Paola Peduzzi
Milano. Nella telefonata in cui una dama della politica estera americana, Victoria Nuland, si lasciava andare a un liberatorio “Fuck the Eu”, fanculo all’Europa, il passaggio importante riguardava un politico ucraino non ancora quarantenne, testa pelata e occhiali da secchione, inglese perfetto e assiduità con l’occidente. “Penso che Yats sia il nostro uomo, quello che ha esperienza economica e di governo”, diceva la Nuland all’ambasciatore statunitense a Kiev. Yats è Arseniy Yatsenyuk, il nuovo premier dell’Ucraina, o forse sarebbe meglio dire il nuovo premier di Kiev perché in Crimea ce n’è un altro: Sergei Axionov.
Yatsenyuk è un avvocato e un economista, ha creato un suo studio legale, ha lavorato alla Banca centrale ucraina diventandone per un breve tempo il capo, è stato ministro delle Finanze e anche degli Esteri, ha fondato un suo partito, è stato candidato alla presidenza, ha sposato la figlia di intellettuali ucraini di un certo spessore, ha fatto due figlie e ha arredato una bella casa di campagna poco lontana dal palazzo che fu dell’ex presidente Yanukovich. Ha molti amici in occidente, e questo è il suo primo problema in Ucraina, ma è anche uno che si è costruito una corazza da tecnico abbastanza grossa da renderlo simpatico alla piazza di Kiev, e un profilo abbastanza lineare da farlo sopravvivere a quel che si dice e si pensa riguardo a quella piazza.
Yatsenyuk è di origine ebraica: quando nel 2010 si candidd presidente, dovette subire un attacco spietato da parte di un rivale che lo aveva definito “un ebreo sfrontato” che serve “gli interessi dei ladri che dominano l’Ucraina”. Questo ebreo sfrontato sarebbe stato acclamato da una piazza fascista e antisemita? Abbiamo qualche dubbio. Per di più che lo stesso Yatsenyuk aveva detto che ogni intolleranza in piazza sarebbe stata vietata, che quella era una piazza votata alla libertà e al pluralismo, tutti si combatteva assieme per svincolarsi dal ricatto di Mosca.
La premiership di Yatsenyuk è innanzitutto la garanzia che l’istinto iniziale della piazza – verso occidente – non è stato tradito. Poi c’è la questione austerità: l’Ucraina vive sull’orlo della bancarotta ormai da mesi ed è (anche) per questo che si è venduta alla Russia di Vladimir Putin, che si è rivelato il migliore, ancorché l’unico, offerente. Ora che quel prestito è stato sospeso, Kiev deve trovare i soldi presto: il Fondo monetario internazionale pare pronto a darli, anche se non si è capito in che forma. Ma quel che più conta è necessario che siano messe in piedi quelle riforme che impediscano all’Ucraina di doversi rivolgere a qualche donatore con cadenza ormai semestrale. Yatsenyuk, con il suo profilo da tecnico (“un tipo à la Mario Monti, non eletto e pronto a prendere l’offerta del Fmi”, ha detto non senza disprezzo un investitore intervistato su Forbes), è l’uomo giusto per l’austerità, ma anche questa strada non crea simpatie: in questo pezzo di mondo il Fmi fa tornare indietro di vent’anni, ai salvataggi post caduta del Muro di Berlino, e non sempre i ricordi sono dolci.
Pluralismo e austerità: ecco cosa garantisce il nuovo potere forte di Kiev, che ieri ha anche ribadito che l’integrità territoriale è una priorità. Per Mosca Yatsenyuk è debole e compromesso, le sue istanze sono già sotto assedio. Chissà se l’occidente saprà difenderlo.
Twitter @paolapeduzzi
Il Foglio 4.3.14