III Parte – Israel Lipkin (Il Salanter)
1. La vita
Il rabbino lituano Israel Salanter conosceva l’ebraico, l’aramaico talmudico e parlava fluentemente solo l’yiddish. Non conosceva il francese, lasciò la Lituania per viaggiare in Europa solo a quarantotto anni e iniziò a studiare il tedesco a cinquant’anni. Eppure sviluppò una teoria dell’inconscio, anticipando la scoperta della psicoanalisi di fine secolo e fondò un movimento innovativo, di stampo psico-pedagogico. Nell’articolo “An early psychologist of the unconscious”,24 Hillel Goldberg nota quanto sia influente il ‘clima delle opinioni’ nella storia e come la forza delle idee possa penetrare attraverso barriere culturali e linguistiche. Certamente anche il clima intellettuale dell’epoca aveva avuto un influenza sul pensiero di Israel Lipkin, ma fondamentalmente egli si formò sui testi della filosofia ebraica medievale e moderna.
Rabbi Israel Lipkin nacque nel 1810 a Zager, nel distretto di Kovna. A Zager suo padre, discendente da una famiglia rabbinica, serviva come rabbino e fu conosciuto per il suo scritto Hagaot bet aryeh, sul Talmud e Maimonide, e sui Turim. Ben presto notò l’acuta intelligenza di suo figlio Israel, conosciuto da bambino come l’Iluy di Zager (il prodigio di Zager) e lo mandò a studiare dal Rabbi di Salant, famoso per la sua devozione al peshat, l’interpretazione letterale, piuttosto che al pilpul, la cavillosa discussione talmudica. A Salant Israel sposò la figlia del rabbino Jacov Eisenstein e continuò i suoi studi, con l’aiuto del suocero. La città di Salant in quegli anni era un importante centro di studi di Torà e Talmud e vi risiedeva un circolo di rabbini rinomati. In questo circolo Israel conobbe rabbi Yosef Zundel, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. L’incontro tra rabbi Zundel e il giovane Israel fu un evento storico per il discepolo. Rabbi Isaac Blazer, discepolo del Salanter, nel 1900 in Sefer Or Yisrael, descrisse quanto fosse stato incisivo l’incontro tra il Gaon he-chasid, ossia Zundel, e il giovane Israel Lipkin. Mentre il maestro era nei campi intento a ripetere le citazioni dell’yir’ah e del mussar, Israel lo seguì per osservarlo e ascoltarlo; quando il Gaon lo vide ne intuì l’attitudine interiore e «capì che il fiore delizioso sarebbe cresciuto come un cedro del Libano e sotto le sue ali di gloria e giustizia, come primo passo lo istruì sullo studio del mussar»25. Le parole del mussar penetrarono come una freccia nel cuore di Israel ed ebbero su di lui un forte impatto psicologico: egli cominciò a studiare ogni giorno sui trattati di etica. L’influenza di Zundel portò Israel a fare le sue stesse restrittive scelte di vita: non servire nel rabbinato, non scrivere libri, non studiare qabbalà e vivere per un periodo di tempo nell’anonimato. Le scelte di non rivestire una posizione ufficiale, di non scrivere libri e di vivere nell’anonimato erano in funzione della modestia, per sottrarsi alla tentazione dell’onore e della retribuzione. A Salant il ventenne Israel Lipkin venne apprezzato per la sua brillantezza intellettuale, il suo talento speciale. A trenta anni, nel 1840, decise di trasferirsi a Vilna, città ancora più rinomata per le accademie talmudiche. Vilna contava allora 30.000 ebrei e vi si formavano i maskilim.
Oltre ai dotti vi risiedevano molti artigiani, operai e semplici capifamiglia. L’attività del Salanter si orientò in due direzioni: da una parte lo studio della Torà, dall’altra venne in contatto con le nuove problematiche della vita ebraica. A Vilna egli trovò molte opportunità, insegnò e divenne leader, acquisì nuovi strumenti intellettuali e fu invitato a servire come rosh yeshiva nella prestigiosa accademia fondata da Rabbi Meile. I primi cinque anni servirono al Salanter ad acclimatarsi e farsi conoscere, si fece la fama di grande insegnante dalla dialettica tagliente. Usava proporre agli studenti brevi passaggi, contraddittori, citando a memoria lunghissime porzioni talmudiche. Il suo sistema di pensiero riusciva a includere Bibbia, Talmud Babilonese, haggadà, halakhà e midrash, risolvendo tutte le difficoltà interpretative con eccellenza e chiarezza. Dopo il primo periodo a Vilna, tra il 1844 e il 1846, iniziò il suo impegno per porre le basi del movimento del Mussar. Entrò in contatto con il circolo dei maskilim di Berlino (lo stesso di Solomon Maimon e Moses Mendelsshon) e conobbe l’opera di Rabbi Menachem Mendel Lefin (1749-1826). Quest’ultimo era uno dei pionieri dell’haskalà dell’ Europa dell’est ed ebbe una forte influenza sull’ ideologia del Salanter. Il libro di Lefin, che Salanter fece ripubblicare a Vilna nel 1844, si intitolava Sefer Cheshbon ha-nefesh, un libro che così viene definito.
Una guida all’introspezione e all’auto-miglioramento dell’inizio del XIX secolo, modellato sul sistema di Benjamin Franklin di lavorare su 13 distinti tratti caratteriali, ciascuno per una settimana alla volta con il ciclo che si ripete quattro volte all’anno. […] L’autore, Menachem Mendel Lefin, è stato uno dei primi leader dell’Illuminismo ebraico, o Haskalah, che ha mantenuto l’impegno per il giudaismo tradizionale e ha intrecciato idee e citazioni ebraiche nel suo lavoro. Cheshbon HaNefesh era inteso in parte come un’alternativa razionalista all’ascesa degli approcci chassidici alla crescita personale.26
Oltre a Cheshbon hanefesh, il Salanter nello steso periodo fece pubblicare il libro scritto da Salomon Ibn Gabirol nella Spagna dell’undicesimo secolo, Tikkun middot hanefesh, sul miglioramento dei caratteri dell’anima.
Le attività di rabbi Israel Lipkin furono fondamentalmente quattro: preparare sermoni sulle opere del mussar, fondare Case di studio del Mussar, costituire gruppi scelti di discepoli cui trasmettere gli insegnamenti affinché li divulgassero e pubblicare opere di mussar.
E’ importante contestualizzare la vita del Salanter per comprendere il tipo di difficoltà a cui andò incontro, nella realizzazione del suo progetto. Mentre egli era rosh yeshiva, regnava lo zar Nicola I (il cui impero durò dal 1825 al 1855) che, con lo scopo di assimilare le popolazioni ebraiche, intervenne per limitarne le libertà: istituì, per bambini e adolescenti, l’arruolamento nell’esercito russo obbligatorio e ventennale, censurò la stampa ebraica, smantellò l’organizzazione tradizionale delle comunità e ne riformò il sistema educativo. Intanto, tra gli ebrei dell’haskalà salirono in auge i maskilim, collaboratori del governo che cercavano di mediare tra la popolazione ebraica e le riforme che ne minavano l’esistenza e l’identità. I maskilim, intellettuali ebrei, credevano nell’integrazione culturale economica e sociale degli ebrei, come unica possibilità di riscatto dalla posizione subalterna. I rabbini, che fino allora avevano avuto un ruolo importante nelle comunità, persero molte delle loro funzioni e spesso dovettero limitarsi al controllo dei registri di nascita e morte della comunità. L’élite degli studiosi della Torà salvaguardò come potè le proprie famiglie e i propri figli, ma le grandi masse dovettero passivamente soccombere all’oppressione delle crescenti tassazioni e dei divieti di risiedere nelle aree commerciali. Aumentò di molto il numero degli artigiani e molti ebrei si allontanarono dalla tradizione. Rabbi Israel Salanter tentò di affrontare i cambiamenti facendo una sintesi tra il tradizionalismo ebraico e la cultura moderna europea. Nel 1845, quando aumentarono le restrizioni e le espulsioni dai villaggi, durante il severo impoverimento dei giudei russi, il Salanter diede il via al suo movimento. Fu proprio questo contesto socio-politico a motivarlo a lavorare per il rafforzamento della tradizione ebraica.
Fu rabbino capo, pensatore, educatore, organizzò classi di Torà per studenti universitari, artigiani, insegnanti (lomdim) e capifamiglia (baalei batim); fu editore e attivista in vari settori pubblici. La visione del Movimento del Mussar fu la sua risposta ai cambiamenti dei tempi. In una situazione estremamente difficile, ritrovò la sua speranza nel motivare allo studio della Torà la gente semplice. Voleva che lo studio e la ricerca di un rinnovamento etico diventassero un’istituzione nella vita collettiva; il suo cruccio fondamentale era che l’opera iniziata a Vilna continuasse a livello pubblico, entrasse nel tessuto sociale, e che il Mussar diventasse “alla moda”; che entrasse nella società ebraica prestigiosa, così come era avvenuto nella società lituana con i talmudisti.
Da Vilna preferì poi trasferirsi a Kovna, a causa di dissidi all’interno delle comunità, anche se fu invitato ad insegnare nel seminario rabbinico.
Negli anni ’50 la sua insofferenza verso l’illuminismo ebraico, l’haskalà, cresceva e decise di aprire le Case del Mussar, di cui parleremo più avanti, nei luoghi con maggior presenza di maskilim e intellettuali ebrei. Il rapporto di Rabbi Salanter con l’Illuminismo ebraico era, al di là della sua stessa volontà, contraddittorio: egli era un tradizionalista inamovibile nel non cooperare con l’haskalà, ma in realtà i suoi insegnamenti psico-pedagogici erano molto più vicini agli ideali di quel tempo che al tradizionalismo rabbinico. Fin dai suoi primi anni a Kovna emersero degli oppositori al Mussar. I rabbini non avevano mai visto di buon occhio la nascita di movimenti innovativi che, in fondo, facevano riferimento a valori tradizionali, eredità di tutti! Che bisogno c’era di andare nelle Case del Mussar e appartarsi per raggiungere un livello di pietà maggiore? In più, nonostante la grande differenza di contenuti ed esperienze tra chassidismo e Case del Mussar, nel quadro generale e nella dinamica sociale risultava una sorta di parallelismo. I devoti del Mussar ponevano più attenzione alla conoscenza del cuore, i chassidici apparivano naif per le loro esperienze estatiche; entrambi i movimenti furono oggetto di critiche e percepiti come arroganti nel loro separarsi per dar vita a nuove realtà.
Nel 1857 il Salanter si trasferì da Kovna in Prussia, ma prima della sua partenza scrisse delle lettere ai suoi discepoli sulle nuove prospettive della dottrina del peccato. L’epistolario fu chiamato Iggeret ha-mussar e fu pubblicato nel 1858 da Tomer Devorah come introduzione al Mussar cabalistico di M. Cordovero.
Nel suo tempo in Prussia visse da solo ed entrò in una fase depressiva; continuò a servire nel Beit midrash e nel 1860 fondò una confraternita di studi talmudici.
Visitò Berlino, Hamburgo ed altre città, studiò il tedesco, il francese, chimica letteratura e psicologia. Non dimenticò mai la sua passione per la scienza e la matematica. Il nome di Lipkin divenne noto nel mondo matematico per la sua invenzione ingegneristica, il “Parallelogramma di Lipkin”: un dispositivo meccanico per il cambiamento del moto da lineare a circolare, che dal 1870 entrò nei testi scolastici e nei musei di Parigi e San Pietroburgo.27 Rabbi Lipkin voleva dimostrare che non vi era contraddizione tra le scienze e lo studio della Torà. Tentò altre professioni, pensando che anche l’inserimento sociale poteva essere occasione d’incontro e di testimonianza ebraica.
Nel 1860 a Memel pubblicò il periodico Tevunà, adottando la tipica forma letteraria della Wissenshaft des Judentum. A settanta anni il suo ultimo impegno fu a Parigi dove, dal 1880 al 1882, insegnò agli immigrati russi e polacchi.
Nel 1880 fu pubblicato il suo ultimo lavoro “Il trattato per il rafforzamento di coloro che studiano la nostra santa Torà”, una raccolta di scritti dei suoi ultimi venti anni. Si spense in Germania a Koeningsberg il 5 febbraio 1883 all’età di 73 anni. Il Salanter, noto per la sua umiltà e devozione verso il prossimo, non lasciò un lavoro sistematico di scritti pubblici, ma il suo discepolo e collaboratore I. Blaser pubblicò a Vilna nel 1900 Ohr Yisrael, i sermoni e le lettere scritte dal Salanter in un periodo di 40 anni, dal 1835 al 1875.
2. Il Pensiero e l’opera
Ci sono visioni discordanti su quanto rabbi Israel Lipkin fosse continuatore del pensiero dei suoi maestri e quanto innovatore. Di certo dal suo maestro, rabbi Zundel, egli apprese i principi che entrarono a far parte della sua dottrina e cioè:
- lo sforzo massimo di realizzazione dell’halakhà e l’applicazione pratica degli studi;
- la sensibilità e l’allerta nel riconoscere l’impulso cattivo che vuole opprimere l’essere umano;
- la convinzione che per combattere tale impulso non sia sufficiente lo studio della Torà ma si debbano fare attività distinte, dedicate a questo scopo;
- l’autoesame e lo studio dei testi del mussar per il miglioramento etico.
Come abbiamo detto la dottrina del Mussar ruotava intorno alla relazione tra la Torà e il timore di Dio. Il tema degli impulsi interiori e delle motivazioni individuali non era nuovo e lo stesso Maimonide, nei suoi Shemonah Perakim, considerava le virtù etiche in relazione al libero arbitrio, attraverso un’indagine psicologica.
Sappi che le trasgressioni e le obbedienze alla Torà scaturiscono da due diverse parti dell’anima: dalla parte sensitiva e dalla parte appetitiva […] Ma le virtù etiche si trovano solamente nella parte appetitiva mentre la parte sensitiva è unicamente al servizio della parte appetitiva.
Le virtù di questa parte sono assai numerose, come, per esempio: la continenza, la generosità, la dirittura, la ponderazione, l’umiltà, l’accontentarsi di ciò che si ha, il coraggio, la bontà, la mansuetudine ed altre. I vizi di questa parte consistono nel difetto o nell’eccesso di tali virtù.
Quanto alle parti nutritiva e immaginativa non si può usare al loro riguardo né il termine virtù né quello di vizio ma semplicemente dire che esse funzionano bene o male.28
Il Salanter però, a differenza dei suoi predecessori, pose una forte enfasi sulle motivazioni psicologiche e, quando si convinse che l’apprendimento e la conoscenza non miglioravano l’istintualità, capì che era necessario scendere nell’animo per imprimere in profondità le sane virtù. Come si direbbe ai nostri giorni, si trattava di insegnare al cuore ciò che la mente già comprendeva.
E’ stabilito che ognuno di noi debba padroneggiare qualcosa nella propria vita. L’incarico ci è stato assegnato, l’abbiamo avuto, anche se non ne siamo consapevoli, perseguire questo curriculum è il compito centrale della nostra vita…quello che chiamo il tuo curriculum si manifesta più chiaramente in problemi che ti sfidano ripetutamente […] ma nonostante la tua esperienza potresti non aver realizzato che esiste un curriculum incorporato nella tua storia personale. Prima acquisisci familiarità con il tuo curriculum e riesci a padroneggiarlo, più velocemente ti libererai da questi schemi abituali.29
Prima di descrivere la dottrina del Mussar del Salanter, vediamo un breve elenco di termini e concetti che egli fece suoi ed ampliò, traendoli dalla tradizione ebraica medievale.
Il termine da lui usato per parlare di comportamento esteriore era hitzonì, termine che nella letteratura medievale designava semplicemente i cinque sensi. I termini regashim (sensi), hassagot (percezioni) e kohot (forze) pure erano interni alla tradizione rabbinica e egli li rivisitò. I testi medievali usavano una decina di termini per indicare le facoltà sensoriali e egli ne scelse solo alcuni; non si può dire che la sua dottrina poggiasse sui testi ebraici medievali ma trasse da questi ispirazione.
A proposito della percezione, Rabbi Salanter studiò il livello inconscio di tale facoltà innata; pose attenzione alla capacità dell’uomo di apprendere lettere, parole e frasi di una lingua, e risalì al fenomeno dell’ “associazione”. Anche questo era stato studiato nel Medioevo, ossia la particolare facoltà dell’uomo di recepire elementi diversi, organizzarli e farli confluire in un’idea unitaria: la chiamavano “senso comune”. Il Salanter pose inoltre attenzione alla capacità dell’uomo di associare oggetti interni, distinti, che si accorpano fino a formare un’idea più complessa, una percezione. Chiamò questi oggetti interni penimiuto, oggi li chiameremmo “percetti”.
Per quanto riguarda l’azione inconscia, nel Medioevo, per spiegare l’azione istintiva innata, si era usato l’esempio della pecora che teme il lupo senza averne mai avuto esperienza né conoscenza. Il Salanter per spiegare questa forza interiore innata fece perlopiù riferimento all’amore genitoriale.
L’istinto biologico nei testi medievali veniva chiamato appetito, termine che userà anche il Salanter, già descritto come la spinta interna verso le cose piacevoli.
Il suo lavoro educativo era rivolto essenzialmente ai giovani e ai capifamiglia con back- ground di studi di Torà e interessi intellettuali.
I sermoni pubblicati in Even Israel riflettono il suo primo stadio di carriera di predicatore, tempo in cui cominciò a preparare studenti per la leadership del movimento da presentare in pubblico. Il campo di interesse del Mussar dal punto di vista teologico era molto esteso e riguardava la Mishnà, il Talmud, l’immagine di Dio trascendentale e personale, la rivelazione all’umanità attraverso la Torà e i comandamenti, la provvidenza di Dio e le Sue ricompense e punizioni. Non era certo esattamente l’Iddio delle speculazioni intellettuali razionalistiche, né filosofiche né cabalistiche, né tantomeno chassidiche. Il tentativo di avvicinare i mondi superiori non aveva mai avuto un ruolo nel suo pensiero religioso, né egli aveva espresso un giudizio negativo sul misticismo. Lo riteneva di secondaria importanza in quanto il suo interesse primario riguardava l’obbedienza alle mitzwot e al servizio divino. In tal senso si può vedere una differenza tra il Salanter e i suoi maestri: il Gaon da Vilna, il Volozhiner e Zundel avevano studiato la qabbalà e riservavano alla mistica, anche se in maniere diverse, un ruolo importante. Il Salanter si era invece ritirato da questi temi, per lui i chassidici tendevano a psicologizzare i concetti provenienti dalla metafisica, ed egli era quasi indifferente alle teorie teosofiche. Ad un suo studente scrisse semplicemente che forse i tempi non erano maturi per gli studi cabalistici di Moshè Chayim Luzzatto.
Era interessato a diffondere il messaggio della normativa etico-religiosa e scrisse:
«Il Maharal di Praga creò un Golem e questo fu un grande miracolo, ma quanto più miracoloso sarebbe trasformare un essere umano corporeo in un uomo».30
Era per lui l’educazione morale la più difficile sfida religiosa.
Per il Salanter le più pericolose trappole psicologiche erano quelle che insidiavano la volontà dell’uomo nel servizio divino, quindi egli trasferì il focus del problema dalla teologia alla psicologia e, dopo il 1860, andò diminuendo l’insegnamento halakhico per lasciare spazio alla sua idea di mussar. Denunciò l’errore di accorpare tre elementi che in realtà sono distinti: la conoscenza dei corretti principi, la motivazione a praticarli e la loro effettiva applicazione. Il fatto che un individuo conosca i precetti e i desideri non è garanzia del fatto che li praticherà. Egli comprese che i pattern comportamentali non sono guidati dalla razionalità conscia ma c’è una forte componente irrazionale ed emotiva. Il suo scopo fu quello di creare una connessione tra normativa halakhica e capacità individuale di applicare quella norma. Questo fu l’obiettivo ch’egli si diede e che pensò di sviluppare in due stadi: lo studio dei meccanismi psicologici e lo sviluppo di un metodo educativo.
Il punto di partenza del Mussar del Salanter poggia sulla comprensione delle motivazioni del comportamento umano negativo, quello guidato dallo yezer ha-ra, l’impulso cattivo. Si tratta dell’inclinazione naturale alla soddisfazione di un desiderio innato nell’uomo, che negli anni attraverso le abitudini e le influenze dell’ambiente, tende a rafforzarsi. E’ l’attrazione verso il piacere istantaneo, l’incapacità di procrastinare la sua soddisfazione e di soppesare le conseguenze di tale scelta nel futuro. Tale istinto guida costantemente alla soddisfazione del piacere e all’evitamento dell’esperienza penosa. Quando ci si confronta con le norme halakhiche, ossia l’intelletto, alcuni appetiti dimostrano una grande forza: quelli sono da considerare yetzer ha-ra. La forza di questo desiderio spingerà poi l’intelletto a cercare giustificazioni alle proprie condotte, anche quando queste siano contrarie all’halakhà. Anche tra gli studenti della Torà, avvertiva rabbi Israel, l’intelletto cerca stratagemmi.
A proposito del male del mondo che corrompe l’uomo, egli avvertiva i suoi del duro lavoro di resistere alle prove e ai problemi del proprio tempo, ma a proposito dell’origine di questo male egli dissentiva dai suoi maestri.
Egli si dissociò dalla tradizione cabalistica a cui si riferivano il Gaon, rabbi Hajjim e Rabbi Zundel. Lì l’istinto cattivo era concepito in relazione al Sitrà Ahrà. In opposizione a questo Salanter sviluppò una teoria psicologica che può essere descritta come naturalistica nel senso che intende l’anima come un organismo autonomo, indipendente dalle influenze delle forze metafisiche esterne.31
Se per la letteratura tradizionale i pericoli del mondo provenivano dal mondo metafisico, da una personalità demoniaca o dal sitrà achrà, per il Salanter l’impulso cattivo era una forza con le radici ben salde nell’animo umano. La visione del Salanter fu considerata pessimistica proprio per questa sua concezione della vita: gli uomini sono potentemente guidati dagli appetiti e dai desideri e la vita è piena di conflitti tra desiderio e halakhà.
Egli rinforzò l’ idea che lo strumento principe per combattere la forza degli appetiti è il timore di Dio, l’yir’ah, uno dei punti focali della letteratura ebraica in tutte le generazioni. Classicamente veniva tracciata una distinzione tra yir’at ha-onesh, cioè il timore della punizione e yir’at ha-rommemut, cioè il timore di Dio dettato da una motivazione positiva. Per quanto non tutti convergevano nel considerare la paura della punizione una motivazione legittima per servire Dio, in generale si ammetteva che questa potesse essere una motivazione valida all’inizio della crescita spirituale.
Le motivazioni morali, guidate dall’intelletto, avevano per il Salanter una funzione di risveglio molto importante. Un intelletto vigile sa controllare il desiderio, riconosce il principio divino di retribuzione e sa soppesare le conseguenze delle proprie azioni. Anche rabbi Bahya Ibn Pakuda dava un ruolo preminente alla funzione dell’intelletto, nel cammino etico e di conoscenza. Il Salanter, in questo senso, fu in piena continuità con il pensiero tradizionale del mussar, ma egli individuò delle differenze importanti rispetto ai rabbini che l’avevano preceduto. Egli vide una sopravvalutazione del ruolo dell’intelletto, che da solo non è sufficiente per condurre una vita morale; l’intelletto ha la sola funzione strumentale e pragmatica di calcolare i benefici e i costi. Il timore della punizione può servire come motivatore, ma in nessun caso può considerarsi un vero valore motivazionale. Il Salanter arrivò alla conclusione che si dovesse distinguere tra le motivazione consce e quelle inconsce, per accedere pienamente al privilegio del servizio divino.
Quando vi sia un forte impulso distruttivo o maligno, la conoscenza non riesce ad arrestare lo yetzer ha-ra: l’emozione di quest’ultimò prenderà il sopravvento e il timore delle conseguenze non sarà abbastanza forte da arrestarlo. Nell’Higgeret ha-Mussar, le lettere scritte ai suoi discepoli dal 1849 al 1858, sosteneva:
L’uomo è libero nella sua immaginazione ma limitato dal suo intelletto. La sua immaginazione lo guida selvaggiamente nella direzione dei desideri del cuore senza temere l’inevitabile futuro, quando Dio gli presenterà il conto delle sue azioni ed egli sarà castigato da severi giudizi…
Guai all’immaginazione, questo male nemico. E’ nelle nostre mani, nel nostro potere, allontanarla ed ascoltare attentamente l’intelletto, prestare attenzione alla verità, calcolare il piacere ottenuto con la trasgressione, o la sua perdita. Cosa faremo, quando l’immaginazione sarà un torrente straripante nel quale l’intelletto annega. Non potremo fare altro che metterla a bordo della nave, questa eccitazione dell’anima, questa tempesta dello spirito.32
Vediamo qui che il Salanter inizia ad usare una terminologia meno religiosa, più neutrale: il termine immaginazione è sinonimo di yezer ha-ra. Questo cambiamento del linguaggio continuerà fino alla fine dei suoi giorni, quando tutto il suo approccio e la sua comunicazione diverranno più ‘laici’. Nella citazione sopra, l’idea è che il piacere sia un torrente straripante, che quando l’immaginazione si risveglia trasmette un senso di libertà e il comportamento conseguente sarà indisciplinato. Il punto cruciale del mussar del Salanter riguardò proprio la forza delle emozioni che influenzano il comportamento umano. Per il nostro educatore, la soluzione stava nel trasferire l’yir’ah dal livello conscio a quello inconscio, affinché il timore fronteggiasse in profondità l’appetito. Il comportamento morale deve essere “strategicamente” impresso in profondità e divenire una qualità morale interiorizzata nell’anima, con la forza di motivare ad un cambio di comportamento. Se la meditazione sui testi del mussar esponeva la coscienza dello studente all’insegnamento etico, una nuova pratica doveva accompagnare gli studenti nella loro elevazione morale: l’esperienza del be-hitpa’alut, termine ebraico che significa eccitamento, entusiasmo. L’hitpa’alut serviva a raggiungere il timore di Dio e consisteva nell’esperire una combinazione di eccitazione emotiva e sentimenti di rimpianto e purificazione.
Per questo erano state istituite le Case del Mussar, luoghi in cui si studiava ad alta voce, con ritmi cantilenati e melodie tristi atte a procurare emozioni di rammarico e rimpianto.
Le emozioni venivano accompagnate da accorgimenti tecnici vocali, musicali, corporei e mnemonici. Talvolta i partecipanti giungevano a gemiti ed esplosioni di pianto: tali esperienze dovevano scolpirsi nella psiche. Lo studente doveva anche ripetere ad alta voce e “con labbra infuocate”, molte volte, le frasi dei testi in uso. Talvolta rabbi Israel proponeva delle parabole ed ogni studente, dopo aver fatto un autoesame, sceglieva per se stesso la frase significativa per la sua trasformazione interiore, e la ripeteva fino alla liberazione: si trattava di superare ogni inibizione e mettersi psicologicamente a nudo. I testi maggiormente in uso, per questi esercizi spirituali di elevazione etica, erano Chovot ha-levavot di Pakuda e Mesillat Jesharim di Luzzatto.
Le Case del Mussar non volevano entrare in competizione con il Bet Midrash, ma così apparve ad alcuni rabbini. Anche nella Casa del Mussar si sfiorava l’esperienza estatica come succedeva nelle preghiere chassidiche, mentre nel Bet Midrash, ambiente di studio talmudico più sobrio, le melodie erano quelle tradizionali, molto meno melanconiche di quelle che si levavano nella Casa del Mussar.
Rabbi Naphtali Amsterdam, studente del Salanter, testimoniava che per circa due ore al giorno studiava libri del mussar e investigava nel suo animo, e quando le idee entravano opportunamente nel suo cuore ne era confortato perché il be-hitpa’alut, tra confessione e pianto e liberazione, rinnovava il suo cuore e dava gioia all’anima.
Anche il Gaon da Vilna e Rabbi Zundel avevano esortato all’ eccitazione e all’entusiasmo durante lo studio, ma solo il Salanter sviluppò una vera e propria tecnica in tal senso.
Un concetto che veniva insegnato per risvegliare il timore di Dio era quello della chokhmat ha-olam, ossia la sapienza del mondo. Per coltivare l’yir’ah, era necessario avere la sapienza del mondo, cioè osservare le vicende mondane e comprendere le relazioni sociali: metterle a confronto con le proprie debolezze e sviluppare anticipatamente un piano strategico per affrontare le sfide che sarebbero arrivate. Fare cioè un autoesame preventivo delle proprie debolezze, per farsi trovare pronti di fronte alle prove. Per il Salanter era importante scoprire dove si annidavano le possibili tentazioni per accrescere il timore del peccato.
Il Sefer Cheshbon ha-nefesh di Mendel Lefin (1749-1826) tracciava i principi dell’etica filosofica tradizionale e distingueva tra anima animale e anima intellettiva, dove l’anima animale era definita come passiva e mancante di una volontà propria. Questa si attivava attraverso gli impulsi innati del desiderio e del dolore. Tali impulsi quando soddisfacevano l’anima animale la affondavano in una sorta di dormienza, incapace di anticipare il futuro. Era invece parte dell’anima intellettiva la volontà e lo spirito. Il Lefin affermava due fattori dinamici innovativi e importanti: gli appetiti hanno una portata emotiva superiore all’intelletto, e quando vi è un contrasto tra le forze interiori dell’uomo, la più potente si impone all’altra. E come abbiamo visto, quest’idea era entrata a far parte della dottrina del mussar. Paradossale che il pensiero di Lefin, pioniere dell’haskalà europea, avesse influenzato un rabbino leader dell’ortodossia che voleva fare del ritorno alla tradizione la sua bandiera!
Ci soffermeremo ora su altri due pensieri importanti della dottrina del Mussar: i taamei ha-mitzwot e il tikkun ha-middot.
Il tema dei taamei ha-mitzwot, ossia le ragioni o motivazioni dei precetti, è stato un tema ricorrente dalla filosofia ebraica medievale in poi. Molti hanno cercato di elaborare modelli esplicativi con lo scopo di motivare l’adesione ai precetti. Un esempio chiarificatore è quello del Nachmanide, che nel suo commentario alla Torà cercò di spiegare ogni singola mitzwà. L’argomentazione più ampia ed estesa che egli portò riguardava Devarim 22:6: la spiegazione del precetto che prescrive la liberazione della madre-uccello, prima di prelevare le sue uova o i pulcini. Maimonide già si era occupato di questa mitzwà e Nachmanide ne continuò l’analisi, dando due tipi di spiegazioni: il comandamento parla del divieto di uccidere la madre e i piccoli in uno stesso giorno perché uccidere entrambi sarebbe segno di crudeltà. E colui che uccide la madre e i piccoli in un giorno o li cattura entrambi è considerato come se eliminasse quella specie. La prima spiegazione è morale, contro la spietatezza e per l’educazione alla sensibilità morale. La seconda, per Nachmanide, è che la Torà non permette all’uomo di distruggere totalmente una specie in quanto si devono mantenere immutate le specie create nella genesi. Questa seconda spiegazione è di tipo metafisico, cabalistico. Per il Ramban i precetti e tutta l’esistenza si dispiega su due livelli, se non di più.
Il tema delle ragioni dei precetti fa parte della letteratura rabbinica tradizionale; l’approccio del Salanter ai temi dell’educazione all’osservanza partiva da questi presupposti.
La comprensione intellettiva dei precetti era essenziale per costruire un percorso di risveglio spirituale fondato sulla tradizione.
Ma perché sono stati dati anche i precetti che sembrano non avere logica (chukim)? Per il Ramban tutte le mitzwot hanno un senso, come il precetto del nido di uccello. Fossero pure casi straordinariamente unici, con poche possibilità di comprensione, l’ intelletto può e deve cercare di afferrarne i motivi. Quel che è essenziale è cercarne le ragioni. E’ anche così che l’uomo si affina e trae beneficio dal precetto.
Le mizwot per Nachmanide formano un sistema che è una sorta di umanesimo religioso. Sono date per l’uomo. Ad esempio nel caso della tzedakà al povero, la carità non si fa perché Dio desidera aiutare il povero ma perché, attraverso essa, l’uomo ricco sviluppa l’attributo della misericordia verso il povero. Così succede nel caso del nido di uccello: Dio non ha pietà del singolo uccello ma vuole sviluppare nell’uomo una pietà verso la mamma-uccello e accrescere nell’uomo il desiderio di non causarle dolore, anzi di allontanarsi dalla crudeltà.
Se il Nachmanide vedeva in ogni mitzwa un doppio livello, umanistico e metafisico (iesh ba mitzwà sod), per il Salanter il valore maggiore delle mitzwot sta proprio nel loro porsi di fronte all’uomo per migliorarne la morale e di conseguenza il carattere.
Altro tema centrale è appunto quello del miglioramento del carattere, il tikkun ha-middot. Il precedente pensiero del mussar considerava il miglioramento degli attributi del carattere un lavoro tra tratti psicologici ed etica, ad esempio il Saadia Gaon come il Maimonide pensava che i buoni atti etici avvengono grazie all’armonia (la regola d’oro) delle tredici funzioni dell’anima, dove l’intelletto cognitivo bilancia e giudica in termini di benefici e danni. Anche il mussar della letteratura cabalistica vedeva gli atti etici come frutto di un’armonia tra gli attributi dell’anima e le mitzwot. Per esempio nello scritto del discepolo di Luria, Chayim Vital, Sefer shaarei Kedushà, le mitzwot e le middot sono molto interconnesse: l’anima intellettiva ha 613 organi spirituali che influenzano i 613 organi dell’umile corpo: le middot risiedono nel corpo e devono essere governate dall’anima intellettiva per adempiere le mitzwot.
Sia Maimonide che Chayim Vital ritenevano che la cosa più importante da fare rispetto agli istinti fosse la loro correzione. Il trattato di Chayim Vital conteneva dettagli sulla relazione fra tratti malvagi e trasgressioni ma senza una chiara distinzione tra middot e trasgressioni.
Vedremo che il fondatore del Movimento del Mussar indicherà un intervento più radicale per giungere alla trasformazione del carattere istintivo. La sua ricerca iniziale metteva al centro la meticolosa ubbidienza ai precetti, per raggiungere una formazione della personalità adatta il più possibile al servizio divino nel timore di Dio; ma la sua crescente consapevolezza delle forze irrazionali negative dell’animo umano, lo portò ad un approfondimento della ricerca.
Il Salanter a partire dal 1859, passò dalla centralità delle mitzwot e dello studio ripetitivo delle halakhot, alla centralità del tikkun ha-middot. Arrivò ad affermare che un cattivo tratto caratteriale è una trasgressione e un buon tratto è una mitzwa.
Il tikkun ha-middot, ossia l’acquisizione di buoni tratti del carattere, divenne il focus per l’armonia tra anima ed halakhà: la perfezione etica è la massima risposta ai comandamenti della Torà. Per intervenire sul cambiamento del carattere egli indicò due strade: la prima consisteva nel potenziare il bene e sottomettere il potere del male, correggendo la propria volontà. La seconda consisteva nel trasformare tutta la propria volontà, amare la rivelazione divina e prestare molta attenzione ai comandamenti, per ridurre il potere degli appetiti.
Salanter per spiegare il tikkun ha-middot usò i due concetti: il kibbush ha-yezer (soggiogare l’impulso cattivo) e il tikkun ha-yezer (correggere l’impulso) precisando che il tikkun ha-middot è quest’ultimo.
In questa fase il Salanter considerò necessario sia combattere l’istinto che soggiogarlo, per poi arrivare gradualmente al governo dello spirito: l’istinto doveva essere affrontato su tutti e due i terreni. Salanter sottolineò che la correzione dovesse avvenire in relazione alle cose mondane (be-milei de-alma) e la trasformazione dovesse essere psicologico-esistenziale e non mistica. E per molte ragioni egli pensava che fossero i giovani quelli più predisposti al cambiamento profondo perché in fase di formazione della personalità, più inclini all’auto- esame, e con più interesse ai piani futuri.
Vediamo come Hillel Goldberg nel suo articolo An early psychologist of the inconscious ci guida in un limpido riassunto sull’evoluzione del pensiero in Salanter.
Nelle prime lettere degli anni ‘40 a Vilna, Rabbi Yisrael descrisse solo alcune funzioni dell’inconscio e ne fece un’analisi semplificata. In questa fase egli vide nell’uomo il suo carattere corrotto, fatto di imprevedibili e incontrollati impulsi. Il Salanter in quegli anni usa indistintamente i termini brama e inclinazione, non distinguendo neppure tra impulsi biologici e psicologici. Senza una restrizione che provenga dal timore di Dio, egli pensava, la brama e l’urgenza superano i limiti del lecito.
Negli anni ’50 Rabbi Salanter vive una rinnovata consapevolezza del fenomeno dell’inconscio ed entra in una visione ottimistica: l’essere umano può trasformare e domare la propria natura animale. Nell’animo umano ci sono forze oscure e forze luminose, si tratta di riuscire a muovere quel potere nascosto che può risvegliare la coscienza.
Per spiegare l’autoesame rabbi Israel paragona lo scavare in profondità a ciò che succede quando si impara una nuova lingua: ci si sforza di imparare lettere, parole e frasi e poi improvvisamente si parla una nuova lingua. Così è del risveglio di una coscienza: attraverso piccoli stimoli si risveglia e viene alla luce.
Sia i tratti del carattere che gli appetiti sono radicati nell’inconscio, grande magazzino delle forze psicologiche, ed è un pericolo che i tratti negativi siano mantenuti nella latenza dell’inconscio; vanno risvegliati con l’hitpa’alut. Bisogna sforzarsi di risvegliare quelle forze innate e trasformarle, è un processo etico che deve accompagnarci per tutta la vita. Con la scoperta dell’inconscio il Salanter capisce che l’hitpa’alut, a partire da un insight pratico, portava alla speculazione teoretica.
Con il suo arrivo in Germania (dal 1861-62), la sua visione dell’inconscio si fa più analitica e sofisticata. Egli considera che l’uomo manifesta il suo profondo istinto malvagio solo sotto grande provocazione e, solo con grande sforzo, può trasformare e dominare tale distruttività, ma non del tutto. In realtà, il male maggiore pur se sradicato, resta latente nell’animo umano e quel residuo è sempre pronto ad emergere. Questa radice inconscia ora non è più solo una forza, ma nel pensiero del Salanter assume le forme di qualcosa di occulto, nascosto. Si tratta di un regno che dev’essere esplorato, portato alla luce: l’uomo deve mettersi alla prova, conoscere i suoi limiti per superarli, sottometterli e ricondurli alla ragione.
Nell’ultimo periodo tedesco, nel 1881, per rabbi Israel Salanter i fenomeni inconsci rivestono davvero una grande importanza. Egli è ormai convinto che siano le forze interiori ‘occulte’ a modellare i comportamenti esteriori. Le forze esteriori (tradizionalmente hitzoni) le chiama barur, e la forza interiore (penimi) la chiama kehee che significa oscura.
Una delle illustrazioni da lui usate per spiegare il fenomeno dell’inconscio fu la storia dell’insegnante che viveva con il suo amato discepolo ed un figlio odiato; ad un tratto in piena notte scoppiò un incendio, e nella baraonda egli corse a salvare per primo suo figlio e poi il discepolo. Come era possibile una tale contraddizione? Perché, a dispetto dell’apparenza, il suo amore per suo figlio era radicato nel suo inconscio di più di quello per
il suo discepolo. Ecco che l’uomo vive in una doppia realtà. Rabbi Israel adottò questo modello anche nell’interpretazione biblica: il midrash di Yalkut Shimoni racconta che Abramo, davanti alla legatura di suo figlio Isacco, pianse fino a ricoprirsi di lacrime. Un’altra fonte dice che Dio vide che Abramo legò Isacco con tutto il suo cuore. Tale contrapposizione viene risolta dal Salanter con l’argomentazione che Abramo usò tutte le sue forze esteriori per legare Isacco e farlo in ubbidienza con tutto il cuore, ma le sue lacrime esprimevano il suo mondo interiore. Tra le due forze, interiore ed esteriore, diceva il Salanter non c’è continuità ma discontinuità: l’educazione ricevuta e l’ambiente formano i comportamenti esteriori ma gli impulsi seguono un loro percorso nascosto e spesso sono sottostimati. Vediamo a volte persone deliziose che, dinanzi ad una ‘provocazione’ hanno reazioni aggressive e, viceversa, persone rudi che sanno manifestare sorprendente gentilezza d’animo o compassione.
Nella sua maturità il Salanter delineò la distinzione tra istinti psichici e spinte biologiche e distinse tre aree dell’animo, sia coscio che inconscio. Si tratta dell’area della percezione, dell’azione e dell’attitudine i cui relativi esempi sono: il padre che salva il figlio di notte (azione inconscia), l’ apprendimento della lingua (percezione inconscia) e Abramo che lega Isacco con lacrime (attitudine inconscia).
A partire dal fatto che l’autocontrollo, l’annichilimento di se e desiderare il bene dell’altro sono leggi necessarie all’osservanza dei comandamenti, il Salanter considerava il peccato non solo come una trasgressione ma come un’inabilità a superare i propri difetti che limitano l’osservanza.
Nell’ultimo periodo tedesco il Salanter si interessò al rapporto dialettico tra sei coppie di caratteri opposti: istinto e intelletto, emozione e raziocinio, essere soggettivo e verità oggettiva, introversione ed estroversione, altruismo e sfruttamento, questo mondo e l’altro mondo. Polarizzò al massimo questi opposti per poi cercarne la riappacificazione, sempre alla ricerca di una nuova comprensione dell’uomo. Il movimento del Mussar non ebbe il successo sperato, molti restarono indifferenti alla sua dottrina; la frustrazione che si produsse nel Salanter lo portò a cercare dell’altro: non tutto si poteva spiegare con la funzione psichica degli appetiti, sembrava una spiegazione insufficiente. Ci doveva essere una forza più grande nell’animo umano, una seconda motivazione che spingeva l’uomo a peccare. Il Salanter chiamò questo potere spirito impuro, un potere non psicologico ma metafisico. Dopo una lunga parabola speculativa era giunto alla conclusione che l’interpretazione classica era valida e che con l’intelletto si poteva governare lo spirito impuro attraverso lo studio della Torà e della preghiera. Nel confronto tra le due dimensioni, quella fisica e quella spirituale, si nota comunque fino alla fine la superiorità che egli attribuì a quella fisica, alla dimensione umana.
Egli fu più sensibile ai comandamenti tra le persone che a quelli tra l’uomo e Dio, lo vediamo nei suoi sermoni più accorati. I temi più ricorrenti del Salanter erano quelli della carità e dell’ospitalità, dell’approccio allo studio e all’economia.
A proposito di carità e ospitalità egli spiegava quanto fosse importante l’adempimento di due mitzwot, la tzedaqà e la gemilut chasadim.
Spiegò la differenza di comportamento da tenere con l’ospite povero e l’ospite benestante: al primo bisognava offrire immediatamente del cibo senza aspettare, al secondo non era bene dar da mangiare subito. Da Abrahamo prese due insegnamenti: è bene affrettarsi a preparare cibo per il povero ed è preferibile avere come ospite un povero, perch’egli da la possibilità di adempiere due mitzwot, la giustizia e la gentilezza. Abrahamo offrì del cibo agli angeli proprio in questo modo.
Un altro tema a cuore del Salanter era l’approccio allo studio. Tra i mitnagdim lo studio era tenuto in altissima e santa considerazione, prerogativa fondamentale per il servizio divino, l’ignoranza era ridicolizzata. L’obiettivo del Salanter era piuttosto incoraggiare e sollevare lo spirito nelle masse; egli si rese ben conto che solo le classi più abbienti potevano sostenere i figli allo studio intensivo e per queste era difficile studiare la Torà. Così presentò lo studio della Torà alle masse come se si trattasse di un lavoro qualificato, dal grande valore, ben al di là delle competenze intellettuali. Il detto della giuderìa lituana per cui un “ignorante non può essere un pio” si scontrava con la sua sensibilità. Egli voleva che oltre allo studio si considerasse lo sforzo in termini di tempo ed impegno. Il Gaon era sì un servo di Dio, ma anche nell’am ha-aretz, ossia tra il popolo, ci poteva essere un vero tzaddik. La personalità del Salanter era tutta protesa a non causare danni alle persone e a rispettarne i diritti, convinto che ogni azione, pure la più quotidiana e semplice, doveva essere conforme all’halakhà.
A proposito dell’attitudine verso le attività economiche, egli ebbe un approccio diverso dai suoi maestri: il Pakuda insegnava che era necessario sforzarsi e non riposare sull’idea del miracolo, Nachmanide insegnava che non era necessario sforzarsi per procacciarsi la sussistenza ma si doveva avere fede nella Sua provvidenza. Secondo il Salanter entrambe tali visioni e valori erano veri; ma egli distingueva tra l’individuo e il collettivo. E’ il singolo che deve vivere di fede e provvidenza, secondo il modello del Nachmanide, mentre la massa dovrebbe avere la visione dei Doveri dei cuori ed essere più attiva. Egli esortava i suoi discepoli a non investire troppe energie mentali e troppo tempo nei commerci, meglio investire nello studio della Torà. Consigliava ai membri del suo gruppo di educare i propri figli affinché da adulti scegliessero lavori modesti, la sua critica al commercio somigliava in parte a quella dei maskilim. La sensibilità alla materia socio-economica appare nei suoi sermoni dal 1845 al 1856 in cui si nota il suo grande interesse all’applicazione dei comandamenti verso il prossimo. In uno di questi sermoni portava l’esempio di coloro che si appostavano alla porta della sinagoga e chiamavano alla preghiera con zelo gridando: kedushà! kedushà ! Venite, entrate! Si chiedeva provocatoriamente se costoro, allo stesso modo, invitavano con fervore il prossimo quando c’era un pasto ricco e abbondante sulle loro tavole.
L’articolo “Il rabbino che mangiò a Yom Kippur” si riferisce all’evento unico, avvenuto nel corso dell’epidemia del colera, che attraversò l’Europa dal 1829 al 1852. Rabbi Israel in una sorta di crociata contro l’establishment, dopo essersi consultato con altri sapienti, nell’autunno del 1848 annunciò pubblicamente che chi voleva poteva non digiunare nel giorno di Yom Kippur. Mise dei dolci fuori della porta della sinagoga: moltitudini di uomini e donne erano ammalati e debilitati. I più deboli poterono scegliere di mangiare per sopravvivere all’epidemia. Per il Salanter si trattava del comandamento: “osserverete le mie leggi e i miei statuti, seguendo i quali l’uomo ha la vita; Io sono il Signore” (Levitico 18:5).33 Egli era anche sensibile allo stato degli orfani e durante il colera si prodigò moltissimo per aiutare e incoraggiare il popolo.
Rabbi Israel Salanter suscitò reazioni contraddittorie. Agli occhi degli ortodossi fu visto come un gigante della Torà che portò in primo piano l’yir-ah, i suoi studenti e amici videro in lui un rabbino che combattè contro la modernizzazione dei costumi, alcuni esponenti dell’haskala videro in lui un oppositore, altri un sostenitore.
La sua sensibilità ai segmenti deboli della società, la sua critica ai contemporanei nel campo delle relazioni interpersonali, la sua tendenza ad agire in contesti sociali ampi, fecero di lui un uomo e un rabbino fuori del comune.
Il Movimento del Mussar inizialmente non penetrò nell’establishment rabbinico, non interessò le grandi masse, sia per la severità dell’approccio che per i timori di settarismo. Ma alla fine del XIX secolo i suoi insegnamenti entrarono nelle yeshivot.
Dopo la morte del Salanter l’approccio e la metodologia del musar ebbero grande diffusione grazie al rabbino J. Blaser (Vilna 1837-Gerusalemme 1907) che fece della jeshivà di Slobodka, alla periferia di Kovno, il centro propagatore del nuovo movimento spirituale, sempre più teso a contrastare l’eccessiva modernizzazione propugnata dall’haskalà in versione russa e gli atteggiamenti anti-religiosi del sionismo e del socialismo bundista. Nel novecento questa corrente di pensiero religioso verrà continuata e arricchita da Elijahu Eliezer Dessler (Lipaja 1892-Vilnius 1953), i cui scritti dopo la sua morte sono stati raccolti dai suoi discepoli in quattro tomi dal titolo Mikhtav me-Elijahu.34