La Stampa 19.11.2024
Il mondo ebraico è stato profondamente colpito e deluso dalla frase dell’ultimo libro di Papa Francesco anticipata dalla Stampa per cui bisognerebbe “indagare” se l’azione militare israeliana a Gaza costituisca un “genocidio”. Non si tratta di un’accusa diretta bensì di un interrogativo; ma l’accostamento fra Israele e genocidio per bocca di una autorità spirituale come quella del Papa e non solo degli estremisti filoterroristi e antisemiti suscita indignazione e sconcerto. “Genocidio” è il concetto proposto dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin per definire il tentativo nazista di eliminare il popolo ebraico. Vedersi ribaltare addosso questa accusa da chi governa oggi un’istituzione, la Chiesa, che ha dovuto riconoscere di aver ingiustamente perseguitato gli ebrei per molti secoli e la cui azione durante il genocidio nazista è ancora oggetto di dubbi e polemiche storiche, aumenta ancora la delusione ebraica: come se gli ultimi decenni di dialogo fossero cancellati e tornasse in azione l’antico antigiudaismo cristiano.
Nel merito l’accusa è del tutto infondata: Per genocidio, secondo la definizione dell’ONU, si intendono “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.” Che vi sia da parte di Israele “l’intenzione di distruggere” i palestinesi è un’affermazione insensata. La popolazione palestinese residente, secondo le dichiarazioni dello “Stato di Palestina” era nel 2023 di 5.483.000 persone, di cui circa 1,8 milioni a Gaza con una crescita annua intorno al 3,3% (180.000 persone), che non è diminuita quest’anno. Secondo i numeri di Hamas in tredici mesi di guerra sono morte 43.000 persone (ma Israele contesta queste cifre e l’Onu dice di averene potuto accertare solo 8.500). Si tratterebbe comunque di meno dell’un per cento della popolazione, un quarto della crescita demografica annuale. Sono numeri che dimostrano in maniera chiarissima che Israele, lungi dal voler “distruggere” la popolazione civile, ha cercato come poteva di tutelarla, annunciando in anticipo e dettagliatamente le zone sottoposte ad offensiva, indicando vie di fuga e luoghi sicuri, introducendo centinaia di camion di rifornimenti al giorno, anche con la consapevolezza che i terroristi si sarebbero impadroniti della maggior parte di questi aiuti per usarli a loro vantaggio. Non è mai esistita nella storia una guerra in cui un esercito si facesse carico in maniera simile della necessità di salvaguardare nei limiti del possibile la popolazione civile.
Il fatto è che questa è una guerra, e di tipo asimmetrico che rende difficilissima l’azione militare: i terroristi si mimetizzano fra la popolazione civile, non portano uniformi e hanno costruito le fortificazioni da cui sparano sotto ospedali, scuole e moschee. E’ una guerra che Israele non desiderava e che l’ha colto di sorpresa e chiaramente impreparato: il 7 ottobre 2023, quando i terroristi irruppero nel territorio israeliano, uccidendo più di 1200 persone, rapendone più di 200, violentando, bruciando vivi vecchi e bambini, sparando 5000 missili sulle città, le difese intorno a Gaza erano deboli, perché Israele non credeva a una guerra. Essa invece era stata preparata e progettata per anni dall’Iran e dai suoi satelliti, accumulando quantità enormi di armi offensive. Finora su Israele sono piovuti circa 40 mila missili, partiti da Gaza, Siria, Libano, Yemen, Iraq, Iran. Hanno fatto un numero limitato di vittime, perché Israele ha investito molte risorse nella difesa dei civili, con rifugi e sistemi antimissile. Parlare di genocidio o anche solo di sproporzione militare significa ignorare che vi è una volontà esplicita e dichiarata di Hamas, Hezbollah, ma anche dell’Iran, di distruggere lo stato ebraico e di sterminare i suoi cittadini. Di fronte a questa minaccia non solo proclamata, ma portata all’azione concreta da sette fronti, lo stato di Israele ha il dovere di difendere l’incolumità dei suoi cittadini eliminando la forza militare e l’organizzazione politica dei terroristi. Un modo per fermare i combattimenti e le morti c’è ed è facile: basterebbe che i terroristi restituissero le persone che hanno rapito, consegnassero le armi e si arrendessero. Israele ha garantito di recente vie d’uscita sicure a chi lo facesse. Ma non ha ricevuto risposta. Se si continua a morire a Gaza, la responsabilità è di Hamas e dell’Iran.
Il comunicato ARI – Assemblea dei Rabbini d’Italia
Le parole del papa, nel suo ultimo libro riportate dalla Stampa a proposito della necessità di verificare se a Gaza è in atto un genocidio, sono apparentemente prudenti ma rischiano di essere molto pericolose. Questa parola è diventata lo slogan di tutte le manifestazioni anti israeliane che sfociano spesso nell’antisionismo e nell’antisemitismo.
Gli ebrei, nel corso della loro storia, sono stati accusati di varie cose tra cui il deicidio e l’omicidio rituale, sono stati trasformati in simbolo del male, in personaggi sanguinari proiettando sugli ebrei le violenze di cui gli ebrei stessi erano state vittime. Queste accuse hanno avuto conseguenze devastanti. Le parole sono importanti e bisogna stare molto attenti a come usarle soprattutto se si svolge un ruolo di guida religiosa.
Quello che avviene in questo momento in Medio Oriente, non solo a Gaza, (ricordiamo che ci sono 7 fronti aperti) è estremamente preoccupante e pone problemi a tutti noi. Tutti vorremmo che ciò finisse al più presto, che finissero le ostilità, che non ci fosse più la possibilità di un nuovo massacro come quello del 7 ottobre, che finissero le morti degli innocenti e che venissero finalmente liberati gli ostaggi. L’invocazione alla pace ci accomuna ma il modo peggiore di perseguire la pace è considerare le colpe in modo unilaterale e trasformare gli aggrediti in aggressori o addirittura in vendicatori sanguinari.
Siamo sicuri che papa Francesco non avesse queste intenzioni, siamo sicuri che le sue parole derivino da una genuina preoccupazione per la guerra in atto. Riteniamo però che per perseguire la pace sia necessario adottare un ‘altra prospettiva, preoccupandosi di tutte le vittime.