Come avere successo con un film antisemita.
Alma Cocco
Aveva in mente il Kenneth Branagh della trasposizione cinematografica di Molto rumore per nulla il regista Michael Redford quando ha pensato di realizzare un film dal lavoro teatrale Il mercante di Venezia di William Shakespeare? se è così, è andato da tutt’altra parte. Se Branagh ha composto un’opera filologicamente corretta che, non solo asseconda ma persino esalta il testo, al contrario, Redford con la sua grossolana trasposizione in pellicola involgarisce e svilisce l’opera teatrale dalla quale trae ispirazione.
Il confronto tra i due lavori è inevitabile; pur non avendo alcuna esperienza teatrale, Redford ha voluto cimentarsi con un testo problematico e pieno di insidie affrontandolo da un’angolatura assai ristretta: quella dell’antisemitismo. Se avesse letto con attenzione il testo avrebbe dovuto accorgersi dallo scambio di battute tra il principe di Marocco e Porzia a proposito del colore della pelle (scena I, Atto II) che il presunto antisemitismo di Shakespeare non è ricavabile sulla base de Il mercante di Venezia, come invece si pretende da trent’anni di dimostrare in ogni possibile convegno sul tema.
L’opera di Shakespeare non è, infatti, né una commedia, né una tragedia sul tema dell’ebraismo e dell’antisemitismo, ma un dibattito filosofico esoterico che si svolge su piani diversi che si intrecciano continuamente. Problemi di etica, di economia, di diritto, di religione e di politica, espressi per enigmi, si incontrano e si separano secondo una coerenza logica interna che è perfetta.
I motivi che hanno indotto Shakespeare a scrivere quest’opera teatrale non sono identificabili se non in riferimento al vero oggetto del discorso. Invece, la lettaratura critica ha sempre dato un gran peso al clima di intolleranza creatosi a Londra nel corso del processo a carico del medico ebreo Roderigo Lopez, incriminato per presunta cospirazione contro la Corona d’Inghilterra, e giustiziato nel 1594. Un altro motivo chiamato sempre in causa è l’orribile dramma ‘L’ebreo di Malta’ del contemporaneo di Shakespeare, Christopher Marlowe, opera autenticamente antisemita, rappresentata per la prima volta a Londra nel 1589. Nessuno ha mai pensato di mettere in relazione la scrittura di questo testo con le tragiche vicende veneziane del libero pensatore e filosofo Giordano Bruno, che aveva insegnato a Londra e Oxford dal 1583 al 1585. Giunto a Venezia nel 1591, fu consegnato dal doge all’inquisizione veneta nel 1592, incarcerato e trasferito a Roma. Dopo anni di detenzione e di interrogatori estenuanti, subì la condanna a morte e, nel 1600, finì sul rogo.
Ma tra l’occasione immediata, l’intreccio, e i grandi temi che vi si affrontano si aprono spazi di discussione enormi. A distanza di quattro secoli, è difficile entrare idealmente nel clima politico inglese ed europeo di fine Cinquecento. Tuttavia, chi poteva assistere alla rappresentazione negli stessi anni in cui Il mercante di Venezia venne composto e messo in scena era in grado di comprendere, al di là delle metafore, che nel dramma si alludeva alla feroce lotta tra l’Inghilterra e la Chiesa di Roma, alla differente visione economica, teologica, etica e politica con cui queste due grandi potenze si confrontavano, e non solo a parole. Nello stesso periodo, infatti, tra l’Inghilterra e la Chiesa era in atto una guerra vera. Ma sarebbe semplicistico ridurre Il mercante di Venezia a un puro conflitto di potere. In definitiva, dietro la storia di due uomini d’affari, Antonio e Shylock, si celano due diversi e opposti modi di interpretare la vita, la società e lo Stato, che tuttora sussistono.
Ma di questo confronto che mantiene intatta tutta la sua attualità e che chiunque può leggere nel testo di Shakespeare che cosa resta ne Il mercante di Venezia film? Quando il regista ha scelto di censurare o di stravolgere ogni discussione, oppure di trasformare talune significative scene in occasioni caricaturali, ha tolto allo spettatore la possibilità di comprendere la natura del dramma. Quando ha sorvolato, o al contrario caricato di significati inesistenti, personaggi e oggetti, ha mancato di cogliere e far cogliere la complessa trama soggiacente al testo. Così è scomparsa la figura di Lancillotto, alter-ego dello stesso Shakespeare; al contrario, caricando di ambigue allusioni il legame tra Bassanio e Antonio, si è volgarmente accennato alla presunta omossessualità del drammaturgo. Una citazione a parte merita il disgustoso indulgere sulla scena della quasi esecuzione di Antonio che inevitabilmente richiama e asseconda la pretesa avidità ebraica di sangue cristiano.
E perciò, nonostante l’apparente buona volontà di cui hanno fatto sfoggio regista, staff e attori protagonisti, il film Il mercante di Venezia, finisce per essere non solo un brutto film, ma persino un film antisemita. Proprio perché, ignorando tutti i veri temi dibattuti nel testo, focalizza l’attenzione in modo quasi morboso su quell’unico oggetto, l’ebraismo, che è, sì, occasione del discorso, ma non è al centro del discorso. E che si tratti di una lettura superficiale, lo si intuisce subito, persino dalla pedante introduzione (che nelle intenzioni degli autori dovrebbe spiegare ambiente ed epoca storica in cui il dramma ha luogo), dove la parola usura (termine latino per definire il ‘prestito ad interesse’) è utilizzata impropriamente per dare ragione della professione dell’ebreo Shylock.
Niente di questo film è gradevole. Le pesanti scenografie baroccheggianti, i costumi sfarzosi, le tinte fosche, le immagini ad effetto, il ridicolo via-vai senza senso dei personaggi creano un’atmosfera ora cupa ora ridondante come un soverchiante diversivo che distrae e toglie il respiro. Persino gli interpreti, a parte un Al Pacino talvolta istrionesco, appaiono inadeguati; troppo giovane, quasi efebica, l’interprete di Porzia, ambigui Bassanio e Antonio, anonima Nerissa, caricaturali tutti gli altri.
Siamo assai lontani dalle classiche e trasparenti atmosfere di Branagh. Ma forse, al di là delle intenzioni dichiarate nelle interviste, ciò che si voleva ottenere col film è la solita banale furbata: raccogliere un successo gratuito e a buon mercato argomentando superficialmente su temi ebraici.