II Parte – Dal Ramchal al Salanter
Il Sentiero dei giusti presso i mitnagdim
Per meglio comprendere l’influenza che il Ramchal ebbe sui suoi successori, dobbiamo considerare con attenzione la doppia natura dei suoi scritti e del suo pensiero. Grazie al ricorso a codici linguistici diversi, Moshè Luzzatto riuscì ad influenzare le diverse correnti religiose a lui contemporanee e i suoi assiomi penetrarono nelle generazioni successive.
Nel mondo ebraico il dibattito su tradizione, pensiero filosofico e misticismo, era aperto da secoli e con argomentazioni diverse. Fin dall’inizio del Settecento anche nelle comunità ebraiche si respirava aria di Illuminismo europeo e di Haskalà ebraica.
Ci si cominciò a chiedere con quali abiti presentarsi e come relazionarsi con la cultura dei gentili e le posizioni che si andavano prendendo erano molto diverse tra loro.
Per alcuni la filosofia era adatta solo ai goyim, l’ebreo non doveva cercare argomentazioni razionali ma gli doveva bastare la sapienza della tradizione. Per altri rabbini gli autori non ebrei potevano talvolta meritare più credito di quelli ebrei. Due posizioni estreme queste che indicano come le tensioni e gli arroccamenti sui vari fronti potevano giungere a posizioni
paradossali. Così fu il caso di taluni rabbini che per impedire la pubblicazione degli scritti di Mordechai Corcos, in tema di qabbalà e sefirot, si rivolsero ai tribunali civili.
Questo a dimostrazione del fatto che i tempi stavano cambiando così tanto che talvolta si formava un fronte comune con i cristiani contro taluni ebrei illuminati, scettici e razionalisti.
Era lontano il tempo delle dispute medioevali tra cristiani ed ebrei.
Forse anche per questo Chayim Luzzatto prediligeva la forma letteraria del dialogo, come quella tra il cabalista e il razionalista nell’opera Choqer u-Mequbbal (che non potè comunque uscire in Italia per divieto del tribunale rabbinico di Venezia). Ramchal farà dire al personaggio del razionalista che si può spiegare la qabbalà sia da un punto di vista storico che teorico:
Non sopportavo le cose che sentivo a proposito di questo sapere, le giudicavo sciocche, insipide, non ci trovavo niente che potesse chiamarsi scienza. Ma in questa generazione, invece, affermò che si tratta di una scienza straordinaria, che è bene e necessario che ogni persona intelligente lasci perdere tutti gli altri saperi del mondo per seguire questa scienza grande e santa; rispetto alla quale gli altri saperi non hanno nessun valore.18
Il Luzzatto, non molto diversamente da Maimonide, sosteneva che l’intelletto (sekhel) è creato per comprendere (lehaskhil) la luce della divinità e per ritrovare il senso perduto della vera conoscenza. Mentre i cabalisti seicenteschi più importanti, da Menachem da Fano a Moshè Zacuto, esponevano la dottrina senza ricorrere al livello della spiegazione, seguendo la retorica descrittivo-esegetica di Isaac Luria. Luzzatto sentì la necessità di chiarire la qabbalà ricorrendo alla sfera della ragione, ricorrendo cioè ali schemi e ai linguaggi filosofici del suo secolo, e forse non solo come strategia comunicativa.
Già a partire dalla fine del Quattrocento vi era stato il tentativo da parte di studiosi ebrei di comprendere le dottrine concettuali della propria tradizione attraverso concetti intellettuali secolari. Ad esempio Yochanan Alemanno (1434-1504), che viveva nella Firenze di Pico della Mirandola, identificò le sefirot con le “cifre spirituali” di origine pitagorico-platoniche. Ma la grande novità del Settecento fu che molti cabalisti pensavano che i due saperi potevano confrontarsi, senza confliggere: vollero tranquillamente usare le categorie scientifico-filosofiche per studiare la qabbalà, rimanendo convinti della superiorità della qabbalà sulla scienza, ritenendo la rivelazione divina superiore a qualsiasi altro pensiero umano.
«In questo modo, come essi stessi dichiarano, vogliono riavvicinare gli studiosi ebrei alla dottrina, riconoscendo che nel loro tempo fondarsi sulla tradizione, per quanto prestigiosa, non basta più».19 Tutto l’asse culturale europeo si era spostato, portando con sé, sul terreno della ragione, la conoscenza e lo spirito.
