Kol beruè è un piut composto dal poeta Shelomò Ibn Gabirol (1021-1058), uno dei maggiori pensatori del medioevo ebraico, autore del Meqor Chayim (Fons vitae), che ebbe un’esistenza breve e tragica, che non gli impedì tuttavia di divenire il più grande poeta sefardita. Il suo nome, Shelomò, compare nelle iniziali delle quattro strofe del piut. In alcuni testi, anche recenti, l’autore viene indicato come Shelomò Moshè Alashqar, ma con ogni probabilità non è così. Infatti vi è una versione più lunga del piut, la cui seconda parte è stata composta da Moshèh Alashqar, il cui nome compare nelle iniziali delle strofe successive alla quarta.
Moshèh Alashhqar scrisse un piut sullo stile di Ibn Gabirol, 450 anni dopo il primo, e successivamente i due piutim vennero uniti. Si tratta di un piut estremamente diffuso nella sua forma breve, che nel rito italiano si recita sia nei giorni feriali che di Shabbat, a Roma dopo la Shirat ha-yam, a Torino prima di Barukh sheamar. Probabilmente il motivo per cui a Roma è stato inserito in quel punto è perché la Shirat ha-yam si conclude con il verso che termina con le parole, “… ed il Signore sarà uno ed il suo nome sarà uno”, che si lega perfettamente con il contenuto del piut. Chi lo anticipa invece segue l’opinione del Ramà’ di Fano, secondo cui non è opportuno interrompere con un piut prima delle berakhot dello Shemà’. Nel rito italiano troviamo inoltre alcune differenze testuali, ad esempio il Panzieri riporta due versioni (mevin yesodam – mevinè sodam), oltre all’aggiunta alla fine del versetto Shemà’ Israel.
Il motivo dell’aggiunta è abbastanza semplice, difatti tutte le strofe del piut terminano con la parola Echad o un termine affine, come il primo verso dello Shemà’. Shadal nell’introduzione al Machazor benè Romi scrive che le prime parole del piut, kol beruè ma’lah umatah non si trovano in alcun manoscritto o testo a stampa antico. Compaiono per la prima volta nel machazor benè Romi stampato a Mantova nel 1557, ed hanno lo scopo di attribuire un soggetto all’aspressione ye’idun yaghidun. Shadal testimonia un’ulteriore versione in un altro manoscritto in suo possesso, che recita “H. ro’ì yachid umeyuchad”. Per l’attribuzione Shadal ritiene che non si tratti né di Shelomò ibn Gabirol, né Shelomò Ytzchaqì (Rashì), ma un altro Shelomò, a noi sconosciuto, che visse in Italia o in Provenza, e non si tratta di uno dei rishonim, perché in un machazor manoscritto del 1340 il piut non compare, se non in aggiunta all’ultima pagina, con un’altra scrittura, e lo stesso vale per un altro manoscritto del 1432.
Da un punto di vista contenutistico il piut sviluppa un tema che torna abbastanza frequentemente negli scritti di Ibn Gabirol, ed anche in altri autori, l’unione di creature superiori ed inferiori nella lode ad H. L’unità del Creatore si riflette in qualche maniera nell’unità del creato, che loda H. in modo unanime (keechad). Lo stesso tema è sviluppato nel Pereq Shiràh, che descrive il canto di che ogni creatura rivolge al cielo. L’espressione ye’idun iaghidun (testimonieranno, narreranno) deriva dal cap. 5 (v.1) del libro di Waiqrà, dove si parla dell’obbligo di testimoniare, quando si è assistito ad un fatto. In quel passo la Toràh dice “… ed è testimone (‘ed), se non lo dirà (yaghid) ne porterà la colpa”. I 32 sentieri di cui l’autore parla hanno un chiaro riferimento all’inizio del sefer Yetziràh, dove si parla dei 32 sentieri della sapienza attraverso i quali D. ha creato il mondo. Il Ramban commentando il Sefer Yetziràh scrive che il 32 nasce dalla somma delle 10 sefirot e delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Attraverso questi 32 sentieri tutti gli esseri comprendono che tutto deriva da H. Il Gherà nel suo commento al Sefer Yetziràh scrive che lo Shem ha-meforash di 45 lettere si divide in 13 parti, corrispondenti ai 13 attributi divini, nel Keter, ed in 32 nella Chokhmàh, da cui derivano tutti i mondi.
Anche nel piut il termine echad, che vale 13, viene accostato alle parole “sheloshim ushtaim”, giungendo ad una somma di 45. Investigando il creato tutti si rendono conto che tutto il mondo, a differenza di H., è costruito su delle coppie, forma e materia, caldo e freddo, liquido e solido, ecc. La coppia principale è però quella dell’essere dapprima increato, per essere poi creato. Nessuno ha assistito a tale passaggio, ma è tuttavia necessario mostrare fede su questo aspetto. Questa questione ha ispirato la prima grande opera della filosofia ebraica medievale, il Sefer emunot wede’ot di Rav Sa’adiàh Gaon, Tutto il creato è caratterizzato dalla possibilità di essere enumerato, al contrario di H., che è unico, e la Sua unità non rientra nella sequenza numerica. L’autore accenna poi ad un’altra dottrina mistica, sempre derivante dal Sefer Yetziràh, secondo la quale il nome di H., e più precisamente le possibili combinazioni delle lettere Y-H-W, si trovano impresse nei quattro punti cardinali, in alto ed in basso. Le varie direzioni testimoniano sull’esistenza di H. L’espressione (mizèh echad umizèh echad) utilizzata è tratta dalla fine della parashàh di Beshalach, quando nella guerra contro ‘Amaleq Aharon e Chur tengono alte le braccia di Moshèh durante lo scontro militare.