quanto l’uno-per-l’altro […] L’uno-per-l’altro, fino all’uno-ostaggio-dell’altro»[68].
L’identità dell’io umano si definisce nei termini di una «deposizione» a favore di altri, di una responsabilità illimitata e irrecusabile per altri. «Siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più degli altri»: la citazione di Fëdor Dostoevskij, ripresa più volte dallo stesso Levinas[69], incarna in modo emblematico questa concezione del soggetto come «ostaggio» e «sostituto» dell’Altro. In questo senso, l’umano, al suo fondo, è «di-inter-esse», ovvero «l’essere che si disfa della sua condizione di essere»[70], o «altrimenti che essere».
Ai fini del nostro lavoro, occorre ricordare nuovamente quanto già evidenziato nelle pagine precedenti a proposito della stretta correlazione tra il tema della soggettività responsabile e quella della trascendenza di Dio[71]. Lo stesso Levinas, del resto, aveva indicato con chiarezza questa convergenza tematica fin dall’incipit dell’opera:
Il problema della trascendenza di Dio e il problema della soggettività irriducibile all’essenza, irriducibile all’immanenza essenziale, procedono insieme[72].
Per mettere in luce questo aspetto occorre richiamare la nozione di «gloria dell’Infinito», introdotta da Levinas nella parte conclusiva dell’opera.
Una volta impostata su nuove basi la soggettività come vera e propria trascendenza sull’essere, attraverso la costruzione e l’analisi di una terminologia adeguata (ostaggio, sostituzione, persecuzione, vulnerabilità, prossimità…), Levinas ha di fatto operato un passaggio dal significato ontologico a quello etico. Il soggetto è propriamente un «io sotto convocazione»[73], destinatario di un comando «a cui non si può che rispondere “eccomi” in cui il pronome “io” è all’accusativo»[74]. Precisamente in questo «enunciato di un “eccomi” che non si identifica a niente se non alla voce stessa che si enuncia e si abbandona» consiste la sincerità del Dire. E il senso di questa sincerità, di questa passività più passiva del soggetto, il «fare così segno al punto di farsi segno»[75] rimanda alla «gloria dell’Infinito»:
La gloria dell’Infinito è l’identità an-archica del soggetto scovato senza possibilità di scampo, io portato alla sincerità, facendo segno ad altri – di cui e dinanzi al quale io sono responsabile – di questa donazione stessa di segno, cioè di questa responsabilità: «eccomi»[76].
Lontano da ogni rivelazione e manifestazione, poiché l’apparire come tema la smentirebbero, questa «infinizione dell’infinito» proviene da un passato immemoriale, mai presentato e rappresentabile in un Detto. Essa «si glorifica attraverso l’uscita del soggetto fuori dagli angoli bui del “quanto a sé”»[77], attraverso la responsabilità che impedisce al soggetto di nascondersi dall’ossessione dell’Altro.
In questo senso, l’«Eccomi» è una «testimonianza dell’Infinito»[78]. Senza mai rivelarsi, farsi presente, dis-velarsi in un qualche Detto, è solo grazie alla voce del testimone che «la gloria dell’Infinito si glorifica»:
L’Infinito non ha dunque gloria che attraverso la soggettività, attraverso l’avventura umana dell’approssimarsi all’altro, attraverso la sostituzione all’altro, attraverso l’espiazione per l’altro[79].
La passività del soggetto, il peso che lo investe e lo ossessiona fino alla sostituzione «esplode in Dire», e l’esteriorità dell’Infinito – pensiero sempre eccedente – «diviene interiorità nella sincerità della testimonianza», diventa una voce “interiore” che «mi concerne e mi circonda e mi ordina attraverso la mia stessa voce»[80]. La testimonianza è, dunque, la modalità particolarissima dell’Infinito di «iniziare» e «significare».
Riprendendo un termine già utilizzato nei saggi precedenti, Levinas chiama «illeità» (illeitè) questa significazione dell’Infinito, che sfugge a qualsiasi tentativo di tematizzazione, sempre alla terza persona. L’Infinito mi comanda da un «non so dove», ancor prima di intenderlo e rappresentarlo, «mi ordina il “prossimo” come volto senza esporsi a me»[81]. L’accadere dell’Infinito è precisamente questa obbedienza anteriore a qualsiasi rappresentazione o ascolto ma senza costrizione o dominazione, questo approssimarmi ad Altri sempre in ritardo: in una parola, profetismo, «“Eccomi, in nome di Dio”, senza riferirmi direttamente alla sua presenza»[82].
La trascendenza dell’Infinito o Dio è possibile dunque solo attraverso il soggetto, in un rovesciamento dell’ordine: «la rivelazione avviene attraverso colui che la riceve»[83], ma non al modo di una esibizione oggettiva di un “io credo in Dio” – bensì nell’«Eccomi» della testimonianza, unico vero segno che «mi significa in nome di Dio al servizio degli uomini che mi riguardano»[84]. In questa prospettiva, risulta più chiaro il senso della seguente affermazione che ben sintetizza le analisi condotte finora:
Nella convocazione assoluta del soggetto si ode enigmaticamente l’Infinito: l’al di qua e l’al di là[85].