Anche il cabalista di Mantova, Sar Shalom Basilea (1680-1743), cercò delle conferme
scientifiche ed empiriche nella matematica, nella geometria, nell’ottica e nell’astronomia: trovò una certa concordanza tra i due mondi persino rispetto alle idee cabalistiche sul ghilgul e sull’esistenza dei demoni. L’aristotelismo aveva sì studiato la natura e i suoi fenomeni (materia e forma, sostanza e accidenti, intelletto agente e intelletti separati) ma anch’esso ora seguiva gli sviluppi del nuovo pensiero scientifico, dimostrando così di non essere verità assoluta e definitiva. E se anche le filosofie più elevate non avevano l’ultima parola in fatto di verità, l’uomo di fede ebraica si sentiva più che mai legittimato a mettere al primo posto la grandiosità della rivelazione divina.
Il rabbino cabalista Yossef Ergas di Livorno fece una sorta di trasposizione della qabbalà su una struttura razionalista e chiarì le nozioni rivelate e misteriose di Luria e del suo discepolo Chayim Vital. La scienza più prossima alla qabbalà era, oltre alla filosofia, la fisica.
Nelle spiegazioni di Ergas l’unione (ziwwug) diventa unione tra ente emanante e ente emanato, la gravidanza (ibbur) diviene il passaggio da un esistenza sottile ad una spessa e visibile, l’avvolgimento (hitkalelut) di una sefirà nell’altra ha il significato di una conoscenza che ne conosce un’altra e la riveste con la sua comprensione. Per spiegare lo zim-zum si fa riferimento non tanto alla volontà divina ma alla ritrazione dell’energia. Insomma anche un cabalista come Ergas senti la necessità di proporre gli stessi identici elementi luriani ma introducendo categorie rinnovate come enti, ispessimenti fisici, conoscenza ed energia.
Luzzatto come Ergas procedette in questa riduzione della qabbalà in teologia razionale e affermò che dalla filosofia, dalla geometria, dall’astronomia e dalle altre scienze, possiamo trarre premesse che ci chiariscano la tradizione. Affermò che vi sono due vie per raggiungere
le verità fondamentali, quella profetica e quella razionale.
Per Luzzatto la qabbalà ha un carattere scientifico, simile alla fisica, in quanto si occupa di forze con intensità diverse e diverse misure e Dio ha creato le cose attraverso la limitazione, con un ordine gerarchico.
L’unico grosso limite alla razionalizzazione della qabbalà del Luzzatto lo troviamo nella sua pratica esoterica e nell’invocazione del magghid, un dettaglio non da poco! In fondo egli non rinunciò mai all’esperienza estatica e al suo linguaggio poetico-mitico, ricco di spirito profetico; anche quando visse ad Amsterdam e scrisse i suoi trattati più razionali comunicando con concetti filosofici. E’ in questa duplice capacità che si ravvisa la superiorità del Ramchal che visse tra devozione mistica e razionalismo, tra poesia e filosofia. Egli fu considerato primizia del chassidismo e anticipatore del Movimento del Mussar, un movimento che sarebbe decollato un secolo dopo e a cui è dedicata la terza sezione di questo scritto. Il chassidismo, in rottura con il rabbinismo tradizionale di allora, si affermò nella seconda metà del Settecento, ponendo al centro della vita ebraica la figura carismatica dello tsadik, enfatizzando la devekut e la chassidut, gli stessi elementi su cui aveva insistito il Ramchal.
Il Magghid di Mezritche (Dov Baer di Mezritche, erede spirituale del Baal Shem Tov), si prodigò per la pubblicazione del Mesillat Jesharim in Polonia. Ma anche gli oppositori del chassidismo (i mitnagdim) ossia i talmudisti, restarono affascinati dal Mesillat Jesharim. Videro in quest’opera di etica morale un possibile richiamo ai principi tradizionali biblici e in particolare al timore di Dio, l’yirat Ha-Shem.
Perché ci è necessario questo passaggio in Lituania?
Perché il fondatore del Movimento del Mussar, Israel Salanter, di cui ci occuperemo estesamente, nacque in Lituania e si formò alla scuola di prestigiosi talmudisti. Israel Salanter, rabbino educatore, fece del Sentiero dei giusti una colonna fondamentale delle Case del Mussar. Questi erano luoghi di attività per il risveglio spirituale attraverso la presa di coscienza di sé e dei propri limiti, la trasformazione del carattere e il perfezionamento morale.
E’ quindi necessario dedicare qualche pagina alla presentazione dei maestri di Israel Lipkin, detto il Salanter. I suoi punti di riferimento furono: il Gaon da Vilna, Rabbi Chayim di Volozhin e Rabbi Zundel Salant.
Tra gli ammiratori eccellenti del Mesillat Jesharim vi era proprio il Gaon da Vilna, Rabbi Elijah ben Solomon da Vilna (1720-1797), che lasciò insegnamenti orali ai suoi discepoli e scritti frammentari su Torà, opere cabalistiche ed etiche. La personalità del Gaon combinava in sé due grandi valori, come dimostrano i suoi appellativi ha-gaon e ha-chasid, ossia lo studio della Torà e del timore di Dio. Non lasciò una dottrina sistematica sul timore di Dio. Il Gaon seguiva i passi dei suoi predecessori in quanto a insegnamenti morali, ma non vedeva nelle pratiche ascetiche il modo elettivo di amare Dio, egli trovava il vero focus della vita ascetica nello studio della Torà: l’atto contemplativo veniva messo in secondo piano rispetto allo studio, considerato dal maestro il vero culmine dell’esperienza spirituale. L’ascetismo del Gaon era quindi finalizzato allo studio della Torà, in cui egli ravvisava anche una forma di protezione dall’ istinto cattivo. Egli insistette molto sul valore della separatezza dal mondo e dell’isolamento ed ebbe infatti pochi studenti e pochissimi contatti sociali. Anche in gioventù studiava in isolamento e dopo il matrimonio si impose una vita di auto-isolamento. Insegnava a ritirarsi dal mondo e a dichiararlo pubblicamente per prevenire attrazioni ed evitare pressioni sociali. Si asteneva poi da un’eccessiva autoafflizione perché questa l’avrebbe debilitato per il servizio divino e gli avrebbe fatto violare il comandamento di “badare a se stessi”, cioè prendersi cura della propria salute fisica. Fu meticoloso nell’applicazione dei precetti, rimise in uso leggi dimenticate e corresse quelle erroneamente applicate.
La Torah è come il pane del quale il cuore dell’uomo si nutre… ne ha costantemente bisogno, come il pane; per questo “ mediterai sopra essa giorno e notte” [Giosuè 1:8]. Ma le mitzwot sono come una confettura, che è buona periodicamente e in momenti appropriati, come una confettura che si mangia di tanto in tanto.20
L’idea di Torà li shemà, cioè dello studio incondizionato della Torà, per ‘amore del nome’ e senza secondi fini, era accompagnato alla virtù della fede-bitachon.
Per il Gaon da Vilna la pietà dipendeva dalle proprie conquiste intellettuali, ma comunque egli ascrisse molta importanza alla perfezione degli attributi etici e ai tre pilastri del servizio divino: Torà, mitzwot e middot. Mentre lo studio della Torà e le mitzwot proteggono dall’istinto cattivo, le middot sono i tratti caratteriali che conducono a comportamenti etici e “insegnano all’uomo la via su cui camminare.” (Proverbi 22) Per il Gaon l’ebreo che segue le mitzwot e il talmud è un ebreo corretto, non necessita, come insegnavano i chassidim, di una definizione extra, che lo porti al di là della lettera della legge, come quella di chasid. Per il Gaon è sufficiente ritenersi semplicemente ebreo, ma è altresì necessario migliorare le proprie qualità morali perché i recinti che ci si impone non bastano a vincere sè stessi. Le middot sono radicate nell’anima ma solo chi si purifica e ridefinisce il proprio carattere merita la rivelazione dei segreti della Torà. Egli proseguendo nella letteratura cabalistica del mussar tracciò la distinzione tra animo intellettivo e animo vitale. Il corpo è involucro o abito dell’anima vitale che a sua volta è rivestimento dell’animo intellettuale. I tratti del carattere sono allocati nell’anima vitale, più vicina al corpo, e determinano i comportamenti corporali. Lo scopo della vita è ch’egli non si abbandoni alla soddisfazione dei propri desideri ma sia costretto con briglie e morsi (salmo 32:9), trattenendo la sua bocca e i suoi appetiti. Il Gaon sottolinea che il miglioramento del carattere coinvolge due aspetti: la rottura dell’istinto cattivo e l’acquisizione del buon carattere. All’iniziale rottura delle cattive abitudini corrisponde una nuova abitudine. Attraverso la ripetizione e la persistenza delle mitzwot ci si può radicare in comportamenti e abitudini corrette ed etiche mentre il disprezzo per le mitzwot rafforza il carattere negativo. Il tema è quindi quello degli attributi etici, del perfezionamento del carattere e della lotta allo yetzer ha-rà. Deve esserci una mutua relazione tra comandamenti e carattere: il buon carattere assicura che i comandamenti saranno eseguiti anche in situazioni avverse. Lo sradicamento delle cattive caratteristiche è graduale e lo si raggiunge arrivando all’estremo opposto per poi arrivare al giusto mezzo.
Un importante aiuto nella battaglia per vincere gli appetiti, relativi alle debolezze del carattere, è indicato dal Gaon nelle ‘parole di rimprovero’ e nella lettura più volte al giorno di libri del mussar come Le massime dei Padri, il libro dei Proverbi ed Ecclesiaste. Egli metteva in guardia verso tutti i libri del mussar la cui lettura può risvegliare solo spiritualmente e non praticamente. Su questo punto in particolare giocherà un ruolo importante il pensiero del Salanter.
Abbiamo visto come nell’approccio del Gaon lo studio della Torà e il timore di Dio si intreccino e rappresentino l’ossatura della sua dottrina. In sostanza l’yir’ah si esprime nell’osservanza delle mitzwot e nella correzione del proprio carattere. Lo studio della Torà con timore di Dio produce un frutto spirituale, come è spiegato dal Gaon di Vilna di seguito:
Se una persona ha timore di Dio, imparerà a conoscere…con questi atti proteggerà se stesso. E’ nella natura dell’uomo che quando egli desidera una certa cosa e la trova, questa gli è preziosa ed egli la protegge. Ma se egli non ha timore di Dio e non teme il peccato, anche se egli ripete molte volte qualcosa, non la troverà perché egli non studia per conoscere qualcosa di cui prendersi cura.21
L’idea è che, quando lo studio è motivato dal timore di Dio, la natura di quello studio avrà una qualità superiore e, qualora si metterà tra i propri obiettivi il cambiamento del proprio carattere, lo studio irrigherà l’anima anche nelle sue negatività.
A proposito dello studio li-shemah, fine a se stesso, radicato nelle migliori motivazioni psico- spirituali dello studente, Rashi interpretò il Talmud dicendo che tra le motivazioni allo studio della Torà ce ne possono essere di più tipi: si deve distinguere tra la motivazione legittima di voler essere chiamato rabbi ed essere onorato, da quella illegittima dell’arricchimento. Il Gaon sosteneva che comunque lo studio della Torà, pur fatto con motivazioni erronee, come quella della ricerca di onore e prestigio, può avere una funzione educativa.
Anche gli studi esoterici e cabalistici ebbero notevole importanza nella vita del Gaon ed egli considerava se stesso tra i pochi che compresero correttamente gli insegnamenti di Rabbi Isaac Luria. In ogni caso l’interesse del Gaon per la qabbalà non era tanto ricevere ulteriori rivelazioni mistiche ma piuttosto scoprire le connessioni interne all’insegnamento cabalistico; si trattava quindi di un lavoro intellettuale più che contemplativo. Infatti egli rifiutò la guida dei maggidim che potevano rivelare i segreti della Torà senza un impegno nello studio: le uniche rivelazioni cui egli aspirava dovevano scaturire dal lavorìo intellettuale. Per il Gaon la qabbalà fu utile a comprendere le componenti dell’anima e il suo funzionamento, l’istinto cattivo e le forze demoniache (sitra achrà), come le azioni umane influenzano il regno superiore e quindi, il senso metafisico delle mitzwot da una parte e delle trasgressioni dall’altra. Confermando tutto questo egli decretò la superiorità dell’ascetismo rispetto al coinvolgimento nella società e ai suoi valori, e la non necessità di insegnare in pubblico ma solo ad alcuni.
Discepolo eminente del Gaon da Vilna fu rabbi Chayim ben Yitzchaq di Volozhin, anch’esso lituano con un approccio diverso al chassidismo. In parte la differenza fu dovuta a differenze caratteriali. Il Gaon, famoso per il suo rigore interpretativo, il suo stile di vita da autorecluso, non ebbe contatti diretti con il chassidismo, che considerava una setta eretica, negò sempre il confronto ai rappresentanti del movimento che lo cercarono. Il Volozhiner, dalla personalità e dallo stile di vita diversi, ebbe invece contatto diretto con i chassidim.
I due maestri vissero periodi storici diversi: il pensiero del Gaon riguardo la Torà e il timore di Dio e il bilanciamento tra questi due aspetti prese forma indipendentemente dal chassidismo. Egli prese posizione su quel movimento intorno al 1770, quando in Lituania e Russia bianca stava appena per nascere il chassidismo.
Nello stesso periodo il Volozhiner aveva circa 20 anni, era in piena fase di formazione e fu solo all’inizio del 1800 che egli prese una sua posizione. Si trattò cioè di confronto con un movimento che non era più una innovazione ma anzi si era affermato superando molte critiche. Proprio traendo linfa dal confronto tra la società dei mitnagdim e il chassidismo, scrisse Nefesh Hachayyim in cui trattò sistematicamente la relazione tra lo studio della Torà e il timore di Dio e l’equilibrio tra i due.
Il Volozhiner, volendo rafforzare l’interesse per gli studi e ispirare all’adesione all’halakhà, scelse di accogliere le idee del misticismo di chavanà e devekut. Si trattava di un misticismo di tipo intellettuale che prendeva cioè spunto dallo studio della Torà e non da esperienze estatiche. Il fondatore del chassidismo Israel ben Eliezer (1698-1760), il Baal Shem tov, aveva insegnato che Torà li-shemà significava concentrazione e contemplazione delle parole e delle singole lettere e che attraverso questa pratica ci si poteva elevare spiritualmente e moralmente. Rabbi Volozhin considerò questo tipo di contemplazione estatica rischioso, per una vera comprensione del testo biblico, in quanto portava ad una frammentazione del testo. Lo studio doveva essere distinto dal momento della preghiera e delle mitzwot. Lo studio della Torà e della letteratura halakhicha dovevano restare la strada maestra. Lo studio, eseguito con la giusta motivazione interiore, poteva aumentare l’attaccamento a Dio e alle scintille luminose della gioia divina.
Per il Volozhiner l’intenzione del cuore era desiderabile ma non essenziale, enfatizzarne l’importanza rischiava di confondere il limite tra l’obbligatorio e il non obbligatorio.
Anche a proposito del valore dello studio della Torà fine a se stesso, il Volozhiner, pur apprezzando tale valore, affermò che si doveva essere più indulgenti verso coloro che studiavano anche con motivazioni impure; questo avrebbe comunque prodotto in essi un avvicinamento alla volontà di Dio. Il percorso verso la perfezione della vita religiosa era graduale, lento e vasto ed era un rischio pensare come i chassidici in termini di tutto o niente.
Il Volozhiner fondò nel 1803 una yeshiva con un suo personale programma educativo. Egli aspirava a formare dei discepoli pietisti lamdan-chasid nella cui personalità combinare i valori della Torà e del timore. Per ciascuno studente individuava il percorso necessario a vincere gli istinti, incoraggiava a perfezionare il proprio carattere pur senza enfatizzare troppo questo aspetto. Piuttosto guidava i suoi discepoli attraverso una meticolosa osservanza delle mitzwot a raggiungere l’yir’ah, il senso profondo del timore reverenziale.
Sull’esempio del Gaon credeva nella superiorità dello studio della Torà nel servizio divino e, come il suo maestro, credeva che il timore di Dio fosse solo un mezzo per adempiere il grande mandato dello studio e dell’osservanza. Entrambi credevano, come i cabalisti, che l’istinto malvagio fosse legato a forze demoniache della sitrà achrà e che lo studio della Torà avesse la specifica capacità di opporvi resistenza.
A differenza del Gaon il Volozhiner, forse sotto influenza dei chassidim, nella dottrina d’insieme integrò fortemente il valore della devekut e ne fece il focus. Inoltre prese una posizione diversa dal maestro riguardo l’importanza della khavanà: il maestro condannava decisamente l’intenzione non pura come abbiamo già visto mentre il Volozhiner era più indulgente. Il Gaon dava molta importanza al perfezionamento del carattere e consigliava fortemente la lettura di testi del mussar per vincere le difficoltà, il Volozhiner incoraggiava sì l’acquisizione di un carattere modesto ma non scrisse sull’argomento ed esitava a consigliare la lettura di libri del mussar, preferendo l’esclusivo studio della Torà. Inoltre l’ascetismo e il distanziamento sociale praticati dal Gaon divennero nel Volozhiner confronto e presenza sociale, proprio come i chassidim che indicavano un nuovo modello di leader interessato al contatto con il pubblico. L’adempimento dell’ideale educativo della yeshiva di rabbi Chajjm da Volozhin fu incarnato da Rabbi Zundel di Salant (1786-1866), ritratto del lamdan-chasid. Vi era una gran similitudine tra il maestro e il discepolo; il loro metodo di studio si distingueva per l’enfasi data alla relazione tra studio e pratica. Rabbi Zundel nel breve pamphlet Hanhagah yesharah ve-hizzuk ha-torah (Comportamento retto e rafforzamento della Torà) scriveva:
Non si dovrebbe interrompere lo studio se non per bisogni urgenti […] la Torà è riservata solo a quelli che mortificano se stessi per la sua causa, con costante auto-afflizione […] perché ogni singola lettera della Torà è più degna dell’intero mondo e di tutte le mizvot […] se non fosse per la Torà non ci si potrebbe salvare dal dominio dell’istinto malvagio.22
Un altro tema importante, in tutta la letteratura del Mussar, come anche nel pensiero dottrinale di Rabbi Israel Salanter, fu il rapporto da tenere con il lavoro e l’attenzione da prestare agli aspetti economici della vita. Nelle Massime dei Padri era scritto di lavorare oltre che studiare ma di avere fede in Dio: solo questa può mitigare le preoccupazioni. Nel Medioevo Bachya ibn Pekuda insegnava:
Circa i benefici materiali una persona che ha fede (bitachon) avrà meno angosce negli affari; se per esempio egli non riesce a vendere la sua merce o se non riesce ad esigere i soldi che ha prestato, o se diventa malato. Naturalmente una persona potrebbe turbarsi o arrabbiarsi se qualcuna di queste cose gli accadono, ma la persona che ha fede non permetterà a queste cose di sconvolgerlo.23
Anche per Zundel iI successo economico dipendeva dalla provvidenza e non dagli sforzi dell’individuo ed egli incoraggiava i suoi discepoli a non dedicare troppo tempo alle occupazioni finanziarie. L’attributo che maggiormente risalta nella sua dottrina è quello del bitachon cioè della fiducia in Dio. Nella sua coscienza religiosa l’espressione del timore di Dio vestiva i panni, quasi fatalistici, della fiducia nella provvidenza divina: il Signore mostra la sua volontà benevola alla persona che crede in Lui con cuore pieno, provvedendo alle sue necessità in ogni tempo e in ogni luogo, anche se l’uomo non è uno tzaddik. Egli stesso rifiutò di accettare supporti finanziari dalla comunità, come era in uso tra questo tipo di lomdim che non servivano nel rabbinato. Preferì guadagnarsi da vivere come un modesto capofamiglia. Molti aneddoti lo ritraggono come un uomo che nascondeva persino la sua identità, per accentuare in se stesso il carattere della modestia. Il suo stile di vita era connotato da due valori: la separazione dal mondo e l’ascetismo, quest’ultimo fondato sulla concezione che è impossibile per l’uomo trarre piacere sia da questo mondo che da quello a venire. L’immanenza di Dio non sembra avere avuto un ruolo importante nella sua coscienza religiosa, neppure associato al valore della devekut.
Tra i suoi scritti troviamo liste di versi di fede e salvezza, tratte principalmente dai Salmi, che era suo costume ripetere costantemente. I due assiomi teologici più importanti in Zundel furono la fede e la provvidenza.
Rispetto all’istinto malvagio, lo yetzer ha-rà, egli comprese che questo impulso sferra i suoi attacchi più violenti nelle aree personali dedicate al servizio divino; è quando ci si vuole appartare per dedicarsi alla Torà che si incontrano le maggiori difficoltà. L’impulso spinge a trascurare lo studio e a perseguire onore e soldi. Solo con l’assistenza divina si può affrontare e vincere il proprio yetzer ha-rà. In Zundel la forte consapevolezza del peccato, il suo autoesame, lo studio di opere del mussar, lo portarono a focalizzarsi sul timore di Dio, ancor più del suo maestro, il Volozhiner. Tra i suoi studenti più brillanti vi era rabbi Israel Salanter che nel diciannovesimo secolo diede vita al Movimento del Mussar.