David Bidussa
La sera di sabato scorso a Parigi alle 19 mentre per le strade si festeggia la festa per il solstizio alcuni giovani vedono un loro coetaneo, lo picchiano selvaggiamente, lo lasciano sul marciapiede e se ne vanno. Il giovane ferito – ora in coma – si chiama Rudy Haddad, ha 17 anni (nell’immagine a fianco alcuni amici attendono davanti all’ospedale Cochin dove il giovane è stato ricoverato). Che cosa abbia fatto di concreto ancora non è dato sapere. In ogni caso non sembra che sia un dato importante.
Importante per i suoi aggressori, invece, era la sua identità. Rudy Haddad, infatti, ha in testa una Kippà – ovvero un copricapo religioso che lo identifica inequivocabilmente come ebreo. I suoi aggressori alle prime indagini risultato appartenenti a una banda di arabo-musulmani, in un quartiere – il XIX arrondissement – collocato nella zona nord-est di Parigi tra Montmartre e il Museo della scienza La Villette che oggi molti dichiarano a rischio, caratterizzato da forti tensioni tra bande a carattere confessionale o etnico, come ha dichiarato Jean-Christoph Cambadélis, deputato socialista eletto in quella circoscrizione. Un dato che è confermato dalla cronaca di quel giorno. Sono le 13.30 quando si verificano alcuni incidenti intorno agli uffici della municipalità dello stesso XIX arrondissement. Passano poche ore e ancora alle 16.30 un altro giovane ebreo di 20 anni viene aggredito e poi ferito mentre si sta recando a casa di amici. Da domenica la Francia ha ufficialmente riconosciuto che di nuovo in forma plateale l’antisemitismo corre per le strade di Parigi come nei giorni caldi tra 2002 e 2003. La condanna è stata unanime, ma rimane egualmente il problema di dare un volto a quel fenomeno che molti chiamano della “violenza giovanile” e, in specifico, dell’antisemitismo come fenomeno collettivo. Perché l’antisemitismo non è solo la conseguenza di colpire degli ebrei. L’antisemitismo prima ancora che un indicatore delle vittime che sceglie di colpire, è il sintomo di un malessere che attraversa la società contemporanea e, nello specifico la Francia moderna, un paese e una società che a ondate diverse a partire dagli anni ’90 dell’Ottocento ha conosciuto fenomeni di antisemitismo popolare.
Fenomeni che hanno coinvolto alternativamente il mondo rurale, il sottoproletariato urbano, i ceti medi, e ora in gran parte sembra coinvolgere la seconda generazione emigrata. Ogni volta l’antisemitismo ha un contenuto ed è il contenuto a farlo diverso (anche se talora appare sempre identico a se stesso) e a comunicarci in maniera diretta quale sia il malessere in corso.
L’antisemitismo, prima ancora, di essere l’individuazione di un nemico dato è la storia di un’ossessione e di un incubo. Come tutti gli incubi non si risolve, “facendo luce”, con dei “corsi di recupero”, ma nominando le cose per ciò che sono, per il meccanismo mentale che indicano.
Se a lungo l’antisemitismo che colpiva gli ebrei è stato l’ossessione per un complotto che non c’era, ovvero la disperazione di ingenui venerdì che temevano di essere turlupinati da perfidi Robinson in agguato a tramare nell’ombra contro la loro ingenuità (un’ossessione che ha avuto particolare fortuna nel cattolicesimo popolare), ora sembra che esso abbia acquistato nuovo valore. Esso rinvia così all’odio non per il diverso (quest’odio rimane in gran parte, ma deviato verso gli islamici nelle nostre società e di solito non coinvolge gli ebrei che invece vengono accolti come “integrati”, il che sia detto di passata non rende inesistente l’antisemitismo, semplicemente trasferisce quel meccanismo persecutorio su qualcun altro), bensì a quello nei confronti dell’emancipato. L’ odio etnico, che si presenta in nome della rivolta dei “dannati della terra” che colpiscono perché pensano di essere i militanti di un esercito che fa dell’atto “audace” un’ icona. In altri tempi avremo detto la rivolta della rabbia delle periferie contro il proprio prossimo percepito come nemico. Oppure la violenza riversata su individui trasformati i “pupazzi” su cui esercitare la propria rivalsa in nome dell’emancipazione dalla propria disperazione sociale. In breve il “Socialismo degli imbecilli”. E’ una definizione efficace. Può bastare?
Il Secolo XIX – 25 giugno 2008