In sintesi, Dio, o l’Infinito, è ciò che significa «come il “donde” immemorabile e l’“a cui” senza fine della soggettività responsabile»[86], poiché il soggetto si trova investito preliminarmente da una chiamata al Bene, che lo obbliga ancor prima di qualsiasi scelta, e questa sua responsabilità si pone come “infinita” nei confronti dell’altro. Illeità, «sconvolgente avvenimento della parola Dio»[87], l’Infinito è testimoniato dal soggetto che si espone all’appello dell’Altro in assoluta gratuità.
Nel dire «Eccomi», il soggetto realizza un moto contrario a quello della persistenza nell’essere, a quello del conatus essendi, e manifesta così un qualcosa che si pone al di là della vita e della morte, propriamente un «altrimenti che essere», una «gloria dell’Infinito».
Questo è anche il senso della chiusa finale che troviamo in Altrimenti che essere:
In quest’opera che non cerca di restaurare nessun concetto decaduto, la destituzione o de-situazione del soggetto non restano senza significato: dopo la morte di un certo dio abitante dietro ai mondi, la sostituzione dell’ostaggio scopre la traccia – scrittura impronunciabile – di ciò, che, sempre già passato – sempre «esso» (il) – non entra in nessun presente e a cui non convengono più i nomi designanti gli esseri, né i verbi in cui risuona la loro essenza – ma che, Pro-nome, segna col suo sigillo tutto ciò che può portare un nome[88].
La riflessione sulla trascendenza teologica, così come emersa dall’analisi condotta finora, viene ulteriormente esplicitata in alcuni scritti successivi. A questo proposito, è opportuno richiamare la collezione di saggi intitolata Di Dio che viene all’idea, pubblicata per la prima volta in Francia nel 1982[89]. Raccogliendo dialoghi, conferenze e note varie in un arco temporale compreso tra gli anni 1972-1980, Levinas tenta di condurre «una ricerca sulla possibilità – o anche sul fatto – d’intendere il termine Dio come significante»[90], a prescindere da qualsiasi dichiarazione di fede o di ateismo, ovvero «indipendentemente dal problema della esistenza o non esistenza di Dio»[91]. Levinas, in sostanza, tenta di indicare una modalità in cui Dio viene all’idea, di indagare quella «concretezza fenomenologica in cui questa significazione potrebbe significare o significa»[92]. Tra gli scritti che compongono questa raccolta, risulta particolarmente significativo il testo Dio e la filosofia che troviamo nella seconda sezione dell’opera[93].
Riprendendo la consueta critica alla metafisica occidentale, elaborata fin dagli esordi del suo pensiero, Levinas si chiede se sia possibile impostare un discorso su Dio «che non sia né ontologia né fede»[94], ovvero se esista un modo per dire la trascendenza senza interpretarla «in termini di essere, di presenza e di immanenza»[95].
Di fronte ad una filosofia che riduce la questione della verità ad una esposizione tematica, ad una tematizzazione e manifestazione dell’essere, in realtà l’idea di Dio – o dell’Infinito – è qualcosa che rompe l’immanenza della coscienza. Levinas, come abbiamo già osservato in precedenza, prende in prestito le argomentazioni di Cartesio e la sua capacità di disegnare «con un rigore ineguagliabile, il percorso straordinario di un pensiero che procede fino alla rottura dell’ “io penso”»[96]. L’idea di Dio è ciò che fa esplodere il pensiero e anzi «è Dio in me, ma già Dio che rompe la coscienza che intenziona le idee»[97].
L’idea dell’Infinito in noi rimanda, da un lato, a quella «passività più passiva di ogni altra passività»[98] che ha sede nella coscienza e, dall’altro, al tema del Desiderio, già ampiamente sviluppato nell’opera del 1961. L’Infinito, quel di più nel di meno, «ciò che significa al di qua di ogni sua manifestazione»[99], si incarna concretamente nella soggettività come tensione tra Desiderante e Desiderabile, appunto come Desiderio dell’Infinito, che mai può trovare un appagamento, a differenza del bisogno: «dis-interessamento, trascendenza – desiderio del Bene»[100].
Per salvaguardare totalmente questa trascendenza – e fare in modo che il Desiderio dell’Infinito non venga assorbito nelle trame dell’immanenza – Levinas, nel solco della riflessione maturata in Altrimenti che essere, suggerisce che il Desiderabile – Dio o l’Infinito – «resti separato nel Desiderio», «prossimo ma differente – Santo»[101]. Questa particolare «posizione» è resa possibile dal fatto che il Desiderabile mi ordina verso ciò che non è Desiderabile, ovvero ad altri: Dio è l’irraggiungibile, il separato poiché rinvia al prossimo, «all’indesiderabile per eccellenza»[102]. La modalità di questo rinvio viene indicata da Levinas con il termine «illeità» (illeitè), un concetto già utilizzato negli scritti precedenti:
Intangibile, il Desiderabile si separa dalla relazione del Desiderio che essa chiama e, in forza di questa separazione o santità, rimane terza persona: Egli (Il) al fondo del Tu[103].
