Micaela Procaccia
Nel luglio del 1999, in un affollato convegno internazionale a Potsdam, i responsabili di diverse istituzioni culturali ebraiche si sono riuniuti per discutere delle prospettive di tutela degli archivi storici ebraici in Europa. Già da qualche tempo, una raccomandazione del Parlamento europeo aveva posto all’ordine del giorno la questione della salvaguardia dell’intero patrimonio culturale dell’ebraismo europeo, quale parte fondamentale e imprescindibile della storia del vecchio continente.
In quella occasione emersero due elementi: in primo luogo, il fatto che il patrimonio archivistico delle Comunità italiane è per antichità, continuità e ricchezza delle serie documentarie fra i più cospicui conservati. La straordinaria articolazione territoriale degli insediamenti ebraici in Italia e la lunghissima vita delle comunità, interrotta solo dalla grande cesura del 1492 che cancellò l’esistenza dell’ebraismo siciliano e (successivamente) meridionale, ha permesso la costituzione di un patrimonio documentario di notevole pregio, frutto di un percorso storico quasi unico in Europa. A fianco di quello che è conservato presso le istituzioni ebraiche, l’Italia conserva, nei propri archivi di Stato, una altrettanto ricca e pregevole documentazione, prodotta in massima parte dall’interagire delle comunità ebraiche con le pubbliche autorità dei luoghi di insediamento, che spesso copre le lacune cronologiche della documentazione comunitaria, consentendo lo studio- se non esaustivo, certo con ampi margini di approfondimento della storia di questa millenaria convivenza. In secondo luogo, è apparso evidente che, vuoi per l’attenzione che negli ultimi 15 anni circa le Comunità ebraiche e l’Unione delle Comunità ebraiche hanno avuto nei confronti del proprio patrimonio culturale, vuoi per l’esistenza in Italia di una normativa fra le più avanzate in materia di archivi non statali, le iniziative di tutela nei confronti degli archivi ebraici (pur con tutti i limiti che si diranno poi) sono sicuramente più avanzate nel nostro paese che altrove.
Di fatto, come già si rilevava nel convegno del marzo 1994 a Bologna dedicato agli stessi temi che stiamo affrontando in questi giorni, non pochi sono gli archivi di Comunità ebraiche italiane sottoposti al vincolo di tutela1: quella dichiarazione di notevole interesse storico che fin dal 1963 è stata lo strumento principe delle Sovrintendenze archivistiche per esercitare il compito istituzionale della vigilanza sulla documentazione privata. Per tutte le discussioni di allora sulla applicabilità di tale vincolo agli archivi di enti di culto rimando a quanto contenuto negli atti di quel convegno. Resta il dato che, nei confronti degli archivi delle Comunità ebraiche, il vincolo è stato sempre apposto in completo accordo con i dirigenti delle istituzioni e non ha mai dato origine ad un ricorso. Diversa era la situazione per gli archivi, altrettanto importanti di quelli “istituzionali”, prodotti dalle diverse personalità che hanno segnato la storia dell’ebraismo italiano e dell’Italia nel suo complesso. Se nel 1994 potevamo citare, accanto alla grande raccolta di carte personali del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, quasi soltanto il caso dell’archivio di Samuele David Luzzatto conservato prima all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, poi al Centro bibliografico dell’Unione stessa, ora la situazione appare sicuramente più avanzata. Se, infatti, l’archivio di S.D.Luzzatto2era stato precocemente sottoposto a tutela per una serie di circostanze abbastanza irripetibili, restava il problema delle carte di altre personalità (talvolta non altrettanto celebri, ma non per questo secondarie) la cui individuazione e salvaguardia non appariva altrettanto facile. Oggi, accanto all’espansione e alla prosecuzione del lavoro del C.D.E.C. (sul quale occorrerebbe soffermarsi a lungo, ma che sarà oggetto di uno specifico intervento) possiamo registrare l’acquisizione di numerose carte personali presso il Centro bibliografico dell’U.C.E.I., tra cui l’archivio di Augusto Segre, quello di Sam Waagenar, quello di Moisè Pontremoli e l’importantissimo archivio di Isacco Artom, segretario del Conte Camillo Benso di Cavour, figura di primo piano del nostro Risorgimento, segretario generale del Ministero degli affari esteri. E possiamo anche annunciare l’ultimazione dei lavori di ordinamento delle carte di Samuele David Luzzatto, la prossima conclusione dell’ordinamento dell’archivio Artom, insieme alla prosecuzione (fino al 1950) dell’ordinamento dell’archivio dell’Unione. Tutto questo (e molti altri interventi, fra i quali vorrei ricordare il censimento promosso dalla Soprintendenza per l’Emilia Romagna ormai qualche anno fa e gli ultimi varati nel piano di spesa del 2001 riguardanti gli archivi delle Comunità di Siena e Firenze) è stato reso possibile dall’applicazione di una legge (la L.253 del 5 giugno 1986) che consentiva l’erogazione di contributi in favore di archivi privati dichiarati di notevole interesse storico e di archivi appartenenti ad “enti ecclesiastici” (di qui l’estensione a tutti gli enti di culto) di cui il Sovrintendente archivistico attestasse l’importanza storica anche senza un formale provvedimento di vincolo.
