Davide Nizza
Una risposta alla tesi del professor Sabbatucci • Le due letture dell’assedio • Perché i romani interpretarono il suicidio collettivo come un atto di fanatismo• Dalla morsa di Vespasiano e Tito uscì un maestro • Che cosa significa essere eredi di una scuola • Che cosa lega quell’evento al ghetto di Varsavia • Perché gli ebrei storicamente e spiritualmente non sono figli di quegli eroi • Dall’affaire Dreyfus alla nascita del sionismo • Poi la Shoah, la catastrofe e la nascita dello Stato • Chi e perché seguirebbe l’esempio di Rabbàn Yohannàn ben Zakkaài
“La resistenza a oltranza fa parte della nostra storia”, dice lo storico Giovanni Sabbatucci, sul Foglio del 25 marzo 2003, citando i due miti fondanti della coscienza occidentale: “La battaglia delle Termopili… E quella di Massada, dipinta negli annali della storia romana come un esempio di fanatismo, mentre nella storia ebraica viene considerata un sacrario”. Mi sembra che il giudizio del professor Sabbatucci, riportato necessariamente in estrema sintesi, sia discutibile. Vorrei esporre qualche riflessione sul secondo elemento, cioè quello ebraico.
È corretto fornire due interpretazioni sull’assedio di Massada da parte dei romani,una appunto romana, l’altra ebraica.
Ma, se vogliamo entrare nel merito, mentre nella prima, quella romana, l’episodio è comunemente ritenuto un esempio di fanatismo, non altrettanto può dirsi della seconda.
Nella sua coscienza storica il popolo ebraico non ha mai mostrato di sentire come un sacrario la tragedia di Massada, se non in tempi recenti. Cercherò di spiegarne le ragioni.
L’interpretazione romana
Sembra chiaro che nell’interpretazione romana (e poi occidentale) dell’assedio di Massada non si possa non definirlo un esempio di fanatismo. Il suicidio collettivo di tutti i resistenti, quasi un migliaio, con le loro donne, i loro bambini, i loro vecchi, l’ultima notte prima dello sfondamento di un assedio durato forse anni, è un fatto impressionante per ogni essere umano e certamente dovette esserlo anche per i romani, abituati a ben altre vittorie, con “regolari” massacri di civili e man bassa di bottino e prigionieri presi come schiavi. Questa era la norma. Bastano poche reminiscenze scolastiche di letture dei classici, a cominciare dal De Bello Gallico.
Non ricordo invece esempi di suicidio collettivo, perlomeno paragonabili, decisi dai tanti oppositori alle numerose conquiste romane. Furono manifestate frequentemente forti volontà di resistenza, o furono subite sconfitte sanguinose sul campo, o, più raramente, scoppiarono rivolte, ribellioni o insorgenze. Pochi esempi: la lettera-discorso, solitamente trascurata, di Mitridate al Re dei Parti Arsace, notevole testimonianza di comprensione storica e di umano rispetto per il nemico (in Sallustio, Historiae, IV, 69: “Una sola e antica è la causa che spinge i Romania far guerra con le genti…: la smisurata cupidigia di potere e ricchezze”. Segue un impressionante catalogo delle finzioni e dei tradimenti romani nei confronti di amici e alleati. “… l’alleato e l’amico…trascinano e straziano e tutto quel che non è schiavo… giudicano nemico. E tu, che Seleucia possiedi,… che t’aspetti da quelli, se non l’inganno per il presente e in avvenire la guerra?”); il massacro della città di Avarico (vecchi, donne, bambini, lo racconta Cesare stesso, De Bello Gallico, VII, 28); e non c’è bisogno di ricordare la più famosa rivolta degli schiavi, quella guidata da Spartaco.
Analogamente, ma anche per rendersi conto delle differenze, bisogna leggere il famoso discorso con cui Elazàr, il capo degli Zeloti, esorta i suoi a darsi la morte (a noi è pervenuto nella versione elaborata da Giuseppe Flavio, Bellum Judaicum, VII, 320 sgg.).
I romani, pur di prendere quel pugno di meno di un migliaio di ribelli (comprese le famiglie), mentre avrebbero potuto tranquillamente ignorarne l’esistenza, arroccati com’erano sulla spianata di un monte sperduto in mezzo al deserto davanti al Mar Morto (il punto più basso del pianeta a quattrocento metri sotto il livello del mare), impegnarono legioni, impiantarono diversi accampamenti e infine, come noto, spostarono, per mesi, enormi masse di terra per costruire quel terrapieno, ancor oggi visibile, necessario ad aprire una breccia nelle difese.
Trovarseli tutti suicidati, come poteva essere interpretato per i romani? Forse come un atto supremo e disperato di eroismo? Ma certo che no. Tutti gli oppositori erano considerati barbari, specialmente gli orientali; gli ebrei avrebbero dovuto essere considerati migliori? Fanatici, appunto, impossibili da comprendere, anzi.
(Vedere le importanti raccolte di fonti greche e romane sugli ebrei: Th. Reinach, Textes d’Auteurs Grecs et Romains relatifs au Judaisme, Paris, 1895; M. Stern, Greeks and Latin Authors on Jewish and Judaism, Jerusalem, 1976. Un’impressionante e quasi unanime carrellata di incomprensioni, pregiudizi, disprezzo e odio verso qualunque aspetto di ebraicità, reale e persino immaginaria).
L’elaborazione ebraica della storia
La Tradizione
Il popolo ebraico non ha mai costruito monumenti, simulacri, agiografie, neppure dei fatti più grandi o tragici della sua storia. La schiavitù d’Egitto e l’uscita dalla schiavitù, l’epopea della conquista della Terra Promessa, la distruzione del Primo e Secondo santuario di Gerusalemme, la prima e la seconda Diaspora, la storia eccezionale di Ester (cioè il miracolo del riconoscimento del diritto all’autodifesa contro il persecutore), la storia del miracolo della vittoria dei Maccabei (i pochi contro i molti) e della successiva riconquistata indipendenza, e, per andar di fretta, tutta la storia ebraica vissuta dagli ebrei, attraverso i massacri e le espulsioni (la peste, la cacciata dalla Spagna) le crociate, le stragi dei cosacchi, i ghetti, eccetera, fino all’affaire Dreyfus, alla Shoah alla straordinaria rinascita dell’indipendenza ebraica nello Stato di Israele dopo duemila anni, insomma, di tutto ciò gli ebrei non hanno mai avuto bisogno di erigere monumenti et similia. Qual è allora il loro modo tradizionale di conservare memoria, la coscienza e l’identità? Gli ebrei hanno scritto e parlato. Noi ricordiamo a noi stessi e raccontiamo ai nostri figli la nostra storia attraverso particolari tipi di monumenti, che sono libri e parole. Si chiamano Toràh, che non a caso è scritta (Pentateuco, Bibbia) e orale poi riportata nel Talmùd, ma continuamente rielaborata fino al presente).
Si chiamano il Séder di Pésah, cioè la cena pasquale, in cui le famiglie raccontano (Haggadàh: il dire) una storia famosa tutti gli anni come se fosse nuova, secondo un ordine (séder, appunto) che è considerato considerato anche un capolavoro di pedagogia; la lettura della Meghillàh (rotolo di pergamena) di Ester; la lettura delle Lamentazioni di Geremia per la distruzione del Santuario. In breve: gli ebrei hanno creato e continuamente rielaborato il racconto della propria esperienza secondo il loro sentire, a cominciare naturalmente dalla guida dei maestri di tutte le generazioni.
E non si è mai trattato di finzioni retoriche o cerimonie artificiose: non a caso ogni ricorrenza è preceduta da benedizioni come “Benedetto Tu, Signore, … che ci hai fatti vivere, ci hai mantenuti e ci hai fatti arrivare fino a questo tempo” e “Benedetto Tu, Signore, … che hai fatto miracoli per i nostri Padri, in quei giorni, in questo tempo”.
C’è chi dice che gli ebrei, nei momenti più bui della loro storia, abbiano reagito producendo monumenti “letterari”: dopo i bagni di sangue delle rivolte contro i romani la Mishnà, poi integrata nel Talmud dopo le persecuzioni bizantine.
Il grande Mosè Maimonide scrisse quella che ancora oggi viene considerata l’enciclopedia fondamentale della Legge ebraica, il Mishnéh Toràh, nel pieno delle persecuzioni islamiche e delle crociate (fine 1100), nonché la più importante opera di filosofia, il Moréh Nevukhìm, La Guida dei Perplessi. Sembra che Heine abbia detto che gli ebrei hanno nella Toràh la loro patria portatile.
Ma la cosa più importante è che il popolo ebraico storicamente non è figlio degli eroi di Massada. E non solo in senso ovviamente letterale, dato che si diedero tutti la morte. Ma in senso spirituale, realistico e al contempo culturale.
Dall’assedio di Vespasiano e Tito a Gerusalemme nel 70 uscì clandestinamente il più grande maestro sopravvissuto in quel momento, con alcuni suoi discepoli.
Rabbàn Yohannàn ben Zakkài fu, come tutti i grandi maestri dell’antichità, guida ed esempio per molti che lo seguirono. Egli chiese e ottenne (B Talmùd, Ghittìn, 56b) il permesso di fondare una scuola.