Dio, quel «Bene in senso eminente», «bontà del Bene» è ciò che orienta verso l’altro, «ciò che mi costringe alla bontà»[104]. In questo senso, la soggettività si riscopre «di colpo all’accusativo» e l’io, obbedendo ad un comando ancor prima di averlo sentito, viene eletto ad una responsabilità infinita nei confronti del prossimo, fino all’ostaggio e alla sostituzione.
Per questo motivo, il filosofo francese rivendica ancora una volta quel primato dell’etica sull’ontologia e afferma che «l’essere buono è eccellenza ed altezza al di là dell’essere»[105]: la vera trascendenza è appunto l’etica.
Nelle pagine conclusive del saggio, Levinas si concentra sul tema della responsabilità e tenta di approfondire i concetti di testimonianza e ispirazione, già richiamati in Altrimenti che essere. La prossimità del prossimo, autentica «rottura diacronica», elezione, «responsabilità che non lascia tempo»[106], in quanto nessuno può sostituirsi a me – ma anche responsabilità «che si accresce nella misura – o dismisura – in cui la risposta è mantenuta»[107]; ebbene questa «uscita» continua da se stessi rappresenta propriamente una «testimonianza dell’Infinito, modalità di questa gloria»[108]. Nel suo «eccomi» detto al prossimo, «svuotandosi» di se stesso e aumentando infinitamente la responsabilità, l’io diviene «testimonianza – o traccia, o gloria – dell’Infinito»[109]. Questo eccesso, questa dismisura del «per l’altro» è esattamente la prima parola, o più precisamente Dire, «modalità del significare prima di ogni esperienza», antecedente ad ogni Detto»[110], Dire come testimonianza. La soggettività esprime l’Infinito – o Dio – in quell’ «accusativo meraviglioso»[111] che la consegna al prossimo; l’Infinito accade in quanto io, prima di ogni impegno, rispondo d’altri avvertendo un ordine che mi comanda di servirlo.
Levinas utilizza il termine ispirazione per indicare «l’intrigo dell’infinito in cui io mi faccio l’autore di quel che ascolto». La testimonianza pura è quella del «profetismo», poiché il soggetto si fa tramite di ciò che annuncia e obbedisce all’ordine ancor prima di ogni svelamento. Dio – l’Infinito – si risveglia soltanto nel profetismo, contro qualsiasi tentativo di oggettivazione e tematizzazione: la trascendenza significa in quanto ordina, e dunque – sottolinea ancora il filosofo francese – significa con modalità etica.
La chiusa finale del saggio Dio e la filosofia ci consegna in sintesi i risultati della riflessione levinasiana:
La trascendenza come significazione e la significazione come significazione di un ordine dato alla soggettività prima di ogni enunciato: puro un-per-l’altro[112].
A conferma delle analisi che abbiamo condotto finora possiamo richiamare altri scritti che fanno parte della raccolta Di Dio che viene all’idea[113]. L’obiettivo di Levinas rimane quello di mostrare una via alternativa in cui sia possibile «pensare» la trascendenza di Dio senza ridurla a categorie ontologiche e immanenti. L’idea dell’Infinito rompe con l’intenzionalità, con «il tempo della coscienza che si presta alla rappresentazione»[114], con una teologia «rimasta pensiero dell’Identità e dell’Essere»[115] e apre ad una «relazione s-quilibrata»[116], a ciò che non potrebbe comprendersi, inglobarsi, toccarsi. La trascendenza rimane qualcosa di irriducibile alle strutture di bisogno da soddisfare proprie dell’intenzionalità; in essa si annuncia una differenza che è «non-in-differenza», affezione, «radicalmente distinta dalla presentazione dell’essere alla coscienza di…»[117].
La trascendenza a Dio – sottolinea ancora una volta Levinas – si produce soltanto in forza della trascendenza etica, a partire dalla relazione con altri, senza che questo tuttavia significhi «né che l’altro uomo sia Dio, né che Dio sia un grande Altri»[118]: il timore di Dio ritorna in timore del prossimo e della sua morte, la trascendenza dell’Infinito si capovolge in responsabilità per l’altro uomo.
Nel pensiero che va a Dio «si interrompe l’avventura ontologica», «si eclissa l’idea dell’essere»[119] e la coscienza «attende un atteso che oltrepassa infinitamente l’attesa»[120].
Se siamo autorizzati a parlare di «teofania» e di «rivelazione», essa consiste in uno «sfondamento» del Bene che comanda e prescrive la responsabilità per l’altro uomo.
È questa una responsabilità che mi raggiunge da un passato immemoriale ancor prima della mia libertà di scelta, di ogni consapevolezza e di ogni presente: «paradosso» di una diacronia radicale del tempo e di un vincolo che «mi raggiunge come ordine […] di un Dio “che ama lo straniero”, di un Dio invisibile»[121].
Tralasciando qualsiasi idea di Dio che lo riduce ad un termine di una relazione, ad una mèta da raggiungere, Levinas parla propriamente di «a-Dio» (à-Dieu) per indicare questa devozione nei confronti dell’Infinito a cui sono votato, pur ammettendo l’inadeguatezza e l’inesprimibilità del concetto[122]. Nel saggio La cattiva coscienza e l’inesorabile, il pensatore francese precisa il senso di questa nozione affermando:
Chiamata di Dio, non instaura tra me e Lui che mi ha parlato un rapporto. […] L’Infinito non saprebbe significare per un pensiero che va a termine e l’a-Dio non è una finalità[123].
L’a-Dio non è un processo dell’essere: nell’appello, io sono inviato all’altro uomo per il quale questo appello significa, al prossimo per il quale devo temere[124].
In sostanza, la vera trascendenza, «che rende possibile ogni intuizione, ogni intenzionalità ed ogni mirare»[125], significa nel volto del prossimo, nel per-l’altro, in quella prossimità concreta che è «responsabilità inalienabile» e «unicità dell’eletto»[126], proveniente da un’eternità irraggiungibile.
Nelle pagine intitolate Note sul senso, ed in particolare nel paragrafo Il senso dell’umano, Levinas sembra offrirci un autentico «compendio» di quelle riflessioni maturate sul tema della trascendenza teologica. Vale la pena riportare per intero la citazione che ben sintetizza la posizione del filosofo francese:
Che la Rivelazione sia amore per l’altro uomo, che la trascendenza dell’a-Dio, separata da una separazione in cui non si riscontra alcun genere comune ai separati, neanche qualche forma vuota che li raccolga insieme, che il rapporto all’Assoluto o all’Infinito significhino eticamente, cioè nella prossimità dell’altro uomo, estraneo o perfino nudo, denudato e indesiderabile, ma anche nel suo volto ineludibile che mi interroga, volto rivolto verso di me, che mi mette in questione – tutto ciò non dev’essere preso per una «nuova prova dell’esistenza di Dio». […] Tutto ciò descrive esclusivamente la circostanza in cui il senso stesso del termine Dio viene all’idea e più imperiosamente di una presenza[127].
2.4 La riflessione su Dio negli ultimi scritti: un bilancio complessivo
In questo paragrafo conclusivo tenteremo di offrire in sintesi la risposta levinasiana sul tema della trascendenza teologica, a partire dagli scritti che hanno caratterizzato l’ultima fase del suo pensiero ma senza la pretesa di giungere ad un punto di approdo definitivo. Si tratta, a ben vedere, di una «operazione» filosoficamente sostenibile sulla base del fatto che «la posizione di Levinas rispetto al problema di Dio è costante lungo tutto lo sviluppo del suo pensiero»[128]. In particolare, ci soffermeremo su alcune riflessioni contenute nei corsi su Dio, la morte e il tempo degli anni 1975-1976[129], sulle alcune pagine dell’intervista con Philippe Nemo del 1982 già citata in precedenza[130], sulla conferenza che tratta dell’intelligibilità del Trascendente tenuta nel giugno 1983 all’Università di Ginevra[131], sulla raccolta di saggi pubblicata per la prima volta in Francia nel 1991[132], ed infine sul volume Alterità e trascendenza che raccoglie dodici testi scritti tra il 1967 ed il 1989[133].
La prima osservazione riguarda il piano strettamente metodologico sul quale Levinas costruisce la propria riflessione. Parlare di Dio prescinde da qualsiasi dichiarazione di fede e da qualunque dimostrazione razionale di esistenza: si tratta di descrivere le circostanze fenomenologiche con cui la nozione «Dio» accade nella coscienza, senza tener conto dell’esistenza effettiva del contenuto o dell’assenso umano. A livello filosofico, dunque, il discorso su Dio consiste nella salvaguardia del senso della trascendenza, nel mostrare una via in cui il Trascendente sia intelligibile.
Da queste premesse comprendiamo la difficoltà dell’indagine levinasiana che deve innanzitutto legittimarsi sul piano «epistemologico» – come osserva acutamente Emilio Baccarini: «se cum capio è prendere-con, il concetto nella comprensione, è davvero possibile pervenire a una conoscenza di Dio?»[134].
