I quattro rabbini uccisi avevano lasciato le delizie dell’occidente. Per servire il Signore con il sorriso e un’agilità da prestigiatori
Giulio Meotti
Ogni loro gesto, ogni loro parola rivelava un’antica civiltà e tradizioni filtrate attraverso i secoli. Martedì mattina i loro corpi sono stati trasformati in fontane di sangue dal delirio islamista omicida che gridava “Allah Akbar”. Ma a vederli in vita, mentre dondolavano le loro ombre, quei quattro rabbini trasmettevano l’immagine plastica delle scene del Vecchio Testamento. Volevano essere dei “talmid khakham”, come quei pii studiosi che fondarono una teocrazia democratica e si ribellarono alla più temibile monarchia autocratica del tempo, l’Egitto. I quattro rabbini israeliani uccisi a colpi di machete nella sinagoga di Har Nof, a Gerusalemme, vivevano con un senso acutissimo della tragedia ebraica. La distruzione del Tempio, il pogrom di massa di Chmielnicki e la Shoah erano fisicamente presenti nelle loro vite. Per questo ai loro funerali non si è parlato di politica e non si sono sentite grida di vendetta, ma i familiari delle vittime hanno ripetuto che “nessuno conosce i piani di Dio”. Dicevano “mesirut nefesh”, in ebraico autosacrificio. “Il Signore sceglie i suoi figli, dobbiamo rispettare il suo volere”.
Questa compassione infinita, che in loro era come custodita in un involucro di diffidenza e timore, era la grandezza di Moshe Twersky, Aryeh Kupinsky, Cary William Levine e Avraham Shmuel Goldberg. Avevano una bellezza pallida e inafferrabile, intensificata da un vago disprezzo per la sicurezza. Portavano lunghe barbe bianche, l’occhio azzurro sprizzante curiosità, un borsalino nero un po’ liso sopra la kippah, dalla quale spuntavano in disordine i riccioli chiari.
Twersky era l’erede di alcune delle casate che hanno scritto la gloria dell’ebraismo ortodosso. Una vita di studio e preghiera. A chi gli diceva di prendersi una vacanza ogni tanto, Twersky rispondeva: “Non ne ho bisogno, sono sempre in vacanza qui a Gerusalemme”. Il nonno materno, Goldberg se n’era andato dalla Londra ebraica e liberalpervivere a Gerusalemme con i “timorati”, gli esecrati ultraortodossi il rabbino Joseph Soloveitchik, noto come “il Ray”, è quello che durante la stesura della enciclica sull’ebraismo Nostra Aetate, in Vaticano, spinse Paolo VI a reinserire la condanna dell’accusa di deicidio, che era scomparsa dalla bozza di lavoro su pressione delle chiese arabe orientali. L’altro nonno di Twersky, il rabbino Isadore Twersky, ha fondato il centro di studi ebraici di Harvard. “Una famiglia di principi”, così l’ha definita Marc Penner, preside della Yeshiva University di New York, la fucina dell’ebraismo ortodosso negli Stati Uniti.
Pochi giorni prima della strage, il rabbino Twersky aveva spiegato ai membri della sua comunità che potevano essere uccisi in qualsiasi istante: “Dovete essere pronti per il kiddush Hashem (la santificazione del Nome, ndr). Non potete sapere dove. Può succedere a Mosca, a Parigi, a Londra, a New York, a Gerusalemme. Un arabo potrebbe prendere un coltello…”. Sapeva di essere nel mirino dei terroristi palestinesi.
Al primo approccio, il mondo israeliano presenta, talvolta quasi esasperandoli, i caratteri delle più evolute, spregiudicate società occidentali. Alle donne sono aperte tutte le carriere, dalla politica all’esercito; le ragazze fanno venti mesi di servizio militare, pattugliano col mitra a tracolla, la minigonna è l’uniforme delle adolescenti, le edicole espongono al pubblico riviste di audacia svedese, i gay pride sfilano sulla costa. A Har Nof, nella sinagoga della strage, era raccolto l’altro Israele, quello pio, umile, religioso, scuro, la pancia del paese che si snoda fra i popolatissimi quartieri ultraortodossi, le periferie povere e devotissime, le colonie e i grandi quartieri della Gerusalemme sorta dopo il 1967. E’ l’Israele ritratto in maniera antipatizzante ma stupenda da Amos Gitai nel film “Kadosh”. Nella collina della strage viveva anche Ovadia Yosef, scomparso un anno fa, quel gigantesco rabbino, terribile e magnifico, che aveva conquistato il titolo di “Ma’or Yisrael”, la Luce di Israele. Il motto di questa parte del paese è: “Prima la Torah, poi lo stato”.
I quattro rabbini erano forti di matrimoni che durano per tutta la vita ed erano affollati di figli, perché il controllo delle nascite non è contemplato. Vivevano in case di pietra grigia, povere, sovraffollate, come in un’isola preclusa alla storia. Hanno lasciato 24 orfani, tutti avviati a una vita non certo facile nelle scuole di Bnei Brak, il quartiere ultrareligioso della secolarizzata, bellissima e lasciva Tel Aviv.
Sveglia alle sei e mezzo. Preghiera per ringraziare e chiedere un altro giorno “pieno di significato”. Alle sette e mezzo, in classe. Un’ora di preghiera, mezz’ora di colazione e poi tre ore di Talmud. L’ora del pranzo, alle tre del pomeriggio, non è un relax. Gli studenti la usano per andare a convincere gli altri ebrei della bellezza della loro religione. Alle quattro, di nuovo in classe per studiare le leggi-base dell’ebraismo, alle sette preghiera e cena. Alle otto filosofia, poi è permesso studiare con un compagno. Mezzanotte è l’ora del meritato riposo.
L’attentato alla sinagoga è stato un déjà-vu. Gerusalemme, 19 agosto 2003, l’autobus numero due è pieno di fedeli di ritorno dal Muro del Pianto. Ventitré ebrei saltano in aria con il kamikaze palestinese e le sue uri dagli occhi scuri. Era chiamato “l’autobus della santità”. Per molte delle vittime recarsi al Muro era una vacanza, fonte di gioia immensa.
Gli assistenti sociali e i medici non erano preparati a quello che avrebbero visto. Perché molte delle vittime erano bambini. E perché le vittime erano tutti ebrei ultraortodossi. Come il rabbino Eliezer Weisfish, che apparteneva a una delle più famose famiglie assidiche d’Israele ed era appena stato in Ucraina per onorare la tomba del rabbino Nahman di Braslav, narrato nei libri di Martin Buber. Da anni cercava di avere un figlio, invano. Alla moglie, nel caso che fosse morto, aveva chiesto di essere sepolto con due valigie che contenevano i suoi libri più cari. Come Feiga Dushinksi, che andava a pregare ogni mattina a ciò che resta del Tempio di Salomone. I terroristi l’hanno uccisa sulla via del ritorno. Ogni sabato dava da mangiare a un centinaio di bambini nella sua casa. Come Liba Schwartz, che si sarebbe salvata se non si fosse attardata tanto al Muro per recitare i Salmi. Ma non poteva rinunciare, per nulla al mondo.
Quando i paramedici cominciano a occuparsi dei cadaveri da sgombrare, sentono il vagito di un neonato. Ma non capiscono da dove viene. Poi si rendono conto che il neonato è sotto quei corpi. I morti lo hanno salvato. Ha tre mesi. Illeso. Sono i giorni di Elul, il mese della penitenza. Poco lontano di lì, si forma un gruppo di preghiera spontaneo: “Perdonaci, padre dell’Universo, in nome dei neonati che non hanno colpa verso di te”.
Erano fatti di questa pasta i quattro rabbini di Har Nof. Erano tutti “saliti” a Gerusalemme, immigrati che frequentavano una sinagoga di ebrei ortodossi anglofoni. Dicevano di voler “aiutare i sedici milioni di ebrei nel mondo a raggiungere il contatto con Dio e con i Comandamenti”. Le parole d’ordine di Twersky erano saggezza (chochmah), comprensione (binah) e conoscenza (daath). Alcuni erano hassidim, gli ebrei del contagio della gioia. Twersky e gli altri stavano nel mondo, ma fuori del mondo. Ma alla danza e all’allegria degli hassidim, i quattro coniugavano anche i rigori della Legge.
Li vedi ovunque a Gerusalemme, sono sempre di buon umore, si rivolgono agli sconosciuti con il sorriso sulle labbra, si offrono immediatamente di allacciare i filatteri, che arrotolano intorno al braccio con un’agilità da prestigiatori. La famiglia Twersky risale al Baal Shem Tov, il fondatore dell’hassidismo a cui hanno dedicato pagine insuperate Martin Buber, Elie Wiesel e i fratelli Singer. Erano gli eroi di un mondo di semplicità, di schiettezza e di prodigiosa familiarità con Dio; quello stesso mondo che Marc Chagall ha rivelato con la sua arte pittorica. L’educazione e l’assistenza sociale erano le priorità dei quattro ebrei uccisi. Perché in nessun paese cultura e scuola hanno dovuto superare tante difficoltà come in Israele, dove gli immigrati sono giunti da civiltà, tradizioni, ambienti diversi. Nemmeno la lingua li univa, e la maggior parte ha dovuto imparare l’ebraico.
Non si pensi a biografie edificanti e un po’ noiose; al contrario, vibra nelle storie individuali dei quattro rabbini il paradosso di una dismisura che è interamente calata nella concretezza dell’umano, la radicale assenza di astrattezza, il continuo passaggio dalla terra al cielo, una sublimità intinta di umorismo. I rabbini uccisi dai terroristi palestinesi avevano tutti lasciato vite di agi e assimilazione nelle periferie d’occidente.
Levine erano nato a Kansas City, era il figlio di un avvocato, se ne va in Israele nel 1952, si mette i filatteri rituali e non torna più indietro. Levine, coi suoi nove figli, frequentava il quartiere di Meah Shearim, che significa “cento porte”, una fortezza in cui gli ebrei vivono, dormono, lavorano con la Bibbia e il Talmud sotto gli occhi. Non si tagliano le basette e raccolgono i capelli in lunghi boccoli che gli ricadono inanellati dalle tempie, il sabato non accendono luce, né fuoco, pregano in continuazione.
Il rabbino Kupinsky veniva invece da Detroit, dove era molto noto in città (i genitori insegnavano alla Wayne State Uni-versity). Kupinsky si era trasferito a Har Nof dalla colonia di Kiryat Arba, presso Hebron, la “città dei Quattro”, quella dei Patriarchi ebrei Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Rebecca e Lea. E’ una vita dietro un alto recinto di metallo che corre tutt’attorno alle case, all’ufficio postale, alla scuola, e che divide gli ebrei che stanno dentro da tutto il resto del mondo. Un posto dove la guerra non sta in televisione, ma entra nelle case basse di pietra bianca, nei viali lindi, nella pineta, nei giochi per i bimbi. Per questo è una città dove tutti girano armati, perché gli agguati mortali sono all’ordine del giorno. “Benvenuto al Messia”, dice lo striscione giallo che accoglie i visitatori all’ingresso. Fu fondata con la benedizione dei laburisti, non del Likud. Nacque con diciotto abitanti e undici Bibbie. Oggi vengono da tutto il mondo per vivere in quella conca dell’odio e della santità, una sorta di Svizzera ordinata buttata in mezzo all’inferno caotico del medio oriente.
Il rabbino Goldberg invece era un ingemere chimico di Liverpool diventato consulente degli haredim, “i timorati”, che vivono in case senza mobili, indossano calze bianche fino ai polpacci e pantaloni alla zuava su cui calano giacche di forma diversa, dai riccioli laterali che cambiano forma o posizione (lisci o a cavatappo, davanti o dietro le orecchie), con mogli che indossano parrucche e abiti lunghi fino ai piedi coi bottoni d’oro.
Il rabbino Goldberg era arrivato in Israele nel 1991, mentre gli scud di Saddam Hussein colpivano Tel Aviv, l’Iraq minacciava di “bruciare metà Israele” e gli ebrei tiravano fuori la maschera antigas dalla scatola color kaki che avevano nascosto in un angolo della casa, per esorcizzarla. Goldberg aveva lasciato le idilliache collinette di Golders Green, il quartiere trendy e liberal della middle class ebraica di Londra.
Quei quattro rabbini erano tutti figli di sopravvissuti, di pogrom zaristi o soluzioni finali naziste, che si sono stabiliti in America ed Europa e hanno continuato a testimoniare il rifiuto della modernità che i loro nonni avevano proclamato nelle campagne dell’Ucraina e della Bielorussia. Per esempio, vestendosi sempre con cappotti e cappelli neri dell’Ottocento e compiendo i loro riti secondo norme antiche e rigorosamente osservate. Hanno studiato a Berlino e a Parigi, hanno letto Proust e Hegel, hanno assaporato il mondo e i suoi peccati prima di dedicarsi completamente alla vita religiosa. Facevano parte di comunità ebraiche che in Unione sovietica più si adoperarono, eroicamente e subendo gravi persecuzioni, per la sopravvivenza dell’ebraismo, costruendo yeshivah, sinagoghe clandestine, bagni rituali sotterranei e organizzando l’emigrazione e la fuga di molti ebrei.
Quando gli attentatori palestinesi hanno fatto irruzione nella sinagoga di Har Nof, i quattro rabbini non li hanno nemmeno visti, perché i loro occhi erano rivolti a est, raccolti in preghiera verso la città vecchia di Gerusalemme dove un tempo sorgeva il Tempio e l’Arca dell’Alleanza. Sono stati uccisi con indosso i filatteri, le capsule di cuoio contenenti versetti biblici che vanno cinte intorno alla testa e vicino al cuore durante le orazioni del mattino. Gli occhi ancora fissi sul siddur, il libro della preghiera. Su un Salmo: “Questa è la porta di Dio e i giusti vi entreranno”.
Erano davvero i principi di Israele. Le loro treccine, stando a una leggenda polacca, martedì scorso sono state usate dagli angeli per far risalire le anime di questi quattro santi. Il giorno dopo il massacro, alla yeshivah Bnei Torah sulla collina di Gerusalemme ovest, il sangue dei quattro martiri kedoshim era già stato portato via, per essere sepolto assieme ai loro poveri resti. Ma trenta caffettani neri si sono ripresentati alla porta della sinagoga di buon mattino per rendere grazie a Dio. Perché Dio possa tornare a sorridere dopo un giorno brutto.
Il Foglio – 22 Novembre 2014