Ripeto e sottolineo: una scuola. Quella scuola divenne la raccolta degli insegnamenti precedenti e la fucina degli insegnamenti seguenti.
I suoi discepoli (R. Yehoshùa, R. Eliézer, R. Akivà e tanti altri) furono tutti a loro volta fondatori di grandi scuole e seppero crescere allievi che a loro volta crebbero allievi e così via per generazioni.
Ancora oggi questi antichi maestri del Talmùd sono considerati le fonti del pensiero ebraico, della halakhàh (la legge ebraica), della morale, insomma dei fondamenti della cultura ebraica.
Quindi gli ebrei sono sopravvissuti per duemila anni dopo la catastrofe delle distruzioni romane non in quanto eredi di Massada, ma in quanto eredi e cultori della cultura (mi si consenta un involuto gioco di parole).
Dreyfus, la Shoah, lo Stato
Con l’affaire Dreyfus in Francia si dimostrò il fallimento di quel movimento detto di emancipazione, iniziato con la Rivoluzione francese, che con la concessione a gli ebrei di uguali diritti e libertà aveva favorito la loro assimilazione nelle società di appartenenza. Se perfino nella patria della democrazia, la Repubblica francese della fine dell’800, si manifestava un antisemitismo di tale virulenza,quale poteva essere il futuro del popolo ebraico? La risposta fu la nascita del sionismo politico: lo Stato ebraico. Semplice: il popolo di Israele deve tornare nella terra di Israele per costruire il suo Stato democratico.
Soltanto così, realizzando la loro autonomia e indipendenza, come gli altri popoli, gli ebrei potranno liberarsi dalle persecuzioni e tornare a vivere protetti da uno Stato di diritto, che garantirà anche per loro libertà ed eguaglianza come tutti i popoli cosiddetti civili.
Ma nei cinquant’anni che trascorsero tra la nascita dell’idea e la sua realizzazione avvenne la shoah, la catastrofe: una tragedia immensa la cui conoscenza do per scontata, ma che qui voglio ricordare specialmente in quell’episodio che molti, anche tra gli ebrei, accostano a Massada: intendo la rivolta del ghetto di Varsavia.
Questa ribellione, come le altre che scoppiarono nei lager, davanti alle camere a gas, fu un eroico gesto estremo di chi sapeva di essere già condannato a morte. Non era un suicidio, ma un atto di resistenza davanti alla morte decretata da altri.
Dalle ultime rivolte ebraiche contro i romani fino alla guerra d’indipendenza dello Stato di Israele, gli ebrei non lottarono più con le armi, ma, volenti o nolenti, s’ingegnarono con l’intelletto, lo studio, il pensiero, la professionalità delle arti e mestieri, se potevano, o degli espedienti, spesso miseri e umili, a cui era loro concesso fare ricorso. E naturalmente con la passione, tanta passione e grandi sentimenti.
Yeshayàhu Leibowitz diceva che i popoli non si uccidono, bensì si suicidano: i popoli scompaiono quando le persone perdono la loro identità, rinunciano. E infatti solo alcuni popoli, pochi, anche piuttosto piuttosto antichi, sono sopravvissuti a secoli di persecuzioni; come gli armeni o i curdi.
Massada e il Ghetto di Varsavia sono sì idealmente uniti, per quella parte di popolo ebraico che si riconosce nel sionismo politico, o perlomeno nel “mai più” dopo Auschwitz. Per loro, la scelta è: vogliamo vivere tutelati in un nostro Stato, su una nostra terra, liberi di scegliere i nostri governi, le nostre leggi eccetera. Dopodiché esiste divisione tra i sostenitori di “uno Stato, democratico, come gli altri” e i sostenitori di “uno Stato ebraico tra le democrazie”.
Se la scelta dovesse essere estrema, la conseguenza per gli uni sarà: a qualunque costo, tranne la vita, sia materiale sia spirituale-culturale; questi seguiranno l’esempio di Rabbàn Yohannàn ben Zakkài.
Per gli altri sarà: a qualunque costo, anche della vita; infatti, a che pro sopravvivere nell’umiliazione, da schiavi o vittime del prossimo pogrom, della prossima ondata di neo antiebraismo? Questi forse saranno disposti a seguire l’esempio degli eroi di Massada. In ogni caso non vedo come tutta la questione, ben più complessa di come si sia qui cercato di descrivere per sommi capi, possa costituire un mito fondante della coscienza occidentale. Personalmente non la percepisco neppure presente nella cultura europea.
IL FOGLIO QUOTIDIANO 10 APRILE 2003