Il pensatore francese richiama costantemente l’orizzonte tradizionale del pensiero per cercare in realtà una strada alternativa in cui anche il termine Dio possa significare. Per la filosofia sarebbe ovvio «che ogni intelligibilità – e perfino il “senso” di Dio – reclami un sapere»[135] da intendersi come «relazione del Medesimo con l’Altro in cui l’Altro si riduce al Medesimo e si spoglia della sua estraneità»[136]: il sapere costruito dal modello occidentale è pura immanenza, «presenza nella sua esposizione»[137], «lasciarsi prendere, chance del comprendere»[138]. La fenomenologia husserliana e quella heideggeriana incarnano in modo emblematico questa concezione tradizionale. Quale significato assume la coscienza intenzionale se non la messa in opera di quel meccanismo per cui «la cogitatio fuoriesce da se stessa, ma il cogitatum è presente alla cogitatio»[139]? D’altra parte, lo stesso Heidegger, nel tentativo di approfondire la posizione del maestro, ricade inevitabilmente all’interno delle medesime categorie prospettando la famosa differenza ontologica: la filosofia ha il compito di «considerare l’essere solo come fondazione dell’ente» e diviene «la modalità secondo la quale l’essere può dirsi»[140]. All’interno di queste prospettive che abbiamo brevemente richiamato, Dio è da intendersi come l’ente supremo e dunque il pensiero dell’essere «diventa sapere o comprensione di Dio: teo-logia»[141] oppure in ogni caso la rivelazione di un Dio è pensata come disvelamento che trova «il suo compimento nell’adeguazione della verità»[142].
Saremmo, dunque, di fronte ad una vera e propria «morte» in cui il termine «Dio» finisce per annullarsi nell’assenza di ogni significanza possibile, dal momento in cui nell’atto di ap–prendere l’oggetto si manifesta quella «riduzione all’immanenza entro l’appercezione trascendentale dell’Io penso»[143].
Da qui nasce la portata innovativa della riflessione levinasiana che opera un radicale superamento del modello tradizionale per salvaguardare la trascendenza teologica. Si tratta di formulare un pensiero altro, di dire Dio altrimenti, «senza inabissare la parola in un sordo, perché vuoto, flatus vocis»[144]. Criticando la filosofia occidentale che ha relegato la pensabilità del Dio trascendente «ad una angusta alternativa tra la sua riduzione all’immanenza — onticizzazione e gnoseologizzazione — e la sua riduzione all’assurdità»[145], Levinas invita a cercare un altrimenti che essere, un’intelligibilità anteriore allo stesso essere, una modalità diversa rispetto alla correlazione tra soggetto e oggetto che avviene nel presente: tentativo estremo di pensare Dio al di fuori della dimensione «onto-teo-logica».
Come abbiamo mostrato in precedenza, il primo passo compiuto dal pensatore francese è il recupero della cartesiana «idea dell’Infinito». A partire dall’opera Totalità e Infinito, questo concetto è pensato inizialmente come «paradigma di una trascendenza al di là dell’oggettività di un tema del sapere»[146] e dunque viene assunto nella sua accezione formale: esso rappresenta ciò che non può essere contenuto, l’inadeguato per eccellenza, «il più nel meno» che sfugge a qualsiasi tentativo di possesso da parte della coscienza intenzionale.
Con la pubblicazione di Altrimenti che essere (1974)e dopo il saggio Dio e la filosofia (1975), «l’idea dell’infinito oltrepassa il limite del discorso formale e viene invece assunta come “sinonimo” filosofico del “Nome” di Dio»[147].
Ne troviamo una conferma, ad esempio, nelle seguenti affermazioni di Levinas:
La venuta, la discesa o la contrazione dell’infinito in un pensiero finito designa in ogni caso un evento che descrive il senso di ciò che si indica con Dio[148].
Idea dell’Infinito in cui il pensiero pensa più di quanto può contenere e in cui, secondo la terza Meditazione di Descartes è nell’uomo che si pensa Dio, non è Egli come una noesi senza noema?[149]
Cartesio, Leibniz e il giovane Kant affermano l’infinità della natura spaziale e temporale mettendola in rapporto con l’infinito di Dio e l’eccellenza della creazione[150].
Baccarini osserva giustamente che proprio il concetto di «creazione» consente a Levinas di operare questo accostamento tra i termini «Dio» e «Infinito»[151].
Da ciò ne consegue innanzitutto un nuovo modo di intendere il ruolo della soggettività. La coscienza è il luogo della «passività più passiva di ogni passività», poiché l’idea di Dio «è un mettere in noi di ciò che non può essere assunto»[152]. Affezione, pazienza, «profondità di un subire che nessuna capacità comprende»[153], da un lato, ma anche «dolore dell’occhio irritato dalla luce», «disubriacatura», «risveglio o vita»[154]: la coscienza è messa in questione dalla trascendenza, che scuote il pensiero assolto nell’identità del Medesimo.
L’io è sradicato, svuotato, inquietato da Dio che si presenta ritraendosi nell’idea dell’Infinito, assolvendosi in un passato immemoriale anteriore a qualunque presa di posizione. Dio è presente alla coscienza come «affezione passiva, evento di un tempo fuori dal tempo»[155]; di più, esso significa come Desiderio dell’Infinito.
La struttura del Desiderio, contrapposta alla soddisfazione del bisogno e analizzata a più riprese da Levinas fin dall’opera del 1961, incarna emblematicamente «il senso del “traumatismo” del risveglio della soggettività alla trascendenza»[156], poiché si tratta di una tensione dis-interessata, senza fine e dunque – come abbiamo mostrato nelle pagine precedenti – Desiderio del Bene.
Dall’Idea di Infinito, Levinas giunge così al Desiderio declinandolo in Bene, da intendersi non come termine di una relazione ma come dinamica di godimento «perpetua», «accrescersi della fame»: in un tale capovolgimento globale accade la trascendenza teologica, «sradicamento dall’essere nel disinteressamento del Desiderio»[157].
Bene in senso eminente, Dio rimane tuttavia separato come Desiderabile, invisibile, Santo. Levinas radicalizza l’assoluta trascendenza di Dio per evitare di ricadere nelle categorie dell’immanenza e rendere il divino un «ente» al pari degli altri.
In questa separatezza estrema, per la quale «Dio non prende mai corpo»[158], si affaccia la «rivoluzione copernicana» del pensiero levinasiano: dall’alto della sua Maestà e Altezza, dalla profondità della desiderabilità, Dio è colui che rinvia al Non-Desiderabile, ad altri, colui che «mi concerne tramite una Parola in guisa di volto dell’altro uomo»[159].
L’Infinito, Dio, si trascende nel finito poiché «ordina il prossimo senza esporsi a me»[160], orienta ad una prossimità con l’altro che rompe con l’unità della coscienza inglobante: il volto altrui è precisamente traccia dell’Infinito.
Siamo di fronte allo snodo centrale nella riflessione sulla trascendenza teologica, grazie al quale acquistano senso tutte le considerazioni successive. Ritenere che l’idea dell’Infinito in me «accade in quella relazione con l’altro che infine è la mia stessa relazione a-Dio»[161] significa ribaltare i canoni teoretici e gnoseologici tradizionali e pensare autenticamente la trascendenza come altrimenti che essere.
Dio viene all’idea in quanto «possibilità del risveglio nella visitazione-evento del volto dell’Altro traccia di Dio»[162]. Non si dà alcuna rappresentazione, rivelazione, manifestazione del trascendente, che rimane separato e Santo, terza persona (Illeità – un termine che ritroviamo costantemente negli scritti levinasiani) ma rivolge il mio sguardo sul volto nudo e indifeso dell’altro uomo: la trascendenza è etica.
In questa prospettiva, comprendiamo meglio il linguaggio maturato da Levinas per approfondire il significato e le conseguenze di questa impostazione.
Se «il solo modo in cui l’altrimenti he essere può significare è la relazione con il prossimo»[163], l’io si riscopre primariamente responsabile nei confronti dell’altro, assoggettato «ad un ordine assoluto, all’autorità per eccellenza o all’autorità dell’eccellenza o del Bene»[164]. Il soggetto è eletto nella sua unicità, per-l’altro, propriamente fuori di sé fino ad una paradossale sostituzione o espiazione, ossessionato dall’altro e per l’altro, immediatamente responsabile di tutto ciò che può accadere.
Una delle conseguenze innovative della riflessione levinasiana sulla trascendenza teologica riguarda inoltre la concezione della temporalità. L’idea dell’Infinito in me infatti rompe con la sincronizzazione dell’Io, con la presenza inglobante dell’intenzionalità e apre ad un «tempo della trascendenza» che è l’a-priori, il prima di un passato remoto. Il comando etico, la Parola di Dio, mi giunge da un’ anteriorità immemoriale, che precede qualunque possibilità di scelta e di ascolto. Il tempo della trascendenza è quello di una «responsabilità anteriore ad ogni deliberazione logica che richiede la decisione ragionata»[165], dia-cronia priva di presente, deformalizzazione contro la rappresentazione. Levinas parla in proposito di ispirazione o profetismo per indicare – lo abbiamo visto – questa «eteronomia dell’obbedienza etica»[166], «modo senza eguali in cui, assolutamente irreversibile, il futuro comanda il presente»[167].
Il tempo, in sostanza, viene pensato «a partire dal volto d’altri, ove ‘Dio ci viene all’idea’»[168], a condizione di non nominare quel Dio ‘in-conosciuto’ (inconnu)[169] se non in forza di quel comando che mi rivolge.
Veniamo, allora, ad uno dei punti decisivi nella riflessione sulla trascendenza teologica. Quel Dio «strappato dall’oggettività della presenza e dall’essere»[170], che non mi colma di bene ma mi obbliga alla bontà, restando separato come desiderabile, «Egli (Il) al fondo del Tu»[171], «trascendente fino all’assenza»[172] – di questo Dio si dà testimonianza nell’ «Eccomi» pronunciato dal soggetto dinanzi al volto del prossimo. Soltanto mediante questa testimonianza, «la cui verità non è verità di rappresentazione o di percezione»[173], si offre una rivelazione di Dio. Di più, in questa testimonianza etica del soggetto «si glorifica la gloria dell’Infinito»[174] – afferma ancora Levinas.
La «gloria» dell’Infinito, in sostanza, è la «testimonianza» che se ne dà; nella voce del testimone, che risponde all’appello etico mettendo a tacere il comando alla persistenza nell’essere, accade la glorificazione dell’Infinito. In questo senso, possiamo affermare con Levinas che «la gloria di Dio è l’altrimenti che essere»[175].
Dall’analisi sulla trascendenza teologica che abbiamo intrapreso in questo capitolo, risulta che per Levinas la parola «Dio» è significante in quanto parola «di Dio» che mi comanda nei confronti del prossimo. Il parlare «su Dio» è in realtà un parlare «di Dio», che si rende intelligibile unicamente nella modalità «del comandamento e della legge a cui sono obbligato a rispondere»[176] e che dimora in uno «”sfondo” imperscrutabile – non tematizzabile da alcun sapere filosofico o da alcun sistema teologico»[177].
[1]Torneremo più avanti su questo specifico punto (cfr. infra cap.3)
[2] Cfr. in proposito, A.CHIAPPINI, Amare la Torah più di Dio. Emmanuel Levinas lettore del Talmud, La Giuntina, Firenze, 1999, p.15-19
[3] E.LEVINAS, Dell’evasione, cit., p.44
[4] EMMANUEL LEVINAS, Quaderni di prigionia e altri inediti, (ed.italiana a cura di Silvano Facioni), Bompiani, Milano, 2011
[5] Ivi, p.91
[6] Ivi, p.92
[7] Ivi, p.160
[8] Ivi, p.187
[9] Per la questione della datazione si veda in particolare Ivi, pp.229-232
[10] Ivi, p.237
[11] Ivi, p.239
[12] Ivi, p.242
[13] Ivi, p.245
[14] Ivi, p.241
[15] Ivi, p.395
[16] Ivi, p.241
[17] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.2
[18] E.LEVINAS, Quaderni di prigionia, cit., p.360
[19] Ivi, p.241
[20] Ivi, p.358
[21] Ivi, p.360
[22] Ivi, p.443
[23] Ivi, p.455
[24] Ivi, p.335
[25] Ivi, p.468
[26] Cfr. supra, p.22
[27] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.299
[28] Ibid.
[29] Ibid.
[30] Ibid.
[31] Ivi, p.300
[32] GIOVANNI FERRETTI, Emmanuel Levinas. Un profilo e quattro temi teologici, Queriniana, Brescia, 2016, p.61
[33] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.76
[34] Ibid.
[35] Ivi, pp.76-77
[36] Cfr. E.LEVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp.215-251
[37] Ivi, p.224
[38] Ibid.
[39] Ivi, p.227
[40] Ibid.
[41] Ibid.
[42] Ivi, p.228
[43] Ibid.
[44] Ibid.
[45] Ivi, p.230
[46] Ibid.
[47] Ivi, p.231
[48] Ivi, pp.228-229
[49] Ivi, p.229
[50] Ivi, p.228
[51] Ivi, p.233
[52] Ivi, p.235
[53] Ivi, p.236
[54] Ivi, p.237
[55] Ivi, p.238
[56] Ivi, p.241
[57] Ibid.
[58] Ivi, p.242
[59] Ivi, p.247
[60] Ivi, p.248
[61] Ivi, p.251
[62] Ivi, p.251
[63] Cfr. G.FERRETTI, Emmanuel Levinas. Un profilo e quattro temi teologici, cit., p.67
[64] E.LEVINAS, Scoprire l’esistenza, cit., pp.242-243
[65] Cfr. E.LEVINAS, Trascendenza e altezza, in Libertà e comandamento (a cura di Giuseppe Pintus), Inschibbolet, Roma, 2014
[66] Ivi, p.93
[67] Cfr. supra, pp.26-31
[68] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.177
[69] Cfr. Ivi, p.183
[70] E.LEVINAS, Etica e Infinito, cit., p.96
[71] Cfr. supra, p.23
[72] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.22
[73] Ivi, p.178
[74] Ibid.
[75] Ivi, p.179
[76] Ivi, p.182
[77] Ivi, p.181
[78] Ivi, p.183
[79] Ivi, p.185
[80] Ivi, p.184
[81] Ivi, p.188
[82] Ivi, p.187
[83] Ivi, p.195
[84] Ivi, p.187
[85] Ivi, pp.175-176
[86] G.FERRETTI, Emmanuel Levinas. Un profilo e quattro temi teologici, cit., p.70
[87] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.190
[88] Ivi, p.229
[89] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Di Dio che viene all’idea (a cura di Silvano Petrosino), Jaca Book, Milano, 1983
[90] Ivi, p.9
[91] Ibid.
[92] Ibid.
[93] Cfr. Ivi, pp.77-101
[94] Ivi, p.80
[95] Ivi, p.85
[96] Ibid.
[97] Ivi, p.86
[98] Ivi, p. 87
[99] Ivi, p.89
[100] Ivi, p.90
[101] Ivi, p. 91
[102] Ibid.
[103] Ivi, p.92
[104] Ibid.
[105] Ibid.
[106] Ivi, p.95
[107] Ivi, p.96
[108] Ivi, p.97
[109] Ivi, p.98
[110] Ibid.
[111] Ibid.
[112] Ivi, p.101
[113] Cfr in particolare i capitoli intitolati Ermeneutica e al di là; Il pensiero dell’essere e la questione dell’altro; Trascendenza e male; Note sul senso; La cattiva coscienza e l’inesorabile.
[114] E.LEVINAS, Dio di che viene all’idea, cit., p.127
[115] Ivi, p.132
[116] Ivi, p.133
[117] Ivi, p.144
[118] Ivi, p.133
[119] Ivi, p.151
[120] Ivi, p.160
[121] Ivi, p.192
[122] «Infinito al quale io sono votato da un pensiero non-intenzionale la cui devozione nessuna preposizione della nostra lingua – neanche la “a” alla quale noi ricorriamo – saprebbe tradurre» (Ivi, pp.192-193)
[123] Ivi, p.203
[124] Ivi, p.204
[125] Ivi, p.195
[126] Ivi, p.196
[127] Ivi, p.194
[128] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Dio, la morte e il tempo (a cura di Silvano Petrosino), Jaca Book, Milano, 1996, p.28
[129] Cfr. Ivi, in particolare pp.169-297
[130] Cfr supra, nota 2
[131] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Trascendenza e intelligibilità (a cura di Franco Camera), Marietti, Genova, 1990
[132] Cfr. E.LEVINAS, Tra Noi. Saggi sul pensare-all’altro (a cura di Emilio Baccarini), Jaca Book, Milano, 1998
[133] Cfr. E.LEVINAS, Alterità e trascendenza (trad.it. di Simone Regazzoni), Il Melangolo, Genova, 2006
[134] EMILIO BACCARINI, La devozione del dire Dio altrimenti, in I. Kajon, E. Baccarini, F. Brezzi, & J. Hansel (a cura di), Emmanuel Levinas, Prophetic Inspiration and Philosophy, Giuntina, Firenze, 2008, p.367
[135] E.LEVINAS, Trascendenza e intelligibilità, cit., p.13
[136] Ivi, p.14
[137] Ivi, p.15
[138] Ivi, p.16
[139] Ivi, p.18
[140] E.LEVINAS, Dio, la morte e il tempo, cit., p.173
[141] Ibid.
[142] E.LEVINAS, Trascendenza e intelligibilità, cit., p.22
[143] E.BACCARINI, La devozione del dire Dio altrimenti, cit., p.368
[144] Ibid.
[145] Ivi, p.379
[146] EMILIO BACCARINI, L’«intrigo etico» della «gloria di Dio», in Bollettino della Società Filosofica Italiana, n.134, maggio-agosto, 1988, p.44
[147] Ibid.
[148] E.LEVINAS, Trascendenza e intelligibilità, cit., p.24
[149] E.LEVINAS, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p.210
[150] E.LEVINAS, Alterità e trascendenza, cit., p.64
[151] «Questa assunzione si produce facendo entrare in gioco una nozione centralissima sempre in Levinas, determinante negli ultimi scritti, la nozione-evento di creazione» (E.BACCARINI, L’«intrigo etico» della «gloria di Dio», cit., p.44)
[152] E.LEVINAS, Dio, la morte e il tempo, cit., p.288
[153] E.BACCARINI, L’«intrigo etico» della «gloria di Dio», cit., p.45
[154] E.LEVINAS, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p.121
[155] E.BACCARINI, La devozione del dire Dio altrimenti, cit., p.384
[156] E.BACCARINI, L’«intrigo etico» della «gloria di Dio», cit., p.45
[157] E.BACCARINI, La devozione del dire Dio altrimenti, cit., p.385
[158] E.LEVINAS, Alterità e trascendenza, cit., p.143
[159] Ibid.
[160] E.BACCARINI, La devozione del dire Dio altrimenti, cit., p.385
[161] Ivi, p.372
[162] Ivi, p.377
[163] E.LEVINAS, Dio, la morte e il tempo, cit., p.263
[164] E.LEVINAS, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p.210
[165] Ivi, p.205
[166] Ivi, p.189
[167] Ibid.
[168] Ivi, p.212
[169] Cfr. Ivi, p.210
[170] E.LEVINAS, Dio, la morte e il tempo, cit., p.296
[171] Ibid.
[172] Ivi, p.297
[173] E.LEVINAS, Etica e Infinito, cit., p.100
[174] Ibid.
[175] Ivi, p.102
[176] FRANCO CAMERA, Postfazione a Trascendenza e intelligibilità, cit., p.83
[177] Ivi, p.84