Non dobbiamo, tuttavia, compiacerci troppo: se molto abbiamo fatto (grazie anche a buoni rapporti di collaborazione spesso instaurati fra le Comunità, l’Unione e i responsabili del Ministero), anche se ci confrontiamo con la scarsità di risorse disponibili sui bilanci ministeriali per questi interventi, molto dobbiamo ancora fare e molto, purtroppo, è andato perduto in anni in cui non si aveva la stessa attenzione che abbiamo da un po’ di tempo in qua.
Il Ministero, tuttavia, ha negli ultimissimi anni (dal 1996 ad oggi) messo all’ordine del giorno gli interventi in favore della conservazione e della valorizzazione del patrimonio ebraico: l’aver presentato alla stampa nel salone del Collegio Romano, con la presenza e il patrocinio del Ministro Melandri , la prima giornata dedicata alla cultura ebraica il 3 settembre del 2000, ne è stato il simbolico segnale. Altrettanto importante (anzi, certamente di più da un punto di vista operativo) è stata, nel settembre 1996 , la convocazione della Commissione mista per la valorizzazione del patrimonio ebraico, istituita con l’Intesa del 1989 (art.17) fra il Ministero e l’Unione, ma mai prima di allora convocata. La Commissione,. che dovrebbe essere il luogo deputato per la programmazione di interventi complessivi, di largo respiro, sui beni culturali ebraici in Italia, non è disgraziatamente- andata oltre la seconda riunione, ma nel settore degli archivi (ad esempio) è alle discussioni della commissione che dobbiamo la possibilità di varare i corsi di preparazione professionale per archivisti di archivi storici ebraici, che già hanno conosciuto due edizioni, frutto della collaborazione fra la Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica dell’Archivio di Stato di Roma ed il Corso di Laurea in studi ebraici del Collegio rabbinico italiano.
Ma, come si diceva, non basta. Dando per scontato (perché èscontato) che tutte le Comunità ebraiche possiedono un patrimonio archivistico degno di tutela, perché degna di tutela e meritevole di ogni attenzione è, in generale, tutta la vicenda storica dell’ebraismo in Italia, e considerando l’urgenza di tutelare anche le carte delle piccole comunità scomparse, aggregate talvolta a quelle delle comunità maggiori
(per esempio, così è a Torino) , talvolta conservate in Archivio di Stato (Reggio Emilia), talvolta presso Istituti culturali ebraici (Pitigliano e Senigallia alCentro bibliografico di Roma, il vasto patrimonio torinese della Fondazione Archivio Terracini), gli archivi delle personalità, gli archivi delle altre Istituzioni ebraiche (Orfanotrofi, Case di riposo ecc.) abbiamo bisogno di lavorare molto.
Col rischio di dire una serie di ovvietà, possiamo ribadire che ogni archivio ha bisogno di essere ben conservato, in un locale idoneo; ordinato, in modo che la documentazione sia facilmente reperibile, senza interventi che alterino la struttura originaria delle serie di documenti; se dichiarato di notevole interesse storico deve essere aperto alla consultazione degli studiosi (anche secondo modalità da concordare), affidato a personale qualificato. Non sempre e non ovunque i proprietari degli archivi (in questo caso le istituzioni ebraiche) sono in grado di fronteggiare i costi e gli sforzi organizzativi necessari. A chi ne ha fatto richiesta non è mancato il sostegno economico e tecnico dell’amministrazione archivistica statale, così come la formazione di personale è stata la motivazione che ci ha spinto ad organizzare i due corsi romani, ai quali hanno partecipato persone di tutte le Comunità. Tuttavia siamo ben lontani dal sentirci tranquilli sul “futuro della memoria”, come recitava il bel titolo del convegno di una decina di anni fa a Capri, dedicato al tema della conservazioni degli archivi di famiglie e persone.
Gli interventi finora realizzati, con il finanziamento dello Stato o con interventi regionali, sono molti, ma rispondono ad un criterio di casualità. Si interviene in favore di chi fa domanda: questo significa che non esiste un piano complessivo, coordinato ed organico, che consenta di programmare una ordinata scala di priorità, in base alla quale (non è il mio un facile ottimismo, ma una ragionata valutazione) pensare di giungere ad un completo censimento e ad un avanzato stato di ordinamento degli archivi ebraici in Italia nel giro di cinque anni. Tutto questo potrebbe essere ragionevolmente possibile se la collaborazione fra Comunità, Unione delle Comunità, organi periferici del Ministero (le Soprintendenze archivistiche) e Direzione generale per gli archivi, diventasse da episodica e disorganica, in qualche misura stabile e “normale”. Il tavolo delle trattative esiste già: è quella Commissione mista che vede insieme i Direttori generali di tutti i settori tecnici del Ministero e i rappresentanti dell’Unione; non dobbiamo lasciarlo cadere in disuso, come, purtroppo sembra sia accaduto ultimamente. Ma, al di là della Commissione, esistono forme di collaborazione esistenti che hanno già dato ottimi risultati in sede locale (penso agli interventi della Soprintendenza archivistica per il Lazio per gli archivi del Centro bibliografico e della Comunità di Roma, a quelli della Soprintendenza di Torino per l’archivio della Comunità e per l’archivio Terracini, al piano regionale per gli archivi delle Comunità ebraiche in Toscana, preparato dalla Soprintendenza e per il quale cercheremo possibilità di finanziamento) che attendono un coordinamento. Così come meriterebbero una attenta valutazione delle possibilità di collaborazione i progetti presentati per gli archivi ebraici, in riferimento all’utilizzazione dei fondi derivanti dall’ “otto per mille” destinati all’Unione. Vorrei sottolineare che l’unica richiesta per un archivio ebraico presentata sui fondi dell’ “otto per mille” a gestione statale (Merano) è stata accolta.
Il nuovo Testo Unico sui beni culturali (D.Lgs.490’/99)3 ci apre nuove prospettive: raccogliendo e armonizzando tutta la normativa preesistente in materia di beni culturali, esso ha prodotto, anche nel campo degli archivi, alcune sostanziali novità.
L’art.6, comma 2, del Testo, stabilisce che il “Ministero” dichiara il notevole interesse storico dei beni indicati all’art.2, comma 4, lettera c) (i beni archivistici). A limitare il rischio che il bene oggetto della procedura di vincolo possa sparitre, o, nel caso delle collezioni e degli archivi, perdere consistenti “pezzi” durante l’iter procedurale, l’art.7, comma 4, stabilisce che la comunicazione di avvio del procedimento comporta l’applicazione, in via cautelare, delle disposizioni che disciplinano i “controlli” sulla conservazione , compreso il potere di ispezione dei Soprintendenti, e la circolazione in ambito nazionale (alienazione).
Il T.U. conferma l’obbligo di denunciare ai Soprintendenti archivistici competenti per territorio la proprietà, il possesso o la detenzione di documenti che abbiano più di settanta anni, come pure conferma la possibilità per il Soprintendente di accertare il notevole interesse storico di archivi o singoli documenti di data più recente.
La portata innovativa di maggior peso è tuttavia quella contenuta nell’art.21, che stabilisce l’immodificabilità dei beni, salvo autorizzazione del Ministero, stabilendo che gli archivi dichiarati di notevole interesse storico non possono essere smembrati, a qualsiasi titolo, e debbono essere conservati nella loro organicità. La disposizione consente, peraltro, il “trasferimento” di complessi organici di documentazione a soggetti diversi dal proprietario, possessore o detentore, previa autorizzazione del Soprintendente.
A norma dell’art.22, comma 2, i beni culturali appartenenti a persone giuridiche private senza fini di lucro e dichiarati di notevole interesse storico “sono fissati al luogo di destinazione nel modo indicato dalla Soprintendenza”. Spetta al Soprintendente archivistico fissare il luogo idoneo alla conservazione (in pratica accertarne e riconoscerne l’idoneità) e autorizzare l’eventuale rimozione. La disposizione mira essenzialmente a garantire un controllo rispetto alla pratica dell’affidamento a società private della gestione e della conservazione di importanti archivi. Non mi sembra che questa pratica sia diffusa presso le Istituzioni ebraiche.
Più interessante, invece, nel nostro caso, è quanto stabilito negli articoli da 34 a 42. In essi viene innanzi tutto confermato l’obbligo per i privati proprietari, possessori o detentori di archivi dichiarati di notevole interesse storico di conservare gli archivi e i singoli documenti, di ordinarli , inventariarli e restaurarli ovvero di consentire che il Soprintendente archivistico provveda. In ogni caso, qualsiasi tipo di intervento (che sia esso sostenuto economicamente in proprio dal privato o sia finanziato da terzi) deve essere autorizzato dal Soprintendente archivistico che ne verifica la correttezza da un punto di vista tecnico-scientifico. Se l’interessato lo richiede, il Soprintendente si pronuncia sull’ammissibilità ai contributi statali di un progetto di intervento o sulla richiesta di usufruire dei previsti benefici fiscali. L’articolo 41 stabilisce l’entità del contributo dello Stato, che non può superare il 50% della spesa prevista. , ma a norma del comma 1, lo Stato può concorrere nella spesa sostenuta per gli interventi disposti dallo stesso Soprintendente per garantire la conservazione ed impedire il deterioramento del bene, in misura superiore, anche con copertura dell’intera spesa “qualora si tratti di opere di particolare interesse ovvero eseguite su beni in uso o godimento pubblico” (nel nostro caso, archivi storici aperti alla ricerca). Queste disposizioni sottolineano con forza (anzi, credo rendano assolutamente evidente) quella necessità di coordinamento e collaborazione di cui parlavo in precedenza. Infatti, in presenza di una disponibilità di fondi da parte dell’Unione (sto pensando all’”otto per mille”) e di una disponibilità statale che si esprime in termini di sostegno economico e di consulenza tecnico-scientifica nell’elaborazione dei progetti e nella verifica dell’andamento dei lavori, sarebbe a mio giudizio pura follia disperdere a pioggia le risorse. A maggior ragione, ciò vale per gli interventi disposti dal Soprintendente , che possono tradursi (con una adeguata programmazione pluriennale) in progetti di grande respiro miranti al recupero e alla valorizzazione di interi settori. Mi spiego con un esempio: sono attualmente in corso due iniziative, i cui risultati ci riempiono di soddisfazione: una, denominata “Carte da legare” punta al censimento e al recupero (con la costituzione di una grande banca dati delle cartelle cliniche) degli archivi storici degli ex ospedali italiani; l’altro, “Studium 2000”, è mirato all’ordinamento degli archivi storici delle Università.4 Grazie alla collaborazione, in un caso con la dirigenza delle ASL competenti ed un pool di psichiatri, nell’altro con le istituzioni universitarie, stiamo ottenendo risultati considerevoli, a fronte di difficoltà che ci parevano insormontabili. Sono modelli di intervento riproponibili in altre situazioni, non escluse le Comunità ebraiche, così come in maniera non dissimile si è strutturato il grande progetto “Ecclesiae venetae”, con il censimento e l’ordinamento informatizzato degli archivi storici delle diocesi del Veneto.
E, a proposito di archivi ecclesiastici, un altro possibile modello delle forme di collaborazione è offerto dal Protocollo di intesa siglato il 18 aprile 2000 dal Ministero per i beni e le attività culturali e il Presidente della Conferenza episcopale italiana , a proposito di archivi storici e biblioteche appartenenti ad enti ecclesiastici.
Le procedure proposte non comportano alcuna abdicazione alle esclusive responsabilità statuali e consentono alla controparte una facoltà di proposta, da esercitare con cadenze periodiche e da interlocutori beni identificati. L’intesa tocca tutti i nodi cruciali di una attività di tutela correttamente impostata: l’inventariazione e la catalogazione del patrimonio, il restauro, l’accesso al pubblico, la formazione del personale tecnico, il recupero del materiale illecitamente sottratto, fino alla collaborazione in caso di calamità naturali.
Anche questo accordo, raggiunto attraverso una lunga procedura, può costituire un utile precedente. Come un utile esperienza è stata quella portata avanti dalla Commissione Anselmi che, in materia di ricerca della documentazione pertinente al tema di cui doveva occuparsi, ha svolto gran parte del suo lavoro in stretta collaborazione con l’amministrazione archivistica.
Restano da dire poche cose, rispetto alle novità legislative: l’alienazione degli archivi appartenenti a persone giuridiche private senza fini di lucro è soggetta al rilascio di una autorizzazione , a sua volta legata alla condizione che dalla cessione del bene non derivi grave danno alla conservazione e alla pubblica fruizione del bene stesso. Questo, ad esempio, non sarebbe il caso in cui una Comunità ebraiche cedesse il suo archivio ad un’altra Comunità, o ad un Istituto culturale ebraico, che anzi, potrebbe anche garantirne una migliore accessibilità. Anche per un archivio dichiarato di notevole interesse storico appartenente ad un privato, esiste l’obbligo di denuncia al Soprintendente archivistico, in caso di alienazione. Lo Stato può esercitare un diritto di prelazione in caso di alienazione a titolo oneroso.
Due parole, infine, a proposito del concetto di riservatezza relativamente ai dati personali, ossia, le ricadute in campo archivistico della cosiddetta “legge sulla privacy”. Ci riguarda in modo particolare, giacché nella categoria “dati personali sensibili” rientrano quelli afferenti alla razza, religione, credo politico e filosofico, ecc. e ancora prima, troppo spesso le “situazioni puramente private e personali” della vecchia legge archivistica (DPR 1409/63) sono state l’ostacolo su cui si sono infranti i tentativi di ricerca sull’applicazione delle “leggi razziali”.
La disposizione introdotta dal comma 4 dell’art.7 del d.lg. 30 luglio 1999 n. 281
(che modifica ed integra quanto previsto negli artt. 101, 107-110 del Testo Unico) consente ai proprietari e possessori di archivi dichiarati di notevole interesse storico il trattamento dei dati personali (ovviamente, in riferimento ai documenti dell’archivio dichiarato) prescindendo dal consenso degli interessati. Si estende così agli archivi privati dichiarati la norma di esclusione del consenso per il trattamento dei dati personali a fini di ricerca scientifica e statistica nel rispetto dei codici deontologici
(art.4 del d.lg. citato); è altresì consentita la comunicazione degli stessi dati alle stesse condizioni. L’art.3, poi, “legittima, in via generale, il trattamento dei dati personali per scopi storici, di ricerca e di statistica, considerando tale trattamento in via di principio compatibile con gli scopi per i quali i dati sono raccolti o successivamente trattati.”}5. L’art.9, infine, estende agli “archivi privati utilizzati per scopi storici, secondo le modalità individuate , nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali, dal codice di deontologia e buona condotta(…)” le disposizioni contenute nell’art. 21 del D.P.R. 1409/636. Il d.lg. 281/99 (art.8) ha sostituito la categoria di “situazioni puramente private di persone” con quella dei dati definiti dagli art. 22 e 24 della legge 31 dicembre 1966, n.675: e. cioè, con i cosiddetti “dati sensibili”, idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l’adesione a partiti e sindacati, ad associazioni di carattere religioso, filosofico, politico e sindacale, lo stato di salute, la vita sessuale. Volendo, ci sarebbe da considerare “sensibili” praticamente tutti gli archivi delle istituzioni ebraiche. Fortunatamente, rispetto a tali dati, l’art.8 del d.lg. 281/99, comma 2, modificando l’art.107 del Testo Unico, pone un limite di 40 anni dalla data del documento per la libera consultazione, limite che sale a 70 anni per i dati relativi allo stato di salute, alla vita sessuale e ai rapporti riservati di tipo familiare.
Si è fatto riferimento più volte ai codici di deontologia e buona condotta: è stato pubblicato sulla G.U. del 5 aprile scorso il Provvedimento del 14 marzo 2001 del Garante della protezione dei dati personali, Codice di deontologia e buona condotta per i trattamenti dei dati personali per scopi storici. Frutto di lunghe trattative e discussioni, alle quali hanno partecipato storici e archivisti, il codice si propone di dettare norme di corretto comportamento professionale, in materia di dati personali, per coloro che sono responsabili della gestione di archivi e per i ricercatori. L’osservanza del codice è strettamente correlata alla liceità del trattamento dei dati. Il codice è rivolto agli archivi delle pubbliche amministrazioni, degli enti pubblici e agli archivi privati dichiarati di notevole interesse storico. I proprietari, possessori, detentori di archivi non dichiarati di notevole interesse storico possono comunicare alla Soprintendenza archivistica competente l’intenzione di applicare il codice.
L’art. 5 ribadisce uno dei due cardini sui quali si articola il codice: la libera fruibilità delle fonti e l’impegno a promuovere il più largo accesso agli archivi. D’altro canto, nei successivi articoli, si impegnano gli archivisti alla riservatezza rispetto alle informazioni apprese nell’esercizio delle loro funzioni (art.6) e gli utenti al “rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone interessate” nel trattare i dati personali, così come nel darne diffusione. Per quel che riguarda i dati relativi alla salute e alla vita sessuale “l’utente si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico e dal descrivere abitudini sessuali riferite ad una determinata persona identificata o identificabile” ”art.11,comma 2). In via generale “l’utente può diffondere i dati personali se pertinenti e indispensabili alla ricerca e se gli stessi non ledono la dignità e la riservatezza delle persone” (art.11,comma 4).
Credo di dovermi scusare per avervi annoiato con questa sequela di disposizioni. Ma il senso generale del mio intervento è unico: alla fine di un lungo cammino (che spero non sarà, dopotutto, troppo lungo) mi auguro di trovare, a disposizione degli studiosi, una ventina almeno di archivi storici di istituzioni ebraiche, ben conservati, ordinati, affidati a personale preparato, centri di studio e di ricerca all’altezza della storia che testimoniano, luoghi dove si perpetua e si sviluppa la memoria straordinaria della più antica minoranza , una minoranza che non a caso- è impegnata dall’imperativo “Zakhor”: “ricorda”. Perché per le minoranze più che mai il ricordo e la conoscenza delle radici sono il fondamento delle identità e se non c’è memoria non c’è futuro.
NOTE
1 Sono gli archivi delle Comunità ebraiche di Roma, Firenze, Livorno, Trieste, Torino, Parma, Modena, quelli conservati presso il Centro bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche , nonché le raccolte archivistiche conservate presso il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. Cfr. a questo proposito M.Procaccia I beni archivistici, in La tutela dei beni culturali ebraici in Italia; atti del convegno, Bologna 9 marzo 1994,IBC, Bologna 1997,pp.32-35.
2 Per le particolari vicende di queste carte vedi M.Procaccia, Maggioranza e minoranza: dialettica storico-culturasle nelle carte private: il caso dell’archivio di Samuele David Luzzatto, in Il futuro della memoria; atti del convegno internazionale di studi sugli archivi di famiglie e di persone, Capri 9-13 settembre 1991, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale beni archivistici, Roma 1997, pp.575-583.
3 Per una analisi del nuovo Testo Unico in riferimento ai beni archivistici, vedi M.G.Pastura, Gli archivi, in La nuova tutela dei beni culturali e ambientali, a cura di P.G.Ferri e M.Pacini, Il sole 24 ore ed.,Milano 2001, pp.169-197.
4 Per ulteriori informazioni ci si può collegare con il sito della Divisione Vigilanza della Direzione generale degli Archivi, http/www.archivi.beniculturali.it, cliccando su Divisione Vigilanza e, successivamente su Progetti.
5 M.G.Pastura, Alcune considerazioni in materia di privacy, diritto di accesso e diritto alla ricerca storica, in Rassegna degli Archivi di Stato LIX (1999), n.1-2-3, pp.193-216, la citazione è a p.199. Si rimanda a questo testo per ulteriori approfondimenti.
6 “I documenti conservati negli archivi di Stato sono liberamente consultabili, ad eccezione di quelli di carattere riservato relativi alla politica estera o interna dello Stato, che divengono consultabili 50 anni dopo la loro data, e di quelli riservati relativi a situazioni puramente private di persone, che lo divengono dopo 70 anni”: