Tratto da “I giorni del mondo – Guido Artom”, Longanesi 1981
Raffaele aveva informato il rabbino che quel giorno gli avrebbe fatto lui stesso da lettore, come presidente della Comunità, e ora, con lo scialle da preghiera sulle spalle e il cilindro sul capo, apriva per lui l’Arca Santa, tirando la tenda di velluto ricamato e lo aiutava a portare processionalmente sul leggio i rotoli della Legge, incoronati d’argento, avvolti in ricami d’oro.
Accanto a lui, sforzandosi di vincere il tremito ormai costante, seguiva con l’asticciola le antiche parole miniate sulla pergamena che andava leggendo. La lettura di quel giorno era pienamente adatta agli avvenimenti che festeggiavano e per cui ringraziavano Iddio: il capitolo sesto del Libro di Giosuè, in cui si narra l’assedio e la caduta di Gerico, porta della Terra Promessa. Dopo che il rabbino, lette le preghiere del rito, ebbe commentato brevemente la lettura di quel giorno, Raffaele gli fece cenno di voler dire anche lui qualche parola. Si guardò in giro dall’alto della tribuna in cui si celebrava la funzione, davanti alla porta aperta dell’Arca Santa: nei banchi intorno a lui, avvolti negli scialli da preghiera, c’erano tutti gli uomini della Comunità. Non mancava nessuno, dal più ricco, Zaccaria, con i due figli maschi, ai più poveri, che esercitavano ancora i mestieri umili del passato, venditori d’abiti usati, piccoli artigiani, accanto a giovani professionisti, medici, avvocati, commercianti, cambiavalute, e l’unico gioielliere, il signor Levi, che era ormai il primo della città con negozio sotto i portici: tutta la società diversificata che la Comunità era divenuta con l’emancipazione, dai più vecchi ai ragazzi che, appena compiuti i tredici anni, erano considerati uomini. Dietro la griglia del matroneo, si udivano le voci sommesse delle donne in preghiera, qualche strillo di un bambino irrequieto che la mamma tentava di zittire. C’era tutta la gente della Comunità, gli anziani come Raffaele, che avevano vissuto la lunga attesa, e i giovanissimi che ormai andavano a scuola coi coetanei cristiani. Quelli tra i giovani che mancavano erano soldati, qualcuno ufficiale, forse avevano partecipato alla grande battaglia; c’era, chissà, fra loro, chi era morto o era rimasto ferito, e la notizia non era ancora giunta ai genitori in ansia. Raffaele guardava quelle persone, centocinquanta, duecento, tra cui aveva trascorso tutta la vita, e li riconosceva quali aveva voluto ch’essi diventassero, insieme Ebrei e italiani, come lui, raccolti in una preghiera di ringraziamento per la vittoria ottenuta dall’esercito di quella stessa casa regnante che per gli Ebrei, nel passato, rappresentava l’oppressore. Cominciò anche lui, come il rabbino, dalla lettura biblica di quel giorno, augurandosi che così com’erano cadute le mura di Gerico al suono dei corni d’ariete, di fronte alle loro preghiere e al valore dei soldati cadessero le fortezze del Quadrilatero e fossero liberati dallo straniero i fratelli di Verona, di Mantova, di Venezia, Comunità che avevano dimostrato, col sangue e le sofferenze, i loro sentimenti italiani. Proponeva che la Comunità di Asti offrisse un’ambulanza all’esercito sardo per soccorrere i feriti nelle prossime battaglie. Annunziò che una lista di sottoscrizioni si sarebbe aperta l’indomani presso la Comunità, certo non quel giorno, perché nella giornata sabbatica non è lecito maneggiare la penna e il denaro, neppure per fini benefici. Invitò a pregare per il re, ricordando che all’auspicio di vittoria del suo primo nome si univa, nel secondo, Emanuele, il grido ebraico che proclamava che Dio era con loro. Concluse dicendo: « Raccomandiamo a Dio i combattenti, a qualunque religione appartengano ». A Dio, ripeté, e questa seconda volta, istintivamente, aggiunse un’altra d, così che la parola d’invocazione diventò un « addio ». Gli pareva di dover salutare i membri della Comunità, come se oscuramente sentisse che per lui era l’ultima occasione di vederli riuniti.
Benedetta si affrettò a casa, per assicurarsi che tutto fosse pronto per il pranzo: come ogni sabato, avrebbe portato lei stessa a tavola le pietanze, giacché anche per la domestica, che era Cristiana, quello era considerato dagli Ebrei un giorno di festa, in cui non si debbono compiere lavori servili. Ma certamente non è servile per una moglie e una madre offrire il cibo ai propri cari.
Con Alessandro, salutati gli amici alla porta del Tempio, Raffaele si avviò per la Contrada Maggiore, verso il negozio del pasticcere, dove in ogni giornata festiva sceglieva i dolci per la famiglia. C’erano sul marciapiede soldati ungheresi che passeggiavano con astigiani, con cui avevano fatto amicizia. Parevano intendersi a meraviglia, specialmente con le ragazze. Davanti alla vetrina del pasticcere c’era uno di loro, a rimirare le torte e i pasticcini esposti: forse non aveva abbastanza denaro in tasca per entrare e comprarne.
Raffaele gli si avvicinò e lo toccò sui braccio: « Giovanotto, da come li guarda, mi sembra che i dolci piemontesi le piacciano. Ne gradirebbe uno, con un vermut, per festeggiare insieme la vittoria sugli austriaci? »
Il soldato si voltò a guardarlo, stupito. Era un ragazzo alto e robusto, stretto nella tunica e nel cinturino, con mustacchi folti e capelli neri lunghi sotto il cheppì. Non rispose nulla, forse ancora poco familiare con l’italiano. Ma aveva capito l’offerta di Raffaele, e fece cenno che accettava l’invito, con un sorriso un po’ sorpreso e intimidito. Entrarono tutti e tre nel negozio, accostandosi al banco dove si mescevano i liquori. Alessandro e il padre brindarono con lui alla vittoria comune, dopo averlo invitato a scegliersi una pasta. Il soldato ungherese l’italiano lo parlava un po’, con un accento gutturale; disse, con tono riconoscente, battendo i tacchi e dopo essersi portato la mano alla visiera del cheppì: « Grazie, signore ».
Mentre Raffaele si faceva riempire dal pasticcere un cartoccio di dolci, come tutti i sabati, gli venne un’idea: perché non invitarlo a pranzo? Avrebbe potuto chiedergli dell’Ungheria, di Kossuth, in così stretta relazione con Cavour, parlargli dell’oppressione austriaca di cui già dieci anni prima, insieme coi lombardi, avevano cercato di liberarsi, conoscere la sua storia, certamente avventurosa. Il soldato accettò l’invito, con occhi lucenti di soddisfazione, e si sentì in dovere di presentarsi, di dire il suo nome, Janos, aggiungendo che voleva dire Giovanni. Era chiaro che non aveva ancora fatto amicizia con nessuno ad Asti e l’invito valeva anche a riempirgli una giornata di solitudine e a procurargli un pasto migliore del rancio in caserma.
Alessandro fu mandato a casa ad avvertire la madre di mettere un piatto in più per un ospite. Il cibo, specialmente il sabato, era sempre abbondante su quella tavola e ce ne sarebbe stato per tutti. Raffaele prese il cartoccio delle paste e fece cenno al negoziante che avrebbe pagato l’indomani: gli rispose sorridendo, con un inchino, consapevole che il signor Raffaele, come gli altri della sua religione, non toccava denaro di sabato. Si avviò verso casa, col soldato ungherese accanto, che gli offrì il braccio dicendo, con la riconoscenza negli occhi: « Lei, signore, come mio padre ». Nella breve passeggiata fino a casa, Janos raccontò, col suo italiano stentato, che era scappato con altri tre compagni dal battaglione austriaco in cui prestava servizio, dalle parti del Ticino. Avevano traversato a nuoto il fiume e si eran presentati a un avamposto piemontese, chiedendo di essere arruolati. « Così, lei è disertore. Lo sa che se gli austriaci la fanno prigioniero, la fucileranno? » « Sì. Ma meglio essere uccisi dai nemici, che rischiare di morire per una pallottola piemontese, di amici. » Appariva pieno di un coraggio tranquillo, come se sentisse la certezza che quella guerra che piemontesi e francesi combattevano contro l’Austria avrebbe portato la libertà anche al suo Paese, permettendogli di ritornare tranquillamente dai suoi. Gli si leggeva in viso la contentezza per l’incontro che gli aveva procurato un invito inatteso. Erano arrivati davanti a casa. Attraversarono il cortile e Raffaele gli fece cenno di varcare la soglia. Lo vide fermarsi di colpo, guardare con aria sbigottita la mezuzah appesa allo stipite, con le lettere ebraiche di benedizione nel cilindretto d’argento. L’ungherese la fissò sbalordito: poi gettò un’occhiata nella stanza d’ingresso, dove pendeva la lampada sabbatica coi lucignoli accesi. Sbiancò in viso, puntandogli addosso uno sguardo acceso di un odio improvviso, come se l’avesse attirato in un tranello. Si fece di colpo paonazzo, con la schiuma alla bocca. Sputò in terra in direzione della mezuzah, gridando: «Questa casa ebrea. Io non mangio in casa ebrea, con Ebrei ». Si calcò in capo il cheppì che s’era tolto nel cortile, e si allontanò a gran passi infuriati. Raffaele non scambiò una parola con Alessandro e Benedetta, che pure, dalla stanza accanto, dovevano aver udito le frasi urlate dall’ungherese. In silenzio, Benedetta tolse il piatto e le posate preparati per l’ospite. Raffaele si accostò alla tavola e, prima di sedersi, benedisse il pane e il cibo preparati per festeggiare il sabato. Ma non aveva appetito. Il cartoccio delle paste rimase sopra la credenza, legato con cura con lo spago dorato.
In collaborazione con Cdec – Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea