I Parte – Moshè Chayim Luzzatto
1. La vita
Provenienti dalla Lusazia, i Luzzatto arrivarono in Italia all’inizio del sedicesimo secolo e mentre una parte minoritaria della famiglia si spostò a Safed, la maggior parte dei suoi discendenti si stabilì in Italia, soprattutto a Venezia. All’inizio del XVIII secolo la famiglia brillò nella città di Padova con l’eminenza di Moshe Chayim Luzzatto (1707 -1746) e nel XIX secolo con il poeta Ephraim Luzzatto (1729-1792) e il filosofo Shmuel David Luzzatto (1800-1865). I genitori di Moshe Chayim, Jacob Vita e Diamante, si distinguevano per pietà e modestia e per l’ideale ebraico dello studio e dell’erudizione, nella sapiente comunità di Padova, una delle più importanti comunità ebraiche italiane. Lì fin dal XIV secolo vi era la scuola talmudica, fondata da Yehudah Ben Eliezer ha-Levi Mintz, morto ultracentenario nel 1508 e allineato su posizioni anti-filosofiche. Considerava sospetta l’inclinazione degli ebrei spagnoli alla filosofia, quasi che questo ne avesse causato la cacciata del 1492. Dalla dinastia di Mintz emerse la figura del rabbino Katzenellenbogen, fondatore della yeshiva che attirò studenti da tutta Europa.
Fu in questa yeshiva che Moshè Chayim Luzzatto incontrò i suoi due maestri di vita: Isaac Cantarini e Isaia Bassan.
Rav Cantarini, fisico e scienziato, si occupò della formazione generale di Luzzatto, ossia dell’insegnamento delle scienze, della logica e della poesia ebraica; senza gli insegnamenti del Cantarini egli non avrebbe potuto scrivere le sue poesie. Testimonianza del grande amore dell’allievo per il maestro la troviamo nel Canto funebre sulla morte del Cantarini, un brillante omaggio alla saggezza del defunto. Influenza ancora maggiore sul giovane Chayim la ebbe rabbi Isaia Bassan, che lo formò in filosofia; Chayim tra gli otto e i quindici anni fu allievo del talmudista e autore di trattati halakhici Lahmei Toda, rabbino di Padova tra 1715 e il 1722. Il maestro Bassan scrivendo una lettera ai rabbini di Venezia per presentare il giovane studente lo definì uomo di valore, non interessato alle cose del mondo, un uomo ch’egli stesso aveva generato, di cui era padre e madre. Egli fin da bimbo amava la Torà di un amore affettuoso e da adolescente si confezionò un manto d’oro di modestia, affatto interessato alle cose vane e agli impulsi del cuore, e con un dono straordinario di ascolto e di comprensione.1
Era stato per lui più di un figlio, lo aveva formato e amato, gli aveva trasmesso tutto quello che sapeva. In questa lettera Bassan continuava dicendo che tutti i suoi possedimenti spirituali erano a sua disposizione, niente era nascosto a tale genio assetato di sapere. Il giovane gli faceva visita ogni mattina molto presto ‘agile come un cervo’ per imparare le parole di Dio e la qabbalà. Da questa lettera capiamo che Moshè Chayim Luzzatto, chiamato in seguito con il suo acronimo Ramchal, cominciò a studiare qabbalà tra i 13 e i 14 anni (la regola di studiare la qabbalà solo dopo i 40 anni non era riconosciuta come tale nel mondo sefardita). Riferì in seguito il suo amico e allievo, Rabbi Yekutiel Gordon, ch’egli a 14 anni conosceva l’opera di Isaac Luria a memoria e nessuno ne era al corrente, neppure i suoi genitori.
Isaia Bassan lasciò Padova nel 1722 per diventare gran rabbino di Reggio. Quando Chayim aveva venti anni, nel 1727, fu pubblicato a Mantova il suo Lashon Limmudim (La lingua coltivata) – grammatica e costruzione della poesia, nel quale precisò le regole moderne della retorica e il modo in cui dovevano essere scritti i versi delle opere ebraiche. In seguito usò la sua abilità del comporre metafore e assonanze nelle opere drammatiche, e fu per questo che le sue poesie furono ritenute fondamentali per la nascita della lingua ebraica moderna. Contemporaneamente praticava la meditazione cabalistica e ne approfondiva lo studio, cercando di risolvere le apparenti contraddizioni dei commenti allo Zohar scritti da Isaac Luria, innovatore cinquecentesco dell’antico pensiero cosmogonico ebraico. Scriveva il Ramchal in quel periodo: «Mi sono isolato alcuni anni e non cesso di fare meditazioni – Yihudim; non passa un quarto d’ora ch’io non faccia uno Yihud ed è certo che in quei momenti sono in uno stato di grande purità».
2 Il sistema di meditazione Yihud trova la sua origine nello Zohar; è una pratica ascetica in cui la volontà umana si allinea a quella divina con khavanà, cioè con intenzione profonda, e unifica gli attributi divini per ricevere rivelazione. Il Ramchal, come Luria, poneva domande ad un messaggero divino, il magghid, e condivideva la sua esperienza estatica con il maestro Bassan, rassicurandolo che tali rivelazioni erano tutte coerenti con la Torà. Fino al 1730 Chayim visse un periodo di intensa esperienza mistica; dopo un primo momento di grande riservatezza su tali esperienze, iniziò a confidarsi con gli amici più intimi. Da lì a poco si formò un circolo di preghiera e studio chiamato il Circolo dei cercatori di Dio – Mevakshei Ha-Shem. Nel circolo si meditava sui classici della qabbalà e soprattutto sullo Zohar. Lo studio, la preghiera e la meditazione non dovevano concentrarsi sull’evoluzione spirituale dei membri del circolo o l’espiazione dei loro propri peccati; lo scopo era esclusivamente fare tikkun della shekhinà e di tutto Israele, perché nulla avrebbe avuto senso senza l’evoluzione spirituale di Israele. Si doveva fare qualsiasi cosa per produrre nei mondi superiori il cambiamento della condizione di Israele.
Anche a Ferrara Rabbi Jacob Daniel Olmo, figlio di Isacco Lampronti, fondò un circolo di studi con lo scopo di studiare notte e giorno porzioni di halakhà ed etica e pregare per la ricostruzione della ‘Porta di Sion’. Questi circoli comunicavano al popolo la necessità di fare tikkun, ossia riparare i mali del mondo, e infondevano nel popolo il desiderio di gheulà, redenzione. In questo periodo il Ramchal fu prodigiosamente prolifico, dal 1730 al 1735 scrisse oltre 40 libri. Grazie al suo carisma attirò nel cenacolo rabbini molto competenti, dalla formazione completa tanto nel giudaismo che nella qabbalà, ma la sua straordinaria erudizione ben presto lo pose alla guida del gruppo. In passato c’erano stati due esempi di circoli di studio della qabbalà, diretti da due grandi maestri: rabbi Shimon Bar Yochai e Luria, l’Arizal; questo fu il terzo grande circolo di studi cabalistici il cui scopo rimaneva lo stesso del passato, la liberazione individuale e collettiva di tutto Israele. I suoi discepoli si conformavano rigorosamente al regolamento della yeshiva; i firmatari del regolamento furono Israel Ezechia Trevis, Isaac Marini, Jekutiel Gordon, Jacob Forte, Salomon Dina, Michael Terni, Jacob Chaim Castel Franco, cui si aggiunsero presto altri amici. Tale cenacolo non trattava con leggerezza nessuna legge rabbinica, l’osservanza era considerata importante per presentarsi puri al Signore prima di ogni meditazione. Questo soddisfaceva i rabbini, ma non tutti.
Tra coloro che disapprovavano le attività del circolo vi era rabbi Moshé Haguiz, figlio di rabbi Jacob Haguiz che aveva combattuto strenuamente Shabbatai Zevi. Quest’ultimo pochi decenni prima aveva disorientato il popolo, prima proclamandosi messia e poi convertendosi all’islam. Nel 1668 fu dichiarato insano di mente dai rabbini di Venezia. La forte spinta a contrastare una qualsiasi eresia era quindi ancora molto viva nelle comunità ebraiche, che ora più che mai contrastavano qualsiasi innovazione e difendevano la tradizione rabbinica. Jacob Haguiz era coinvolto personalmente nell’affare: egli era stato il principale maestro di Nathan di Gaza, il profeta che incitò Shabbatai Zevi. Ora suo figlio, Moshè Haguiz, decideva di dichiarare guerra al ventitreenne Ramchal e inviò una lettera al rabbinato di Venezia per chiedere di sradicare l’assemblea di Padova e di condannarne i membri, quali nemici di Israele. Il pretesto era stata una lettera di Iekutiel Gordon, discepolo di Luzzatto, che lo esaltava con toni troppo enfatici. La controversia si accese ulteriormente quando Chayim, in un momento di insofferenza, rimarcò che il giudizio dei veneziani su Nathan era stato scorretto perché non si trattava di un insano di mente. In questi stessi anni, tra il 1730 e il 1735, cominciarono per Luzzatto le persecuzioni e i provvedimenti disciplinari: i rabbini si rivolsero al maestro di Ramchal, Isaia Bassan, chiedendo spiegazioni su tale profeta e sul suo magghid. Scrivevano di avere avuto molti timori leggendo la lettera del Gordon, dicevano che Ramchal pensava di rimpiazzare Rabbi Shimon Yochai e il suo Zohar e infine di non volere che questa storia arrivasse alle orecchie dei gentili.
La prima replica di Ramchal fu un’accorata lettera del Novembre 1729, scritta ad Haguiz, che apriva con un grande elogio all’illustre rabbino, ma diveniva poi un‘implorazione a non confondere i suoi insegnamenti con quelli di Shabbatai Zevi. Chayim riferiva di non essersi mai dichiarato profeta e di non aver mai fatto miracoli, si trattava di rivelazioni del Signore per comprendere e approfondire la Sua legge. In questi anni ci fu un intenso scambio epistolare tra Ramchal e il suo maestro Bassan, che non dubitava del suo migliore allievo e delle sue ‘sante parole’, lo considerava un genio innovatore, seppur radicale, superiore a Luria. Bassan aveva nutrito per lui un amore immenso e gli consigliava di rivolgersi ad Haguiz con modestia. Un mese prima della sua morte scrisse al discepolo una lettera rivolgendosi a lui come a colui che risiede nelle tende della Torà e nelle altezze del trono, dicendogli della grande gioia che aveva avuto nel leggere il suo ultimo Tikkun. Aveva creduto che tutta la restante rivelazione sarebbe arrivata tramite lui, che la terra si sarebbe riempita di conoscenza e che per suo merito il tempio sarebbe stato ricostruito. Ma dopo questa lettera comparvero i primi dubbi nelle parole del maestro Bassan: Ramchal aveva osato sfidare il capo del tribunale rabbinico di Hamburg, il Rabbino Ezekiel Katzellenebogen, e questo era sembrato troppo persino a Isaia Bassan. Egli non accettò questo atteggiamento del discepolo e cominciò a rimarcare i punti deboli della vita di Moshé Chayim. Tra i capi d’accusa vi era il fatto ch’egli non si era sposato, che si era tagliato la barba e che insisteva troppo sul tema messianico. Questi erano i segni dell’origine demoniaca del magghid che comunicava con Luzzatto; era proprio costume dei demoni infiammare gli spiriti con queste speranze messianiche, che poi portavano tanto scompiglio tra il popolo. Ricordava il Bassan che i magghidim potevano ricevere influenze dall’alto e dal basso e persino uno stesso magghid poteva avere una composizione mista di bene e male. Ramchal, in una lettera del 1730, rispose al maestro che era quasi un negare la fede asserire che delle forze demoniache possano spiegare la Torà. All’accusa che il tema messianico fosse troppo presente, egli rispose che negli scritti di Shimon ben Yochai non c’erano due righe senza un riferimento al Messia. All’accusa che durante le meditazioni egli cadesse sul suo volto, rispose che Abramo pure cadde sul suo viso, i profeti cadevano a terra, eppure era il Signore che parlava loro e non le forze demoniache. Dopo questi momenti di tensione la comunicazione epistolare tra Ramchal e Bassan si chiarì e continuò pacificamente. Nella primavera del 1730 il Ramchal avrebbe voluto editare e pubblicare una parte della sua opera ma rabbi Moshe Haguiz intervenne per impedirlo, consigliò di convocarlo davanti al tribunale di Venezia con i nobili di Mantova, Roma e Livorno e di fargli guerra apertamente: si ravvisava in lui una grande continuità con il fenomeno di Shabbatai Zevi. La grandezza di Mosè veniva abbassata e questo non meritava pietà, il male doveva essere estirpato e bruciato. Luzzatto doveva firmare un atto in cui giurava di non praticare più la qabbalà, tutti i suoi libri e i suoi scritti dovevano essere confiscati. Luzzatto accettò di inviare i suoi scritti a Bassan che, con l’obiettivo di evitargli l’anatema, avrebbe sigillato e conservato gli scritti in una scatola, alla presenza di rabbi Belilios e rabbi Merrari del tribunale rabbinico di Venezia; il tutto doveva essere consegnato a rabbi Alproun uno dei membri più eminenti della comunità di Padova.
Dal luglio 1730, da quando i rabbini di Venezia redassero il documento che imponeva di non scrivere più sotto dettatura del magghid e di cambiare linguaggio, il Ramchal firmò e smise di scrivere secondo il linguaggio dello Zohar e della qabbalà. Si riservò di scrivere solo in ebraico, non a nome del magghid, in un linguaggio chiaro e razionale.
Nel 1731 spinto da Bassan si sposò con Zippora, la figlia del rabbino di Mantova David Finzi, già suo ammiratore. Quando nel 1734 Isaia Bassan inviò la sua approvazione all’uscita del libro Choker u-Mekubbal – Il filosofo e il cabalista, i rabbini veneziani riaprirono il conflitto. Rabbi Zalman Milevov arrivato a Venezia fornì al tribunale rabbinico nuovi specifici capi d’accusa: la stesura di un secondo Zohar, la stesura di un nuovo libro di 150 Salmi, infine l’accusa di magia. Nel 1735 a 28 anni, Ramchal con moglie e un figlio, decise di lasciare l’Italia con l’aiuto del fratello Shimon Chai, alla ricerca di una vita migliore in Olanda. A Francoforte, quando fece visita al rabbino e legislatore Jacob Hacohen, non si aspettava che anche oltralpe fosse arrivato il suo dossier; sotto pressione dovette dichiarare di aver profanato la santità, di aver indotto in errore il maestro Bassan e dovette giurare di non insegnare più qabbalà. L’originale di questo documento fu trovato nel 1923 da Simon Ginzburg a New York. Il testo del cherem che seguì lo definiva come appartenente alla ‘razza delle spine’, un arrogante che aveva osato comporre un nuovo Zohar in rivalità con Shimon ben Yochai e dei nuovi Salmi in rivalità con re Davide. Il cherem fu firmato nell’Ottobre del 1735 dai rabbini di Germania, Polonia, Olanda e Danimarca. Si concludeva con l’ingiunzione a tutti i giudei di non aiutarlo a pubblicare alcuna opera; chi ne rinveniva le copie avrebbe dovuto consegnarle al tribunale rabbinico.
Nel 1736 il cherem fu letto di shabat in tutte le sinagoghe, il suo Zohar fu bruciato e interrato, furono esercitate pressioni su Bassan affinché distruggesse la scatola, contenente gli scritti, che si trovava ad Amsterdam dal 1730. La cosa non avvenne mai perché Bassan morì nel febbraio del 1736. Molte delle opere cabalistiche, filosofiche e poetiche furono copiate dai suoi discepoli e dai suoi amici ai quali egli aveva sempre continuato a scrivere da Amsterdam. I manoscritti dei Tikkunim scritti nello stile linguistico dello Zohar furono trovati nella Biblioteca Nazionale di Oxford nel 1950 e stampati in pochi esemplari in Israele nel 1958.
Giuseppe Laras, nel suo articolo sul sabbatianesimo di Ramchal,3 ricorda che il Ramchal non disdegnò del tutto il pensiero di Shabbatai Zevi ma piuttosto riconobbe nella personalità di Zevi delle qualità messianiche, che non si erano potute manifestare perché i tempi non erano maturi per il messia. La sua conversione all’islam era da intendersi come uno strenuo tentativo di redimere i musulmani. Luzzatto, pur sapendo che il processo di redenzione pre- vedeva che una parte dei figli di Ismaele si sarebbe convertita all’Iddio di Israele, pensava che ciò doveva avvenire in altri modi e in altri tempi. Queste le considerazioni di G. Laras.
Per contestualizzare l’esperienza religiosa del Ramchal può essere utile fare un excursus sulla questione del magghid. Andrea Yaacov Lattes in un suo articolo4 ricorda che il fenomeno nacque in Spagna e si sviluppò dopo l’espulsione dalla Spagna. Uno dei più famosi esploratori e studiosi dell’incontro con il magghid fu Yosef Caro, autore dello Shulkhan ‘aruq, nato a Toledo nel 1488 e fuggito dalla Spagna a Safed. E’ suo il testo fondamentale di tale pratica: il Magghid Mesarim stampato a Venezia nel 1649. Il fenomeno dell’invocazione del magghid arrivò dalla Spagna in Italia e vi trovò una certa diffusione fino ai primi anni del 1800. Diversi erano i cabalisti che praticavano l’invocazione. Tra i più conosciuti, Menachem Azaria da Fano, Berachìa da Modena, Mosè Zacuto da Mantova e i suoi allievi Abram da Rovigo e Beniamin Cohen da Reggio. David Finzi da Modena, il suocero di Luzzatto e allievo di Zacuto, dichiarò che molti cabalisti cercavano di ricevere rivelazione ma non tutti ci riuscivano.
L’ultimo cabalista a praticare in Italia fu Chayim Yosef David Azulai che morì a Livorno nel 1807. Si trattava di momenti di ascolto in una speciale predisposizione d’animo. Il luogo della meditazione doveva essere isolato e silenzioso e la posizione delle mani e del corpo particolari. Attraverso la preghiera, l’allontanamento dalle cattive abitudini, la confessione, la minuziosa pratica dei precetti, lo studio e la meditazione, si giungeva a uno stato di concentrazione e purezza, pronti per l’ascolto di una voce, che procedeva da se stessi.
Un fenomeno, quest’ultimo, con molte similitudini con l’attività onirica in fase di dormiveglia. In questa fase di preparazione il Ramchal dava grande importanza alle formule recitate per il lutto della distruzione di Gerusalemme e del Tempio, i cosiddetti tikkunim. La voce del magghid si differenziava da quella del dibbuk che era invece di provenienza esterna, non invocata dall’uomo ma piuttosto subìta. Al magghid ci si avvicinava, al contrario, con una propria intenzione e volontà. Attraverso quest’esperienza si ricevevano parole di conoscenza secondo successivi gradi di avvicinamento, fino al profeta Elia e infine allo spirito del Messia. Il Ramchal fu sospettato sia per questa attività esoterica, sia che si fosse identificato egli stesso con il Messia.
Lo studioso israeliano di religioni comparate, Zvi Werblowsky, nel secolo scorso interpretò il magghid in chiave fenomenologica, l’interpretazione contemporanea maggiormente accettata. Il magghid sarebbe stato un riflesso della coscienza del mistico stesso, un alter-ego del cabalista, un suo sentimento interno.5 Il Caro prima e il Ramchal poi udivano nelle rivelazioni ciò che più li assillava durante le ore di veglia. Werblowsky lo definì un fenomeno proiettivo di tipo psicanalitico: dove cioè alla proiezione del desiderio faceva seguito l’identificazione del mistico, in una dinamica profonda tra conscio e inconscio, tra sogno e realtà. L’esperienza estatica sarebbe quindi anche correlata alla mentalità e all’ordine culturale del soggetto. Per esempio il Taitazak da Salonicco ricevette parole di carattere apocalittico su angeli, spiriti e stelle e Beniamin da Reggio chiese infomazioni sul futuro matrimonio di sua figlia. Nel caso del Ramchal le tematiche da lui ricercate erano sulla natura, Dio, la concezione del sacro e della religione.
Queste osservazioni ci fanno meglio comprendere la definizione che Ramchal diede di qabbalà nell’introduzione al Qelah Pitche Chokmah – Le Centotrentotto porte di sapienza; egli la definì con il verso del Cantico dei cantici 3:2 “Cercherò Colui che la mia anima desidera”.
A ventotto anni Moshe Chayim Luzzatto si trasferì in Olanda dove visse dal 1736 al 1743. Fu accolto in quell’Olanda che aveva dato rifugio a marrani e pellegrini in fuga dalle inquisizioni, paese in cui le mentalità si erano fuse e il tradizionale pensiero conservatore ebraico era già entrato in rotta di collisione con la nuova filosofia ebraica.
In Olanda si guardava all’oceano, le navi mercantili salpavano per il nuovo mondo con carte geografiche, orologi e strumenti di misurazione di recente costruzione. Grazie alla rivoluzione scientifica si andavano sviluppando nuove relazioni commerciali transoceaniche: nacquero reti mercantile e socio-economiche che dall’Europa arrivavano alle sponde delle Americhe, dove nacquero nuove comunità ebraiche soprattutto di origine portoghese marrana. Così, anche l’esilio dell’eretico Luzzatto si colorava di luci nuove, egli fu accolto con onore, al prezzo di incarnare lui stesso la modernità di una mente più scientifica e meno esoterica. A fare da sfondo alla vicenda personale di Chayim Luzzatto c’era un’Europa in grande trasformazione: nel Seicento erano stati pubblicati Il Discorso sul metodo di Cartesio e il Dialogo sui massimi sistemi di Galileo Galilei, solo per citare due grandi opere del pensiero scientifico europeo del tempo. Anche il caso del razionalismo radicale di Baruch Spinoza, proprio ad Amsterdam, aveva aperto alla concezione moderna dell’uomo e dell’universo. Il cambiamento di mentalità subiva una forte accellerazione a causa della scoperta del nuovo mondo. Luzzatto non insegnò più qabbalà, ma neppure abbandonò la sapienza mistica. In Derek Ha-Shem scriveva di sentirsi come affacciato
su un giardino ornato di belle aiuole, con vialetti armoniosi e percorsi distinti, oppure su una foresta vasta e densa, in cui gli alberi non permettono l’orientamento. Perché in verità la percezione di molte parti di cui non conosciamo le connessioni o i veri posti nella struttura di tutto ciò che è costruito da esse non è altro che un fardello pesante e senza gioia per l’intelletto che desidera capirlo […] non è così per chi si presta a conoscere l’oggetto di suo interesse nel proprio contesto. Ad un esame attento, tale oggetto gli si rivelerà così com’è realmente. La sua conoscenza aumenta, godendo della bellezza del proprio lavoro, fino a raggiungere l’estasi.6
Scrisse al suo maestro di sentirsi deliziato del fatto che molti eruditi venivano a casa sua per studiare e che tutto quello che era successo in Italia non era per lui che “argilla rotta”: cosa di poca rilevanza. Diceva inoltre al maestro Bassan che non si sarebbe mai arrivati ad una conclusione definitiva sul suo caso, anche se tutti i saggi di Israele avessero voluto trarre una conclusione non ci sarebbero arrivati, quindi meglio non darsene pensiero e non discuterne.
Luzzatto suscitò un forte interesse nell’ambiente cosmopolita olandese. I giudei portoghesi, prosperi ed influenti, apprezzarono le sue capacità letterarie e il suo genio filosofico e poetico. Essi avevano portato con se in Olanda la preziosa eredità della tradizione letteraria dell’età d’oro in Spagna, epoca che non era mai stata vissuta dagli ebrei di Germania.
Ben presto Luzzatto fu messo a capo della Yeshiva e divenne capo spirituale del collegio rabbinico locale. Ramchal considerava la storia come una sequenza di civilizzazioni ed eventi vani, nascondimento e copertura del male, su cui Dio ha stabilito l’uomo morale che desidera tornare al timore di Dio e al Suo servizio. Ramchal
sceglie il tratto dell’unità dietro le più diverse facciate investigando ancora e sempre mantenendo i suoi veri precetti. E’ un lavoro per fare il quale la conoscenza è essenziale come il pane, il cercatore di verità non deve essere ingannato dalle apparenze e non deve accettare le mere affermazioni.7
Forse fu grazie a questa sua visione della creazione, dell’uomo e della storia che Luzzatto, superato il dramma della sua storia personale, continuò ad essere un prolifico scrittore anche in Olanda.
A trentasei anni, nel 1743, il Ramchal decise di coronare il sogno che serbava in cuore da molto e parti per la terra d’Israele con la moglie e due figli. Egli credeva fortemente che la salita in Israele fosse la condizione d’accesso alla pienezza e un comandamento contenente tutta la Torà. Sbarcò ad Acco, città abbandonata dai pescatori al tempo dei Crociati. Vi trovò una terra deprivata e desolata, occupata dai turchi e meta di pellegrini. Quando scoprì le calde sorgenti di Tiberiade comprese che per quella terra assetata il Creatore aveva formato prodigiosamente corsi d’acqua sotterranei che alimentavano la vita. La Terra d’Israele sarebbe rifiorita e il dolore sarebbe finito. Nei seguenti versi scritti dal Ramchal si nota una libertà espressiva inusuale per quel tempo; è un esperienza di liberazione e guarigione dal dolore dell’esilio, sia individuale che collettivo. E’ acqua che scorre:
per incanalare e portar via la pena del cuore, calmare la ferita
togliere tensione da pancia fegato e rene
liberare dalla mancanza di spirito, dalla macchia della carne;
la mano di Dio ha fatto questo, ha operato questo miracolo.8
Da lì scrisse ad Amsterdam al suo amico, filosofo e poeta, Rabbi David Franco Mendes, confidandogli sia le sue preoccupazioni che le meravigliose esperienze in Terra d’Israele. Questa lettera fu trovata all’inizio del 1900 da Sigmund Seeligman nel collegio rabbinico di Ramchal, ad Amsterdam, e fu poi pubblicata da Ginzburg.
Nel maggio 1746 il colera uccise Moshè Chayim Luzzatto e la sua famiglia. Rabbi Almanzi riporta nel suo libro Kerem Emed la lettera del 1747 con cui i rabbini di Tiberiade annunciarono la morte del Ramchal:
Una voce divina da Tiberiade proclama che sulle montagne è lanciato un grido, l’assemblea di Israele è in doglie, solitaria e abbandonata. Ci rimettiamo al Signore perché tutte le Sue vie sono giu- ste. Ascoltate oh cieli e prestate le orecchie oh terra! Il capo dei rabbini, il divino cabalista, il carro d’Israele, la luce che illumina Israele, le flambeau sacré, il nostro maestro e insegnante Rabbi Moshe Chayim Luzzatto è deceduto, lui e la sua famiglia nel corso dell’ epidemia il 26 di Yiar nella città di Acco presso Tiberiade. La nostra corona è caduta.9
2. Le opere
Chayim Luzzatto fin da adolescente padroneggiava non solo il patrimonio tradizionale giu- daico ma anche la retorica e le lingue classiche, fu raffinato scrittore in versi. Fu anche uno dei precursori della drammaturgia in lingua ebraica, compose tesi di stilistica, di logica e trattati di etica. Shimon Ginzberg scrisse nel 1931 un affascinante biografia su di lui da cui trapela l’ammirazione del biografo per il «talento poetico che avrebbe potuto diventare un nuovo Yehudà Ha-Levi, se non si fosse smarrito nelle astruse ricerche esoteriche, figlie di un’epoca di oscurantismo».10 Gli scritti esoterici ispirati dal magghid li compose in aramaico ma, soprattutto dopo l’arrivo in Olanda, i suoi elaborati presero una forma più razionale e meno immaginifica. E di fatto nel tempo egli si distinse proprio per la sistematizzazione e la razionalizzazione dei contenuti mistici. Luzzatto fu un grande ordinatore delle opere scritte dai maestri che lo precedettero. Se Maimonide fu davvero il grande sistematizzatore del pensiero talmudico, si può dire che Ramchal lo fu per la qabbalà, con la differenza ch’egli apportò commenti personali e risposte a quesiti dei rabbini. Come ad esempio nei due seguenti casi: Isaac Luria si chiedeva se le sefirot coinvolte nella preghiera di minchà toccassero le corde dell’universo maschile o del femminile, e Ramchal rispose con autorevolezza che la preghiera di minchà muove entrambi i mondi. Chayim Vital scriveva di non aver compreso dal suo maestro perché le benedizioni dell’amidà del venerdi sera e dello shabbat fossero diverse da quelle della settimana e il Ramchal ne trattò, cercando non solo di risolvere alcuni enigmi ma anche esercitando uno spirito critico e logico. Gli furono sempre riconosciute grandi capacità decisionali in casi dubbi e capacità di organizzare idee sparse per rendere accessibile a tutti la qabbalà.
Vediamo il suo intervento di sistematizzatore e chiarificatore relativamente al Sefer Ha- Bair, l’antico scritto della Francia del dodicesimo secolo. Era stata formulata l’idea del Dio nascosto che volle manifestarsi attraverso le maamarot o parole creatrici. Tali dieci maamarot erano connesse agli attributi divini cioè alle middot. Tali potenze costituivano una successione di piani che andava a formare l’ albero mistico, una gerarchia di entità ciascuna con una radice sconosciuta in quanto radicata nell’ein-sof. Altra metafora usata, oltre all’albero mistico, era quella dell’adam kadmon, che faceva ricorso al simbolismo anatomico del corpo umano. Il Ramchal mantenne la distinzione tra due gruppi di sefirot, ma descrisse dettagliatamente le relazioni complesse e precise che queste hanno tra loro, relazioni che esaltano l’unità armonica del tutto. Luzzatto in tutto il suo sistema di pensiero pose sempre l’unità come scopo ultimo e soluzione del male. Lo Zohar fu l’opera che più di tutte attrasse l’interesse di Luzzatto e su di essa egli elaborò Le Centotrentotto porte di sapienza, in cui elaborò un singolare contrasto tra il carattere estremo delle immagini e il tono oggettivo e terso della tratta- zione, dà origine a un riuscito prodotto letterario che unisce la chiarezza espositiva ad un’istintiva ca- pacità di percezione del simbolismo cabbalistico. Al termine del processo di formalizzazione delle dottrine luriane, intrapreso da Luzzatto, il dramma cosmico dell’emanazione della luce primordiale e della conseguente rottura dei “vasi” si staglia davanti agli occhi del lettore con prepotente chiarezza.11
Nello Zohar è descritta l’origine della creazione, quando il Re ebbe la volontà (keter) di creare. Allora apparvero segni nell’aurea suprema e una fiamma originaria (kardinuta), incolore e dalla forma indefinita, saltò dall’intimo mistero dell’infinito producendo colori nello spazio e luce dal basso. Questo accese il reshit, l’inizio di tutta la creazione.
Fu questa la sefirà chokhma, la sapienza divina che rivela il nascosto. Il primo atto della costruzione fu la differenziazione delle cose (sefirà bina). Fin qui tutte le forme erano pronte e presenti solo nel pensiero di Dio. Iniziò così la creazione a noi visibile: durante i sette giorni della creazione si dispiegarono le altre sette sefirot. Il primo giorno della creazione si manifestò il chesed, la bontà di Dio, come spiegano i versi di Genesi che rappresentano la bontà dell’opera di Dio. Il secondo giorno si manifestò la ghevurà e così via fino al settimo giorno con la sefirà malkhut. La regalità dell’uomo, il punto più basso, si doveva raccordare al punto più alto, il keter o regalità di Dio. Quest’ultimo concetto, di un accordo tra l’alto e il basso, fa riferimento al principio della dualità per cui la creazione si sviluppa sempre su due piani: il superiore e l’inferiore, il cielo e la terra. Dualità testimoniata anche dalla prima lettera della Torà ב (bet) dal valore numerico due.
Un particolare riferimento va fatto al chiarimento operato dal Ramchal sulla creazione dell’uomo a immagine di Dio. Le ardite narrazioni cabalistiche spingevano l’immaginazione prestandosi a fraintendimenti antropomorfi. Ramchal chiarisce che c’è similitudine tra Dio e uomo, ma solo in quanto il corpo umano è un riflesso dell’anima. Le forme del corpo certamente nascondono segreti e rimandano a simboli sacri ed anche lo Zohar si difendeva fortemente dall’accusa di antropomorfismo. Il Ramchal sottolineò che si tratta di questione soggettiva: Dio si manifesta soggettivamente e i suoi attributi divini paiono all’uomo somiglianti ai propri.
Egli affermò che la scrittura che narra della creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio, e anche tutta la Scrittura, non può essere intesa solo in senso letterale.
Abbiamo ricordato che fu soprattutto in Olanda che egli rese la sua lingua più accessibile, facendo proprio il detto talmudico “Gam zu le tovà” (anche questo è per il bene); usò essenzialmente la chiave simbolica della qabbalà anziché quella letterale. Era passato ad una nuova parafrasi per cui il linguaggio cabalistico si trasformava in linguaggio filosofico. Forse si trattava di una strategia comunicativa, ma in realtà l’approccio intellettuale ossia la comprensione fu una categoria centrale nel pensiero di Luzzatto: con un tratto simile a quello dei pensatori razio- nalisti del Medioevo. Egli fece della “comprensione della gloria di Dio” (hasagat ha-kavod) il sinonimo della vicinanza tra l’uomo e il suo creatore, che è la massima beatitudine.12
In Olanda ricominciò dallo stile giovanile del dramma biblico come opera d’arte. Da ragazzo aveva scritto il dramma teatrale Maasè Shimshon – L’opera di Sansone, sulla lotta tra passione e ragione e sulla forza distruttiva dell’eros. Ora, sempre ricorrendo all’allegoria amorosa, compone Migdal Oz – La Torre possente, dove la torre è la legge e i segreti della Torà sono simbolizzati dalla vergine rinchiusa nella torre. Nel 1743 scrive Layesharim Teilà – Lode ai giusti, un allegoria lirica ormai fuori dalle tempeste amorose, scritta in uno stile che resterà modello per la lingua ebraica moderna. In queste opere riversò i suoi drammi trasformandoli in atti artistici d’amore.
In Olanda riuscì a pubblicare l’opera che non riuscì a pubblicare in italia, Kelah Pithe Chokhma – Le Centotrentotto porte di sapienza, in cui definì la qabbalà luriana in 138 capitoli, con lo scopo di contrastare le cattive definizioni e il disordine intellettuale. Contrastò la retorica assertiva e la forma narrativo-esegetica che la qabbalà aveva conosciuto in passato, ed elencò in modo sistematico e formale centotrentotto porte; i contenuti non sono altro che la qabbalà luriana ma in forma di Summa teologica neo-scolastica. Parlando della creazione e del suo funzionamento esalta e pone al centro l’unità di Dio: tutti gli esseri e gli eventi del mondo sono legati da un’intenzione divina unitaria. La scienza della verità per Ramchal è il desiderio dell’anima e si distingue in alcuni aspetti fondamentali:
- la volontà di Dio;
- la conoscenza della creazione e della sua gradualità (hadragà). Quindi la conoscenza dell’albero mistico (ilan hakadosh), della ritrazione dell’infinito (zim-zum), del prototipo della creazione umana (adam kadmon) e delle sembianze della divinità (parzufim);
- la conoscenza dell’essere umano e della sua anima in accordo alle sefirot;
- l’analisi dei comportamenti sociali in accordo alle sefirot.
Ad Amsterdam scrisse e pubblicò nel 1740 la sua opera più nota, il Mesillat Jesharim, di cui parleremo estesamente più avanti.
Altra opera pubblicata nello stesso anno fu Derek Ha-Shem: un trattato più popolare e divulgativo, dove troviamo una sintesi tra i principi di fede e le pratiche ebraiche, diviso in quattro sezioni: l’esistenza di Dio e dei mondi creati, la provvidenza, la profezia, il servizio divino. Le forze superiori sono le radici, gli esseri inferiori sono i rami e gli esseri del mondo inferiore corrispondono alle forze superiori e tutto è concatenato e guidato dalla saggezza divina. Vengono qui anche trattati temi come l’influenza delle stelle, gli effetti dell’invocazione dei nomi divini, le forze impure durante la notte e gli atti di magia.
Il testo Choqer u-Mequbbal – Il Filosofo e il Cabalista, è scritto in forma di dialogo tra il filosofo e il cabalista in cui il ricercatore filosofico non si accontenta degli assiomi cabalistici ma cerca di comprendere il senso e la logica delle cose. Attraverso il dialogo Ramchal trasmette il messaggio che la ricerca scientifica non ha alcun valore rispetto alla immensa luce che promana dalla conoscenza della qabbalà, che quest’ultima è una branca della conoscenza pura e non una credenza fondata sulla speculazione. Spinge comunque a conoscere Dio con intelligenza, non solo come soggetto di fede, ma cercando risposte chiare che soddisfino pure la ragione. La contraddizione viene superata con l’idea che attraverso l’uso della qabbalà si possa giungere ad una conoscenza razionale di Dio. Il cercatore pone due questioni: come è possibile che l’ein-sof infinito generi materia finita e come possa il male provenire dal principio del bene.
Alla prima domanda il cabalista risponde con uno sviluppo della teoria dell’emanazione. La creazione dal nulla (me-ain), dall’immaterialità, si manifestò con una luce progressiva che si condensò e si trasformò in materia spessa.
Per rispondere alla seconda domanda è indispensabile distinguere l’essenza dalla volontà. La prima è il tutto ed è inspiegabile. La volontà di Dio invece si può definire come infinita e si può dire che Dio, per creare un mondo finito, abbia limitato la Sua volontà: la Sua volontà infinita si è autolimitata per produrre un mondo limitato. L’autolimitazione è quindi solo a livello di volontà e non di essenza. Nell’opera di cui parliamo Luzzatto spiega il modo in cui il Creatore diresse le regole attraverso le quali Egli dirige tutto. Ramchal usa le categorie filosofiche tradizionali come Dio, l’uomo, l’anima e il mondo, ma le riempie di nuovi contenuti: il discorso verte sulla conoscenza della diffusione della luce divina, e sull’azione dell’uomo che può agire sui mondi divini. L’anima è creata per il servizio divino e condiziona gli eventi del mondo e la sua redenzione. Nell’opera viene trattata anche la reincarnazione. Le spiegazioni del cabalista sono razionali, anche se non di origine razionale, e la qabbalà può essere adottata solo da intelletti sapienti che conoscano la retta ragione (sekel yashar). La conoscenza e la comprensione sono obblighi religiosi, mitzwot.
Un altro testo composto da Luzzatto in forma dialogica è il Da’at Tevunot, traducibile come “conoscenza delle ragioni”. Qui non sono il razionalista e il cabalista in dialogo, ma l’anima e l’intelletto. La prima chiede al secondo di aiutarla a capire i 13 principi di fede in cui crede, primo fra tutti l’unicità (Yichud) e poi la provvidenza, la remunerazione, il messia e la resurrezione. L’intelletto risponde trattando i temi dell’origine del male (peccato originale e libero arbitrio), l’esistenza necessaria di Dio e la contingenza degli esseri, gli attributi di Dio, la causa finale della creazione che sono l’uomo e la redenzione. Si tratta di un trattato teologico che poggia sulla struttura della qabbalà, pur senza farvi esplicito riferimento. Invece di parlare di tiqqun si parla di rivelazione progressiva e non si indulge troppo sui temi della colpa. La redenzione finale è descritta come un processo dalla molteplicità all’unità, invece di parlare di sefirot si parla delle middot (attributi), di bontà e giudizio che si alternano producendo luci ed ombre. Dio decide di rendere più o meno visibili le forze che governano il mondo e, per quanto riguarda l’uomo, la sua anima è l’immagine dello svelamento e il suo corpo l’immagine del nascondimento. Ecco come nuovi linguaggi esprimono vecchie conoscenze e possono entrare nelle menti del diciottesimo secolo.
Poco dopo scriverà, nel 1743, Kelalym rishonim – I primi principi, in cui con una terminologia cabalistica sviluppò l’idea delle sefirot. Il Signore concepì le sefirot per soddisfare i bisogni delle Sue creature, esse sono mezzi non assimilabili alla perfezione. Esse rappresentano il limite posto dalla Sua volontà e dal Suo desiderio, conformemente alle esigenze delle Sue crea- ture. Le sefirot sono in Ramchal gli attributi della volontà divina in rapporto all’atto creativo che aveva uno scopo specifico relativamente a ciò che Egli voleva creare. Il Ramchal va oltre e si chiede a cosa possa servire conoscere le ripercussioni cosmiche delle sefirot se non se ne riconosca il comportamento dal basso, dal punto di vista dell’uomo.
Esse racchiudono gli attributi divini che Gli sono propri in rapporto ai Suoi atti. L’uomo ricevette dall’emanazione divina queste caratteristiche che ora sono innate. Conclude che tutto il comportamento umano dipende da questa forza suprema, che dirige tutto verso il bene.
Un’altra opera, Il Derek Tevunot – La via della conoscenza, fu pubblicata ad Amsterdam nel 1742. E’ un’introduzione metodologica al Talmud in cui egli insegna ad andare direttamente al soggetto senza perdersi nei labirinti della disquisizione talmudica e del pilpul che egli non amava.
3. Il pensiero
Per Ramchal il fine di Dio nella sua Creazione è elargire tutto il bene che le creature sono in grado di ricevere; il luogo per ricevere il bene è l’unione con Lui o, nella misura concessa, l’avvicinamento alla Sua perfezione. Perché ciò avvenga è necessario comprendere la Sua perfezione: lo splendore del Suo volto e la vicinanza a Lui rappresentano l’origine di ogni perfezionamento e, dunque, più il grado di imperfezione è alto più Egli nasconde il Suo volto. Questo è uno dei punti cardinali attorno a cui ruota il pensiero del Luzzatto che, nel Derek Ha-Shem, parla della responsabilità dell’uomo di adoperarsi per il suo avvicinamento a Dio.
Subito dopo la sua nascita, l’uomo è esclusivamente materia, con un intelletto quasi inesistente. Poi, man mano che cresce, il suo intelletto si rafforza sviluppandosi a seconda delle qualità specifiche di ciascuno. Ciò nonostante, l’istinto alla materia continua ad influenzare la vita dell’uomo, cercando di spingerlo a soddisfare i propri bisogni. Crescendo, l’intelletto potrebbe acquisire saggezza, studiandola e mettendola in atto con diligenza dando la possibilità all’uomo di prevalere sulla sua natura materiale.13
Per Ramchal la distinzione tra anima e corpo è comunque frutto di volontà divina che ha previsto per l’uomo un processo di ‘aggiustamento’, sostenibile.
Come scrive Yirmeyahu Bindman in Rabbi Moshe Chaim Luzzatto His Life and Work,
l’idea del Ramchal è che vi sia stata una discesa dell’anima celeste sull’uomo corporale; che questa fosse una necessità proprio perché nell’anima sono iscritti i principi creazionali sefirotici voluti da Dio, il nostro è un mondo creato a beneficio dell’uomo con una direzione divina che, attraverso premi, disciplina e mazal, porta l’adamo primigenio alla sua restaurazione. Per parlare della restaurazione dell’adam kadmon Ramchal fa riferimento all’azione sefirotica che, sinteticamente, esponiamo di seguito.
Prima della creazione dei mondi sefirotici Dio dispose in sé stesso la creazione degli olamot o mondi, proprio al centro dell’ein-sof. Questi sono un “multi-sistema” interno a Dio stesso, che contiene tutti i rapporti tra Dio e le creature e tra le creature stesse. Si distinguono in quattro mondi: azilut-emanazione, berià-creazione, yezirà-formazione e assià-azione, dove il mondo azilut comprende gli altri tre mondi come fossero tre diversi abiti (levushim).
Il mondo superiore, azilut, comprende le dieci sefirot, mentre gli altri tre mondi sono l’azione delle sefirot stesse. Il mondo della creazione pertiene alle anime, quello della formazione agli angeli e quello dell’azione alla natura.
All’origine l’ein-sof creò un vuoto, ossia uno spazio (makom). Lasciò in questo spazio un impronta (reshimu) che scendendo nelle sefirot diede forma a tutti gli atti creativi e ai comportamenti. Il reshimu è quindi la radice di tutte le cose, del bene e del male. Dal reshimu una linea (kav) permise la discesa dell’ein-sof nel vuoto, la luce originaria onnicomprensiva di bene e male. Tale luce penetrando dall’ein-sof all’azilut si sviluppa in una parte interna ed una parte esterna (Penimi la prima e Makif la seconda). Attraverso il reshimu e il kav prende il via la creazione dell’adam kadmon, adamo primigenio. La creazione si svolge gradualmente (Hadragà). Vediamo quindi questa dualità riprodursi in due modalità di comportamento: la faccia rivelata e la faccia nascosta, i comportamenti della perfezione dell’universo e della sua imperfezione. Corpo e anima dell’essere umano rispecchiano queste due modalità: il corpo risiede nell’imperfezione e l’anima nella perfezione. Per questo il corpo deve essere secondo all’anima, affinché il governo di tutto l’essere umano appartenga alla perfezione.
Ma quale è l’azione sefirotica sul comportamento umano? Qui vediamo la vera innovazione del Ramchal che parte dall’affermazione che, come tutta la creazione, anche l’animo umano è forgiato dalle sefirot secondo uno scopo, con leggi empiriche e non solo filosofiche. Le categorie sefirotiche non si applicano solo ai rapporti tra Dio e l’universo ma anche alla natura e alla struttura dell’animo umano, alla sua psicologia. Le sette sefirot, in continua relazione tra loro, rispecchiano anche i fondamenti e i principi del funzionamento dell’uomo. L’azione di Dio è la radice dell’uomo e l’anima dell’uomo ha le sue radici nell’ azione sefirotica di Dio. Il motore di questa azione o comportamento divino sta nelle prime tre sefirot, mentre le altre sette sono i princìpi dinamici che regolano il comportamento cosmico ed umano. Di queste sette sefirot aggiungiamo che le prime sei sono dinamiche mentre la settima, la malkhut, è passiva.
Dio gradualmente proiettò la sua volontà su quella dell’uomo e trasferì la sua azione all’azione dell’uomo. E’ in questo senso che va inteso “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”: il Signore ha voluto eguagliare le sue azioni a quelle dell’uomo e la sua capacità creativa a quella dell’uomo.
Ramchal scrisse in Da’at Tevunot: «tutto proviene dalle sefirot che il Signore ha preparato per dirigere il mondo; sono le sefirot che fanno la forma, la quintessenza e la sostanza, nei tempi, esse sono una struttura (misura) per tutto».
E’ la prima volta nella letteratura cabalistica che troviamo una psicologia ebraica che studia l’anima secondo le categorie dell’anima. Le sefirot sono in relazione tra loro, interconnesse, in contatto attraverso le loro frontiere luminose. Hanno un interiorità-pnimiyut ed un’esteriorità-hitsoniyut. Secondo il Ramchal l’interiorità corrisponde all’albero della vita, Etz ha-chayim, mentre l’esteriorità corrisponde all’albero della conoscenza, Etz ha-da’at. Questi sono i due principi dell’essenza e dell’esistenza, ossia anima e corpo, che erano uniti al momento della creazione e si divisero in conseguenza della caduta dell’uomo.
Nello Zohar è scritto che Dio creò l’uomo con la fede nella ‘unicità invariabile’, ma Adamo ed Eva si rivolsero all’albero del bene e del male che ricadeva nell’ambito della ‘varietà’. Lo Zohar individua questo passaggio, dall’unico al molteplice, nel verso di Ecclesiaste 7:29: “Dio ha fatto l’uomo retto ma gli uomini hanno cercato molti sotterfugi”.
Fu l’amore per la varietà ad attirare verso la morte Adamo e la conseguenza di questa scelta fu la divisione tra interiorità ed esteriorità. A quel tempo non c’era divisione nel corpo tra carne e ossa, la pelle era ancora luminosa, ma dopo la caduta la pelle si rivesti di una scorza temporanea e l’uomo entrò in un sistema bipolare; il mondo intero si sviluppò secondo la simmetria cielo e terra, sole e luna, luce e oscurità, corpo e anima, interiorità ed esteriorità. In questo mondo i due valori dell’interiorità e dell’esteriorità saranno sempre distinti e da tale distinzione o doppiezza, deriveranno i problemi dell’umanità. Lo Zohar insegna infatti che il corpo è opaco, spesso, portato alle passioni ma l’anima, privata di tutte le proprietà del corpo, è spirituale. Compito dell’uomo è superare la dicotomia tra le due realtà, quella spirituale e quella materiale fino a che si palesi il grande valore della yechidà, l’unificazione, che è un valore messianico. Per ora l’uomo deve applicarsi ad una sorta di riunificazione in se stesso. Per questo, Luzzatto mette a punto un modello esplicativo delle radici dell’anima e del comportamento umano, dove le radici sono le sette sefirot e il comportamento deriva direttamente dall’interpretazione biblica del racconto della creazione. Di seguito vengono elencati i caratteri divini creativi che, trasfusi nell’uomo durante i sette giorni della creazione, diventano funzioni umane e sono: desiderio, relazione, autorità, costruzione, riflessione, sovranità e integrazione.
- Il primo giorno della creazione corrisponde alla sefirà chesed-bontà (Dio vide che tutto era buono) e l’atto di chesed dell’uomo è il suo desiderio soggettivo di compiere qualcosa di buono.
- Il secondo giorno della creazione corrisponde alla sefirà ghevurà-rigore (Dio nominò il cielo shamaim unendo i due opposti fuoco e acqua). Caratteristica della ghevurà nell’uomo è il suo unirsi con la donna e con l’altro; è il mondo delle relazioni.
- Il terzo giorno della creazione corrisponde alla sefirà tiferet-bellezza (le acque di sotto il cielo si unirono dando vita al suolo). Dal mondo delle relazioni ci spostiamo all’istinto del dominio e all’autorità, quella che fu data all’uomo sulla terra.
- Il quarto giorno corrisponde alla sefirà netzà-vittoria (Dio creò il sole senza il quale non si realizzano progetti sulla terra). Funzione e tema di questo giorno è la progettazione, la costruzione.
- Il quinto giorno corrisponde alla sefirà hod-gloria (creazione del mondo animale e degli uccelli). L’atto dell’hod è l’atto del ritirarsi per analizzare se stessi, un esilio che produce riflessione e gloria.
- Il sesto giorno è il giorno della sefirà yesod-fondamento (Dio creò l’uomo, maschio e femmina, a Sua immagine e somiglianza). Creò un essere completo che fosse di aiuto alla creazione, è la pietra angolare di tutto il progetto creazionale, la sovranità.
- La settima sefirà nel settimo giorno è la sefirà malkhut-regalità (Dio pone fine alla Sua opera, si riposa e la benedice). Questa sefirà non ha un attributo specifico ma integra le radici di tutte le sefirot, la funzione umana e il tema è quello dell’integrazione.
Per il Ramchal i sette principi di questa psicologia ebraica devono essere assimilati gradualmente, secondo un processo evolutivo gerarchico, con un ordine fisso, da chesed a malkhut, secondo la loro struttura piramidale. Nel processo evolutivo non si può passare disordinatamente da una fase all’altra, il che comporterebbe squilibrio tra le forze.
Il giudaismo con Luzzatto scopre un nuovo aspetto della qabbalà, egli abbassa il muro di separazione tra mistica e razionalità del pensiero e propone le primizie di una nuova teoria dell’anima.
Seguendo i suoi insegnamenti bisognerebbe comprendere i comportamenti di tutte le creature secondo il segreto racchiuso nelle sefirot, comprenderli nella loro interiorità e non secondo una filosofia speculativa: conoscere i comportamenti umani secondo l’interiorità, come già i saggi antichi sapevano e facevano e, dopo aver compreso le leggi di natura, dovremmo comprenderne le più profonde radici sefirotiche.
4. Mesillat Jesharim
Il Sentiero dei giusti si inserisce nel filone della letteratura del mussar composta di scritti che, a partire dagli insegnamenti biblici sapienziali, molti dei quali nel Libro dei Proverbi, approfondiscono i temi etici ed istruiscono l’uomo sul comportamento e il carattere morale da tenere. Opere di mussar da cui trasse ispirazione Chayim Luzzatto, furono Le Massime dei Padri del periodo mishnaico; i Doveri dei Cuori di Bahya Ibn Pakudah della Spagna dell’XI secolo e Il miglioramento delle qualità morali di Solomon Ibn Gabirol. Il Rosh in Renania com- pose a cavallo tra il 1200 e il 1300 Orchot Chaim, un insieme di istruzioni per vivere una vita ebraica etica; Yedayah HaPenini all’inizio del 1300 scrisse sotto l’influenza maimonidea della necessità di evitare i piaceri del mondo e aggrapparsi alla saggezza della Torà. Nella Spagna me- dievale del 1300 il Sefer Ha-Yashar era uno dei libri etici più popolari nel Medioevo; un autore anonimo nella Germania medievale (1400-1500) scrisse in yiddish Orchot Tzaddikim – Le vie dei giusti, originariamente chiamato Sefer Ha-Middot. Moses Cordovero nel XVI secolo a Safed scrisse con un approccio mistico al mussar Tomer Devorah-La palma di Deborah, in cui speculava su come le nostre scelte personali si riverberino nel cosmo. I temi dell’intenzione del cuore, della trasformazione interiore, del miglioramento del carattere, non erano affatto nuovi al tempo di Luzzatto, ma il suo scritto fu considerato ben presto il più brillante per chiarezza e lucidità. Il Mesillat Jesharim, tutt’ora considerato il miglior libro di etica dai tempi del Chovot Ha-levavot, venne pubblicato ad Amsterdam nel 1740 e trovò grande diffusione soprattutto nelle comunità portoghesi sefardite. Fu accolto con entusiasmo dal rabbino sefardita di Amsterdam, dai rabbini di Francia e Germania, dai Chassidim e dai Mitnagdim. L’ideale religioso che esprime concorrerà alla formazione etica anche delle comunità fondate in nord-America.
Il principio fondante della struttura del libro è che le virtù in esso elencate non siano innate nell’uomo ma debbano essere conquistate in un cammino graduale di perfezione; alla fine di tale percorso si potrà vivere la chassidut ossia l’equilibrio fra la vita morale e il mondo fisico, giungere «al perfezionamento del servizio divino, all’amore e al timore di Dio, all’unione spirituale e a tutto ciò che fa parte della pietà.»14
Nell’introduzione il Ramchal spiega che il suo obiettivo è ricordare all’uomo, soggetto alla dimenticanza, quali siano le virtù necessarie per compiere il servizio divino.
Le citazioni bibliche su cui è poggiata l’opera riguardano l’introspezione di cui parla I Cronache 38:9: “Dio scruta ogni cuore e le pieghe di ogni pensiero”; l’integrità e il timore di cui parla il Salmo 86:11: “Mostrami oh Signore la tua via, camminerò nella tua verità e farò integro il mio cuore affinché tema il Tuo nome”.
Altre categorie centrali dell’opera sono quelle espresse in Proverbi 2:4-5 “Se cercherai la sapienza come l’argento e scaverai come per cercare un tesoro, allora comprenderai il timore del Signore”. Nella citazione di Deuteronomio 10:12-13 ritroviamo l’intenzione del cuore e l’osservanza dei comandamenti: “Che tu cammini in tutte le Sue vie e che tu lo ami e serva il Signore il tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua, e osservi i Suoi comandamenti”.
Alla base del pensiero del Ramchal non troviamo nulla di originale, come egli stesso si pregia di ricordare. Il timore del Signore, il cammino nelle Sue vie con integrità, la purezza di cuore e la pietà sono tra i temi più cari a Luzzatto. La saggezza per condursi in questo cammino proviene solo dallo studio della Torà e dall’osservanza delle mitzwot. E’ importante che all’osservanza si accompagni la ragione, per comprendere con intelligenza razionale la via e per tenere lontano il male che proviene dall’ignoranza.
Secondo il Ramchal gli eventi del mondo si iscrivono in un progetto evolutivo, il male si trasformerà in bene e anche se la liberazione e la perfezione assolute arriveranno solo con la gheulà finale, l’uomo deve cercare la sua gheulà attraverso l’etica e la responsabilità. Ramchal ci presenta l’ideale della vita santa e indica questa via di purezza in cui lo studio e l’acquisizione della saggezza devono essere finalizzati esclusivamente alla restaurazione della Shekhinà (letaqqen ha-Shekhinà). Il Sentiero dei giusti viene esposto in modo logico e chiaro, come è tipico di Ramchal, secondo l’idea della gradualità delle fasi. La scala delle virtù si può distinguere in due gruppi: vigilanza, dedizione e innocenza da una parte e dall’altra ascetismo, purezza, pietà, umiltà, timore del peccato e santità.
Tale scala si ispira al pensiero di Rabbi Pinchas Ben Yair, del II secolo, che troviamo nel Tal- mud Avoda Zarà:
La conoscenza della Torà conduce alla vigilanza, la vigilanza alla dedizione, la dedizione all’inno- cenza, l’innocenza all’ascetismo, l’ascetismo alla purezza, la purezza alla pietà, la pietà all’umiltà, l’umiltà al timore del peccato, il timore alla santità e la santità allo spirito sacro profetico e questo spirito sacro al potere della resurrezione dei morti.15
Ramchal fa essenzialmente riferimento al Talmud e al Midrash e preferisce non menzionare lo Zohar per evitare di riaccendere polemiche.
Tra le nove virtù che egli spiega dedichiamo particolare attenzione ad una di esse, per meglio capire la struttura del testo. Fin dall’inizio dell’opera, Ramchal presenta la sua concezione filosofica ed etica della vita improntata alla chassidut o pietà, radice del servizio divino, per cui ci soffermeremo su questa sezione dell’architettura generale. Prima di iniziare a descrivere la chassidut, Ramchal avverte gli studiosi ebrei intellettuali di non pensare che la pietà sia cosa di poco conto, che dipenda solo dalla recitazione di preghiere, suppliche o mortificazioni: la vera essenza della pietà si regge sul fondamento della sapienza. Il principio della pietà non risiede nella mera esecuzione del comandamento. Sta nel loro adempimento ‘esteso’: come un figlio che ama suo padre e fa qualcosa in più del semplice dovere, così l’uomo che ricerca la pietà cerca ogni opportunità per rallegrare il padre. La pietà riguarda, a differenza dell’ascetismo, i comandi in positivo. Ma entrambe queste virtù, pietà e ascetismo, aspirano all’unione con lo spirito del comandamento.
Ramchal insegna che ogni virtù si può vivere su tre piani: quello dell’azione in sé, quello della maniera di agire e quello dell’intenzione.
L’azione riguarda primariamente la relazione tra l’uomo, Dio e l’obbedienza a tutti i precetti, nei loro dettagli e sfumature. I maestri a tal proposito scrissero che i “supplementi della mitzwà ci risparmiano le avversità” (Sukka 38a). Chi aspira alla pietà è tenuto ad osservare anche tali dettagli. Le azioni di pietà riguardano anche le relazioni tra l’uomo e il suo prossimo: è necessario essere magnanimi e benevoli verso il prossimo stando attenti a non procurargli danni al corpo, alla proprietà e all’anima. Nell’ordine del corpo ciascuno dovrebbe sforzarsi di aiutare i suoi simili; per esempio se ci si accorge che il vicino subisce un danno fisico ci si dovrà impegnare per prevenirlo o ripararlo: “Uno acquisisce la Torà se porta il giogo con il suo compagno” (Avot 6:6). Nell’ordine delle proprietà si deve anche prevenire che le proprietà, sia pubbliche che private, siano danneggiate da se stessi o da altri. “La proprietà del tuo prossimo ti sia cara quanto la tua” (Avot 2:15). Nell’ordine dell’anima l’uomo deve compiacere il prossimo, evitare di rattristarlo, perché procurare gioia all’altro è un precetto della pietà e perseguire la pace dev’essere il bene ultimo di ogni relazione umana.
Anche verso il proprio animale è necessario esercitare una forma di pietà secondo com’è scritto: “Il giusto custodisca l’anima del suo animale.” (Prov.12:10)
Ecco di seguito alcuni esempi di azioni di pietà compiute da uomini pii e riportati nel Sentiero dei Giusti. Il trattato talmudico (Meghillà nel capitolo Bene Ha’ir) riporta che Rabbi Zakkai, a proposito dell’onore del prossimo, non aveva mai usato un soprannome neppure il più innocente. A rabbi Nechunia i discepoli chiesero: “Qual è il segreto della tua lunga vita?”. Egli rispose: “Non ho tratto onore dalla vergogna del mio prossimo. La maledizione del vicino non ha mai toccato il mio giaciglio” (Meghillà 28a).16 La Meghillà riporta che Rabbi Zera disse: “Non sono mai stato autoritario nella mia casa. Non sono mai passato davanti ad uno più anziano di me. Non ho mai meditato pensieri sacri in luoghi impuri. Non ho mai percorso lunghe distanze senza portare con me i tefillin e senza obbedire alla Torà. Non ho mai dormito nel bet ha-midrash neppure per un pisolino. Non mi sono rallegrato per le disgrazie del mio prossimo. E non ho mai chiamato il mio vicino con un soprannome”.17
Le opere di carità (ghemilut chassadim) sono un principio fondamentale per il chassid. Rabbi Eliezer soleva dire: le opere di carità sono più grandi della stessa elemosina, l’elemosina si fa con il denaro, mentre le opere di carità si fanno con tutta la persona; l’elemosina si fa ai poveri mentre l’opera di carità si fa ai poveri e ai ricchi; l’elemosina si fa per i vivi mentre l’opera di carità si fa per i vivi e per i morti.
Le opere di carità sono una delle tre cose su cui si regge il mondo e per il Ramchal devono tutte tendere a dare gioia al prossimo.
Anche il modo in cui vengono praticate le virtù è oggetto di analisi del Ramchal. Nel caso della pietà egli descrive i due filoni del timore e dell’amore: due pilastri del servizio divino. Il timore di Dio include l’umiltà davanti al Santo, il senso di indegnità nel servizio e il rispetto verso i comandamenti, il Suo nome e la Sua Torà. Come è scritto in Berakhot 28b : “quando preghi, sappi davanti a chi stai pregando”. Gli angeli nel loro essere più vicini a Dio degli uomini riescono a farsi un’ immagine migliore della Sua gloriosa maestà ed hanno maggiore riverenza. Non basta adempiere un precetto, occorre adempierlo con decoro e bellezza e non è ammessa meschinità nel servizio divino. Questo timore deve prima crescere in cuore e poi arrivare al linguaggio del corpo. L’esempio di Abele che presentava le migliori offerte, mentre Caino presentava offerte scadenti, ci fa capire l’importanza della motivazione al precetto. E’ nostro dovere aggiungere alla mitzwà qualcosa per renderla più bella. In Berakhot 17a è detto: “Un uomo deve essere creativo quando si tratta del timore di Dio.”
L’amore di Dio consiste invece nel desiderio di vicinanza a Dio e si compone di tre parti: l’unione spirituale, la gioia e la gelosia. Si tratta dello stesso desiderio del re Davide di cui è scritto: “Come una cerva anela ai corsi d’acqua così la mia anima anela a te o Dio” (Salmo 42:2). Si tratta di un amore incondizionato verso il creatore che ci ha riscattati.
L’unione spirituale si ha quando il cuore dell’uomo aderisce a Dio; Ramchal ce lo spiega attraverso l’immagine di Salomone che troviamo nel libro dei Proverbi: “Cerva deliziosa, graziosa gazzella! I suoi seni ti soddisfino e le sue carezze ti inebrino sempre” (Prov. 5:19).
Per quanto concerne la gioia, i rabbini ci hanno insegnato che la divina presenza riposa solo su chi adempie un precetto con gioia. Come è scritto “Servite il Signore nella gioia, venite davanti a Lui nel canto” (Salmo 100:2), seguiamo l’esempio di Davide che si rallegrò nel Signore con cetra e canti.
La gelosia deve portare l’uomo a detestare coloro che detestano Dio e sforzarsi di ricondurli al servizio divino. Elia disse di essere geloso e zelante per il Signore degli Eserciti (1 Re 19:10). Dopo aver analizzato l’azione e il modo di agire, Ramchal esamina le intenzioni che motivano all’agire. La motivazione per gli uomini di pietà può consistere solo nel servire Dio per accrescerne la gloria. La retta intenzione è quella che rinuncia ad ogni godimento personale e mira solo alla santificazione del suo nome. Ogni saggio gioisce e piange per la dignità di Gerusalemme e del Tempio, per la redenzione e per la riunione degli esiliati; non mancherà di dolersi sinceramente per la distruzione del Tempio e per la dispersione del popolo ebraico perché queste offuscano la gloria di Dio. Bisogna darsi pensiero di Sion perché si può celebrare la gloria di Dio solo attraverso la redenzione di Israele. Chi ha una retta intenzione deve anche preoccuparsi del bene della propria generazione e non desiderare che i malvagi si perdano, il Santo ama solamente chi ama Israele.
Valutare, ponderare e decidere sono pure momenti topici del perfezionamento. Solo un cuore integro può ben ponderare le sue azioni, come è scritto :“Beato l’uomo che ha in Te la sua forza e decide nel suo cuore il viaggio verso la santità” (Salmo 84:6).
Per Ramchal ogni azione deve essere valutata anche per le conseguenze e le implicazioni che può avere, deve essere osservata con attenzione e intelligenza per decidere se compierla o astenersene perché non si deve neppure eccellere nella virtù della pietà. Talvolta l’astenersene procura una maggiore santificazione del Nome.